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Speciale Fellini / Pubblicità: troppo bella per essere cattiva
Cento anni fa, il 20 gennaio 1920, nasceva a Rimini Federico Fellini. Lontano dalle celebrazioni, su doppiozero vogliamo raccontare un regista-antropologo che ha saputo penetrare come pochi altri l’identità (politica, storica, sessuale) italiana. Uno sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatore partecipante”, che si affianca a quello di tanti altri intellettuali e artisti (da Leopardi a Gramsci, da Salvemini a Bollati) che negli ultimi due secoli hanno cercato di spiegare quello strano oggetto chiamato Italia.
Abbiamo voluto raccontare Fellini attraverso i personaggi e i luoghi dei suoi film: dallo Sceicco Bianco a Casanova, da Gelsomina a Cabiria, da Sordi a Mastroianni, dalla Roma antica a quella contemporanea, passando ovviamente per la provincia profonda durante il Ventennio fascista. Una sorta di “album delle figurine” per aprire nuovi sguardi su un cineasta forse più amato (e odiato) che realmente studiato.
Quest'articolo di Giuseppe Mazza è una rielaborazione, realizzata appositamente per doppiozero, di testi contenuti in differenti capitoli del suo Cinema e Pubblicità – La relazione sorprendente (Editrice Bibliografica, 2019).
Come mai davanti casa del dottor Antonio è sbucato quel gigantesco cartellone pubblicitario? E perché il suo slogan – bevete più latte – è proposto da una donna in abito da sera? Ci troviamo nel 1962 felliniano, quando non si spengono le polemiche dell'Italia più bigotta contro lo scandalo di La Dolce Vita (1960): interrogazioni parlamentari, l’“Osservatore Romano” che titola Ora basta!, il divieto ai minori e in chiesa i cartelli – come racconta li regista – “preghiamo per il peccatore Fellini”.
Un clima al quale l'autore ha risposto artisticamente con un cortometraggio, inserito nel film a episodi Boccaccio '70, per il quale ha inventato un ultra-censore, il dottor Antonio, interpretato da Peppino De Filippo. In più, la testimonial pubblicitaria su quel cartellone è non a caso proprio la biondissima Anita Ekberg, simbolo sessuale e dirompente star di La Dolce Vita. Perciò non stupisce che il bacchettone sia tanto turbato da scatenare una furiosa crociata moralizzatrice. Che però lo vedrà soccombere: in una celebre sequenza notturna, Anitona esce dal manifesto, maestosa, e si prende gioco del censore fino a farlo impazzire. Finale: il dott. Antonio è portano via da un'ambulanza, e il cartellone trionfa.
Può sembrare strana, l'autodifesa firmata da Fellini. Il suo nemico immaginario, infatti, non si è scagliato contro un film peccaminoso. Ma non era di censura cinematografica, che si parlava? E allora perché il regista in questo suo Le tentazioni del dott. Antonio – è il titolo del corto – non ci racconta senza giri di parole la storia di una pellicola sotto attacco? Semplice: Fellini si schiera come creatore d'immaginario ancora più che come cineasta. Sa di far parte di un campo più ampio, e contro ogni bigottismo autoritario chiama a raccolta lo spettacolo moderno per intero. Pubblicità compresa. In fondo, anche il simbolo che sceglie – la dimensione monstre di Anita Ekberg – ha un significato: afferma che la vastità dello spettacolo moderno sovrasta le intenzioni del censore, il quale non ne capisce la ricchezza d'implicazioni proprio perché non riesce a vederla per intero.
Faceva il cinema, Fellini? Certo, come no. Ma quale significato bisogna dare al suo ultimo ciak, che fu su un set pubblicitario (spot Banca di Roma, 1992)? Oppure alla scena finale del suo ultimo film – La voce della luna, 1990 – nel quale proprio la luna in persona annuncia la “Pubblicitàààà”? Va da sé, quelli sono gli anni dell'ascesa berlusconiana, quando una nuova Italia ha rotto gli argini e Fellini si è anche messo a capo di una rivolta degli autori contro gli spot nei film in tv. Nel 1985 fa persino causa a Canale 5, accusando l'emittente di danneggiare le sue opere con quelle interruzioni continue. Una militanza per lui insolita, che gli guadagna anche qualche simbolica vittoria, come quando nel 1991 la Rai trasmette in prima visione il suo film Intervista (1987) senza mai interromperlo neanche con un break. Un'eccezione riservata al riverito genio che però finisce con il confermare la regola, ossia la strabordante farcitura, dentro tutti gli altri film in onda, di una quantità di spot ormai fuori controllo.
Eppure, nel suo rapporto con il linguaggio pubblicitario non c'è niente di occasionale. Non lo perde mai di vista, ne fa una continua fonte d'ispirazione: lui stesso racconta l'episodio quasi magico della scelta dell'attore inglese Freddie Jones per il ruolo principale di E la nave va (1983), il giornalista Orlando.
Gli avevo scattato centinaia di fotografie, gli avevo fatto due lunghi provini e adesso, mentre lo riaccompagnavo in macchina verso l'aeroporto, e lui dormicchiava seduto al mio fianco con un sorrisino beato sulle labbra, lo fissavo quasi con odio. "Non, non puoi essere il mio Orlando", pensavo, e mai faccia mi era sembrata più estranea e sconosciuta. "Ma chi sei?" ho mormorato rabbiosamente, e in quello stesso attimo in cui formulavo questa domanda, aldilà dei finestrini della vettura in corsa, dietro il profilo di Freddie Jones che adesso russava, ecco sfilare su di un tabellone lungo venti metri un'enorme scritta: "ORLANDO". Mi sono arreso di colpo, cancellato ogni dubbio. Scritturato. Lo hai visto nel film? Mi sembra perfetto per quel personaggio. Forse Freddie Jones si risentirà un pochino se viene a sapere che l'ho scelto non tanto per la sua bravura, ma per la pubblicità che una fabbrica di dolciumi fa così vistosamente a un gelato da passeggio che si chiama appunto "Orlando". Eppure è stato così: le vie del Signore...
La réclame fa stabilmente parte del suo mondo d'incantesimi, di un linguaggio pubblico nel quale pescare suggestioni, senso, risonanze. Viene in mente il metodo da lui inventato per arruolare quei volti così caratteristici che poi facevano capolino nei suoi film. Nient'altro che un'inserzione pubblicitaria: “Pubblico nei giornali un piccolo annuncio che più o meno dice: Federico Fellini è pronto a incontrare tutti quelli che vogliono vederlo”.
Fellini vive all'incrocio tra i linguaggi. Eppure, quando gira le sue pubblicità, è accusato d'aver tradito la causa, come se la sua missione dovesse essere combattere gli spot in sé e non invece il loro sconsiderato utilizzo. Distinzione che Fellini precisa in diverse occasioni. Anche perché di spot ne gira altri. Anzi, è nel pieno della sua battaglia – 1984 – che firma il primo commercial per Bitter Campari, mentre l'anno dopo realizza il suo più popolare exploit pubblicitario, Rigatoni, per la pasta Barilla. In effetti, la réclame lo cerca proprio mentre lui fatica sempre di più a trovare produttori per nuovi progetti cinematografici. Nel suo Intervista (1987) ci scherza sopra. Si aggira per una Cinecittà ormai piena di set pubblicitari, e proprio attraversandone uno incontra un Mastroianni-Mandrake circondato da ballerine vestite di bianco che cantano Smack, smacchia tutto.
– Marcello, stai bene così.
– Ti piace? Pubblicità.
– Eh lo so. A me non la offrono più.
Nel 1992 è la volta dei tre spot per la Banca di Roma, tre sogni raccontati all'analista nei quali sembra di rivedere il personaggio creato da Paolo Villaggio per La Voce della Luna, così come nella pubblicità Campari uno dei volti arriva da E La Nave va. Anche gli altri collaboratori di questi spot sono quelli del cinema, dallo sceneggiatore Zapponi agli scenografi Ferretti e Donati fino alle musiche, alle quali si alternano Rota e Piovani. Spot che sono dei mini-Fellini, a tutti gli effetti. È il suo carisma autoriale a far sì che quei commercial aprano la strada agli altri autori di cinema-cinema, legittimandoli, sdoganando il linguaggio pubblicitario. Come raccontato da Maurizio Nichetti, non appena si seppe che Fellini firmava uno spot, molte remore vennero meno. In tanti ne seguirono l'esempio – tra questi Zeffirelli, Antonioni, i fratelli Taviani – girando commercial d'autore, come furono definiti, e abbandonando la lunga stagione delle oscure produzioni di Caroselli dei quali nascondere la paternità.
Definire le sue pubblicità come divagazioni dalla via maestra – o peggio: tradimenti – non è all'altezza del personaggio. La sua stessa biografia contraddice queste separazioni. La sua storia di autore nasce tra le immagini della carta stampata, in mezzo a manifesti e copertine, nel frastuono della cultura popolare, alla quale fin da giovanissimo partecipa pubblicando le sue caricature sulle riviste dell'epoca. È attratto dai fumetti come dal circo, dal varietà come dal fotoromanzo: lo affascinano gli eccessi spettacolari di quell'intrattenimento, i colori vivaci, le espressioni grottesche, la stilizzazione dei caratteri, l'immediatezza narrativa. Tutto quel mondo ai suoi occhi conserva la vitalità di un linguaggio non intellettuale, chiassoso e perciò più autentico, privo delle prescrizioni didattiche del potere. Anche al cinema in fondo Fellini si è avvicinato per via puramente visiva. Così rievoca la sua iniziale passione giovanile:
[...] del cinema ho in mente soprattutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l'immagine d'una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis.
Al teatro di rivista dedicò il suo esordio: Luci del varietà (1950), firmato con Alberto Lattuada. Nel mondo del fotoromanzo ambientò il suo secondo lungometraggio: Lo sceicco bianco (1952). I giornali scandalistici e la stampa popolare furono tra le ispirazioni principali di La Dolce vita (1960). Per la tv produce il documentario I Clowns (1970). È sua la sceneggiatura del fumetto Viaggio a Tulum, disegnato da Milo Manara (1986). E via elencando. Fellini concepisce se stesso dentro un più vasto universo di linguaggi moderni radicati nell'esperienza personale, nella memoria culturale. Così spiega perché non potrebbe creare fuori dal suo paese:
[...] certo della realtà italiana mi illudo di conoscere le intese speculari che si sono costruite tra i diversi sistemi di rappresentazione, tra i giornali, la televisione, la pubblicità, gli ammiccamenti e le sintesi delle immagini che tutti conosciamo...
Non si può vederlo come un uomo del puro cinema. La sua generazione precede il mondo cinéphile dei Cahiers, s'innamora del grande schermo ma non lo isola mai. Della pubblicità lo attrae in particolare la libertà linguistica, la forma breve, la possibilità di ideare le più scatenate combinazioni visive e – non ultima – quella di inventare parole per i media. Non va dimenticato che da Vitelloni ad Amarcord, solo per citare i casi più noti, la creazione del neologismo pubblicitario è costante nella sua filmografia. Fellini cerca insomma di penetrare non solo il sogno dello spettatore cinematografico ma anche il vocabolario del paese, per entrare nel discorso pubblico, tra i simboli di comunicazione.
Spritz Sugo, e la vita diventa un paciugo: quando gira Ginger e Fred (1986), si diverte a creare una pubblicità dopo l'altra. Il film racconta la storia di una vecchia coppia di ballerini – interpretati da Giulietta Masina e Marcello Mastroianni – invitati a un osceno varietà televisivo come fenomeni da baraccone. Una volta di più Fellini può chiarire la distinzione: un conto è giocare con il linguaggio pubblicitario e la sua follia, altro è opporsi all'Italia reclamistica che gli è sorta intorno. L'attacco è diretto, con una feroce satira del proprietario del canale televisivo e patron di quasi tutti i prodotti reclamizzati nella sua tv, il cavalier Lombardoni – ma si legge Berlusconi – vero protagonista nell'ombra del film. Ginger e Fred è un film saturo di citazioni, con un eccesso proporzionale alla contrarietà di Fellini. Lombardoni, marchio unico dall'allegria molesta, fintamente bonario, è diventato sponsor invadente, spropositato, senza limiti. All’arrivo alla stazione chi v’accoglie? Lo zampone del cavalier Fulvio Lombardoni – La pasta più buona del mondo, la pasta del Cavalier Fulvio Lombardoni – Ma sì, è Mortadella Lombardoni! – Pasta Solavanti, del cavalier Fulvio Lombardoni. E la vita torna a sorridere – Porchetta Lombardoni. Per un Natale di più.
Non c'era da spiegargli quanto la comunicazione pubblicitaria facesse parte del paesaggio moderno. Ma c'è ancora molto da imparare dalle sue riflessioni sul linguaggio pubblico. Al mondo di Fellini non si addicono le intemerate sessantottine o l'ira funesta alla Lars Von Trier, che contro la pubblicità ha schierato spesso il suo cinema. Quando per Le tentazioni del dott.Antonio ha ricostruito una Roma in miniatura per far giganteggiare Anita Ekberg, non dimenticò di inserire insegne e marche per aumentare la credibilità del modellino. Stock, Motta, Campari... presenze senza le quali la città notturna del film sarebbe apparsa come un semplice plastico, una ricostruzione in scala, mentre quelle insegne davano verosimiglianza, anzi vita. Ed è in quella notte che il censore, ormai vinto, si arrende all'attrice confessandole tutta la sua attrazione e dicendole sei troppo bella per essere cattiva, che è anche una definizione della pubblicità ancora insuperata.