Speciale
Progetto Jazzi / Il faggio. Si costruisce e conserva la foresta
Un nuovo contributo a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).
Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così che alzando la testa dal tavolo e vedendo l’inverno sulle montagne e sui boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per scrivere a un amico.
Ho incominciato da ragazzo a “sentire” il faggio come albero felice agli dei, e non lo sapevo. Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigli e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell’assegnazione d’uso civico. I forti cavalli nell’autunno portavano i pesanti carri verso le case degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i mucchi in bell’ordine. Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le contrade era tutto un fervore, e dove c’erano vedove o vecchi c’era sempre qualcuno che dava una mano a preparare la legna.
Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall’America, anch’io segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere rivolto verso un poggiolo dove c’era una ragazzina che usciva a guardarmi. L’odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese.
Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell’uomo, e ben lo sapevano i veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi.
Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva scelto per costruire la slitakufa, slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci.
Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l’ombra e l’umidità li ho messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso l’alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell’aspetto rotondiforme che li farà solenni. Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti.
L’anno scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d’Europa. Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma tra cinquant’anni richiameranno l’attenzione dei passanti.
Il Fagus silvatica L. è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera, ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare, nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono al grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque–dieci centimetri, ovali e brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella parte superiore, più pallide e un po’ pelose nella pagina inferiore. Quando fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta, nel ricordo di una fame tra le montagne dell’Austria, le mastico e le mangio come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma è nell’autunno, tra l’ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel color giallo rosso squillante che rallegra la selva.
Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben “radicate”. Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il tempo ha fatto l’humus con l’aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi faggi ci danno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi da notte di Natale.
L’albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti maturano alla fine dell’estate; sono a cupola chiusa, un po’ spinosa, a quattro valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi circa un centimetro e mezzo.
L’areale di questa latifoglia è tipicamente oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al mar Nero e dalle Alpi Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un’area fitoclimatica particolare: il Fagetum che sta tra il più caldo Castagnetum e il più rigido Picetum.
Le foreste possono essere pure ma anche miste con l’abete bianco e altre latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e conserva la foresta!
In Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi.