Quadrature del cerchio e altre scommesse
Da qualche tempo il sito di “Doppiozero” ha cambiato veste grafica e impaginazione, facendosi più nitido, geometrico, accessibile. La sua economia, giocata su una relazione stretta e mai tautologica tra parola e immagine, permette di attraversarlo in tutte le direzioni – nell’orizzontalità dei campi tematici e nella verticalità dell’ormai densissimo archivio – con agio e scorrevolezza. È come se Paola Lenarduzzi, Stefano Chiodi e Andrea Morando, cui si deve questa operazione di re-styling, avessero voluto rispondere al quesito che si dovrebbe porre chiunque disegni un sito culturale: come si fa a renderlo ospitale? O, per dirla altrimenti, come si fa a renderlo accogliente e non banalmente invitante, chiaro ma non rigido, serio ma non austero, originale ma non istericamente trendy, stimolante ma senza furberie? Come si fa a metterne in rilievo la funzione e la finalità di contenitore e recettore di idee, pensieri, informazioni che mirano a creare uno spazio comune di riflessione, scambio, scoperta, azione? In estrema sintesi, come si fa pratica culturale sulla rete senza ricalcare la forma della rivista cartacea e senza abbandonarsi all’esaltazione della velocità, dell’approssimazione, della superficialità, del troppo pieno? Come si fa, infine, a rendere il tutto economicamente sostenibile, mettendo a tema la relazione con il denaro e con il mercato e ipotizzando un modo diverso di misurarsi con le loro metalliche regole del gioco?
E qui entra in campo l’esperimento, inedito nella forma e nelle intenzioni, che “Doppiozero” ha affidato a uno dei suoi collaboratori, Giuseppe Mazza, e alla sua squadra, l’Agenzia pubblicitaria Tita. L’iniziativa, il cui scherzoso e tuttavia programmatico titolo è “powered by”/alimentato da, è stata lanciata in parallelo al rimodellamento del sito. In che cosa consiste? Nel creare e proporre una serie di campagne pubblicitarie, invitando i lettori a guardarle, analizzarle, criticarle, commentarle, goderne, come si fa con un testo o un’immagine. L’idea che sta dietro a questa ricerca è che l’immagine pubblicitaria sia infatti un’opera a pieno titolo e come tale vada valutata. Chiudere gli occhi, saltarla, evitarla, far finta di non vederla, demonizzarla o subirla sdegnosamente in cambio di vil denaro, come tendono a fare uomini e donne di cultura italiani, è un esercizio di passività o di pigrizia intellettuale e una delega in bianco a produttori di merci e servizi e pubblicitari spesso allo sbaraglio o alla canna del gas.
Operazione ardita, senza alcun dubbio, in un paese che continua a non prendere in considerazione – non si sa se per spocchia, ipocrisia o schietta ignoranza – uno dei linguaggi più complessi, sofisticati, influenti e pervasivi della modernità. Non meno fondamentale, rispetto alle trasformazioni sociali avvenute nel corso dell’ultimo secolo, del cinema, della televisione, della grande distribuzione e del consumo di massa, del quale sarebbe miope considerarlo semplice e meccanico strumento.
Attraverso “powered by”, Doppiozero inaugura dunque un ‘esperimento’ (nel senso etimologico di operazione rivolta ad accertare qualcosa) di ri/valutazione del linguaggio pubblicitario. Chi apre oggi la pagina http://www.doppiozero.com/, nella prima fascia dei contenuti, in alto a destra, trova un banner pubblicitario che, pur dichiarandosi apertamente tale, dice anche molto altro. Per esempio che è possibile immaginare uno spazio di esplorazione alla pari dove produttori, pubblicitari, illustratori e lettori, possano esercitare, gli uni, l’arte sottile di una buona e godibile informazione applicata alle cose da vendere e, gli altri, una capacità critica di sguardo e di attenzione e la simpatica attitudine a non pensarsi sempre vittime di qualche più o meno occulto macropotere. Ne potrebbe scaturire una maggiore autonomia di giudizio per chi sta a valle e una maggiore creatività per chi sta a monte: un’alleanza interessante, in grado di porre noi consumatori davanti all’uggiosa e piuttosto rozza ripetitività del nostro immaginario e i pubblicitari di fronte alla loro indolente tendenza ad accodarsi ad esso, magari stuzzicandolo o provocandolo.
Leggiamo ciò che scrive Tita nel presentare il proprio lavoro: “Produrre forme di comunicazione interessanti e divertenti, non invasive né così palesemente disinteressate alla reazione del pubblico. Noi vorremmo occuparci proprio di questo. Anche perché pensiamo sia urgente offrire soluzioni praticabili, capaci di conciliare tutte le esigenze: la visibilità del marchio – che sente di avere qualcosa da comunicare – la libertà di navigazione – che per ogni lettore è un dato acquisito – e anche il finanziamento dell'informazione libera – che deve sopravvivere in condizioni difficili”.
La quadratura del cerchio, ho pensato con scetticismo di primo acchito. Poi, guardando e riguardando i contenuti, la forma, la collocazione della prima campagna pubblicitaria apparsa su “Doppiozero” e il suo modo di interagire con il sito, le intenzioni del gruppo hanno cominciato a trovare conferma. ‘L’altra pubblicità possibile’ è affiorata, compatibile con l’impostazione e lo stile di un sito non-profit che ha scelto di mettere il “rinnovamento culturale al centro del dibattito”.
Come avevano lavorato per arrivare a produrre quell’effetto? Intanto ragionando a fondo sulla cosa da pubblicizzare, capendo quale doveva essere il tema della campagna, riassunto dallo stesso committente in otto parole chiave. Quelle parole/stimolo, affidate a otto giovani illustratori di diversi paesi del mondo, si sarebbero tradotte in altrettante opere (disegni, collage, animazioni) capaci di parlare in un sol colpo del prodotto e di come sia possibile illustrarlo in modo originale senza ricorrere ai consueti sex gadget pigliatutto cari a tanti pubblicitari. Perché la pubblicità, come ha scritto il mad man newyorkese Bill Bernbach, che dei Tita è con tutta evidenza il maestro, “è fondamentalmente un modo per convincere e convincere non è una scienza. È un’arte”. E l’arte non è inganno o manipolazione, bensì creazione. Per realizzarla ci vuole gente in grado di fare “cose ispirate”, che provino “al mondo che il buon gusto, l’arte, la bella scrittura possono dar vita a un buon modo di vendere”. E forse anche a un modo meno ebete di vivere.
Sarebbe bello che “Doppiozero” desse campo e valore a questa istigazione necessaria, magari promuovendo una pubblica discussione sulla scommessa appena fatta e invitando chi legge e guarda a dire la sua.
Invece di inalberarci quelle rare volte che intercettiamo un annuncio pubblicitario ‘offensivo’ (per chi e perché è una questione nella questione), potremmo cominciare a ragionare del sistema economico in cui operiamo e del ruolo svolto dalla pubblicità. Ma anche interrogarci sul nostro immaginario, sulla nostra flebile capacità di sganciarlo dalle mortifere figure dell’umano, maschile e femminile, ipostatizzate dalle immagini (non solo pubblicitarie) che popolano il nostro paesaggio quotidiano.
Potremmo insomma diventare propositivi, invece di accontentarci del ruolo passivo di chi dice no, no, no e quando gli chiedono cosa vorrebbe al posto di ciò che non gli piace, non sa cosa dire, perché non dispone di immagini alternative di sé e del mondo.