Dal Festival di Salisburgo / Castellucci: Don Giovanni, ovvero il principio di divisione
Riportiamo, per gentile concessione degli autori, la conversazione tra la dramaturg Piersandra Di Matteo e Romeo Castellucci, regista del Don Giovanni di Mozart presentato come spettacolo di punta del Festival di Salisburgo. Doveva essere realizzato nel 2020 per festeggiare i cento anni della manifestazione, ma la pandemia ha fatto sì che fosse rimandato. Il debutto dello spettacolo con la direzione musicale di Teodor Currentzis è avvenuto il 26 luglio 2021, salutato da una lunghissima, infinita standing ovation del pubblico. Le recite continuano fino al 20 agosto. L’intervista che segue è stata pubblicata sul libro programma del festival. Qui potete leggere il cast completo.
PIERSANDRA DI MATTEO: Tra fine ‘800 e inizio ‘900 l'opera di Mozart è sottoposta a una profonda revisione critica. È il momento in cui si apre una disputa sul Don Giovanni: c’è chi sostiene la sua appartenenza all’ambito dell’opera comica e chi, al contrario, ne ribadisce l’ispirazione tragica. Il dibattito nato intorno al "dramma giocoso" mozartiano è il riflesso della complessità straordinaria di quest’opera. Come interpreti l’ambiguità intrinseca al linguaggio musicale?
ROMEO CASTELLUCCI: Il personaggio di Don Giovanni appartiene alla storia della cultura occidentale, si inserisce in una linea arcaica in cui convergono diverse tradizioni. Ripercorrendo a ritroso la sua genealogia si potrebbe risalire, con ogni probabilità, alla malinconia e alla solitudine del satiro dell’antichità. Da Ponte e Mozart elaborano questo mito antico – che si andava riproponendo dall’inizio del Settecento in una miriade di rivisitazioni connesse all’apologo devozionale – e costruiscono un oggetto estetico complesso in cui convivono tragedia e commedia. Nelle fibre della musica, sin da subito, si percepisce una pulsione di morte che preannuncia la catastrofe finale. Il re minore, l’accordo drammatico dell’ouverture, convoca subito il dominio della Legge, inaugura la tonalità della voce del Padre. Si è ostaggio del Commendatore prima ancora della sua presenza in scena. Da quel momento si attiva una chimica ambivalente che aleggia nella forma di un sospetto per tutta l’opera. Quando diventa giocoso si tratta di un gioco molto serio.
Don Giovanni chiede di mettere in valore questa profonda ubiquità. Il disequilibrio e l’asimmetria sono le condizioni necessarie per inseguire il personaggio nella sua parabola. Nell’ossigeno della musica di Mozart ci sono delle caverne che si spalancano rivelando i bisogni fondamentali dell’uomo.
PDM: La tua traiettoria registica rifiuta lo stereotipo del seduttore libertino. Don Giovanni è piuttosto una forza che si manifesta in un principio di movimento, produce turbamento, scompone ciò che attraversa…
RC: Don Giovanni agisce come una forza diabolica in senso etimologico – si manifesta e produce divisione. È colui che entra, si fa largo e separa, sospende, spinge, porta il caos, spezza i piani, gli assetti collaudati, le coppie. Travolge ciò che incontra, il suo è un carattere tifonico. Divide profondamente il nucleo della società. In questo senso è diaballein e come il diavolo è condannato alla caduta. Lo sprofondamento all’inferno non è altro che un ritorno al suo posto. Nel finale non si tratta dunque di convocare una condanna morale, quanto di riconnetterlo alla sua natura di fiamma della divisione.
Elemento fondante di Don Giovanni è l’inafferrabilità: non pensa, agisce. Agisce di corsa, senza fiato. È un personaggio lanciato che produce distruzione mentre elude la caccia che gli danno le protagoniste. Ma la sua corsa, allo stesso tempo, fa spazio, genera tempo e produce vita. Si potrebbe dire che il suo destino di morte sia l’esito di un eccesso di vita, appunto il disperdersi di vita in una manovra di cupio dissolvi.
PDM: Quello che dici mi fa pensare a Le mythe de Don Juan di Jean Rousset, laddove lo studioso svizzero sottolinea la natura profondamente teologica dell’opera. Il tuo Don Giovanni inizia in una chiesa che viene immediatamente smantellata, tutti i riferimenti e i simboli del sacro sono rimossi. È come se si cominciasse dalla fine. Perché iniziare con un atto di sconsacrazione?
RC: Ciò che rende pericoloso questo personaggio è che colpisce al cuore un sistema simbolico sostituendo l’Agape con l’Eros. E l’eros, per parafrasare Georges Bataille, ha sempre una relazione a doppio filo con la morte. Don Giovanni non conosce pentimento: per soddisfare il proprio desiderio attacca la legge, la scredita, la destituisce. Non è un caso che il primo gesto sia quello di uccidere il Padre.
Si occupa una chiesa appena svuotata e la si vede attraversata da un capro. Questo spazio ricavato dalla chiesa sconsacrata diventa il quartier generale di Don Giovanni. Una volumetria neutra si carica, di volta in volta, di una precisa drammaturgia di oggetti congrui e incongrui, che cadono, si presentano e annullano, cercano un punto di equilibrio. È come assistere al gioco di un bambino intento a rompere il giocattolo. In questo senso Don Giovanni è una figura pantoclasta, un bambino appunto che sfoga la frustrazione per non riuscire a ottenere l’oggetto desiderato. D’altra parte il compimento del gioco non è forse la rottura della regola e del giocattolo?
Don Giovanni mantiene in vita il desiderio attraverso una sequenza, continuamente rinnovata, di atti mancati. Ciò che conta per lui è il desiderio, prima dell’oggetto del desiderio. Si direbbe che la schiavitù a godere lo spinga quasi a sua insaputa. C’è in questa rincorsa una matrice sacrilega, separativa, che depotenzia.
PDM: Il rapporto tra Don Giovanni e Leporello si riferisce classicamente allo schema della coppia servo-padrone, si può dire che l’uno sia la parte mancante dell’altro?
RC: Don Giovanni ha bisogno del servo che ambisce alla vita del padrone e agisce secondo il modello della copia. La loro relazione dispone ulteriori maschere che operano nell’economia del doppio, dello specchio, in una dinamica di riflessione tipica del teatro dell’epoca. Sebbene quella di Leporello non sia una adesione spirituale ai comportamenti del padrone, sono uno l’alibi dell’altro. Don Giovanni affronta le sue colpe deviandole sul corpo di Leporello, che funge letteralmente da scudo. In questo senso ha ragione Pierre-Jean Jouve ad attribuire a Leporello una “natura escrementizia”, come colui che si carica della parte sporca.
PDM: Don Ottavio è portatore di un registro linguistico da dramma metastasiano. Sembra capitato quasi per sbaglio in questa vicenda, consegnando allo spettatore un’idea di “fuori luogo”. A cosa allude il continuo cambio di abiti, oggetti, presenze che lo scortano a ogni apparizione?
RC: Don Ottavio è l’antieroe, figura indispensabile per far emergere la differenza di Don Giovanni. È uno dei pochissimi personaggi sinceri, che aderisce alla morale. Rappresenta la mediocrità che siamo, la sicurezza che vogliamo, la nostra abitudine allo scorrere del tempo, la convenzione sociale, ma anche gli affetti veri.
Evoca una sequela di gesti eroici, allude ad atti più grandi di sé che probabilmente non arriverà mai a compiere perché è negato all’azione, incapace di gettarsi nella mischia. Non sa cosa sia avere fame o freddo. Si è forse nutrito di libri, da qui il suo parlare manierato. Cambia costumi e sfodera oggetti inverosimili, convoca mondi e avventure impossibili allo scopo di stupire Donna Anna e tutti noi. È infantile, tenero, un bambino inconsapevole di cosa stia davvero accadendo, incapace di riconoscere le vere pulsioni della sua amata. Questo, ai miei occhi, lo rende commovente.
PDM: Donna Anna, Donna Elvira e Zerlina seguono ciascuna una propria traiettoria che innesca proprie dinamiche. Tutte paiono comunque segnate da una mancanza, dall’impossibilità di potersi congiungere con ciò che desiderano, che è sempre sfuggente…
RC: Le tre donne rappresentano tre diversi universi affettivi. Donna Anna è di alto lignaggio, incarna l’oggetto del desiderio supremo difficile da raggiungere. Possederla significa uccidere, compiere un crimine. Il suo linguaggio e il dolore che testimonia convocano una gestualità da eroina tragica. È una figura che ha molto da dire ma anche molto da nascondere. La sua ombra si annida nel rapporto col futuro marito, con il quale interagisce mentre desidera Don Giovanni: il lapsus di “Fuggi, crudele, fuggi” ne è uno scabroso indizio.
Donna Elvira è un personaggio onesto. La sua voce tradisce smarrimento e commozione. Ai miei occhi si identifica con la donna che è madre, rappresenta la famiglia, la costituzione della società. Don Giovanni ha orrore di vederla per la seconda volta, non può sopportarne la vista, perché rischierebbe di dover dare vita a un rapporto umano. Lui è completamente solo nel suo mondo auto-efficace che rivela sé stesso e basta. Prova terrore di fronte alla possibilità di scoprirsi padre. L’amore nel suo caso divide, taglia, uccide non genera.
Poi c’è Zerlina, il corpo-oggetto par excellance, la cosa da possedere. Don Giovanni presuppone che gli spetti di diritto, addirittura nel giorno delle sue nozze. Zerlina è un personaggio duplice, la sua duplicità si manifesta nella tensione “vorrei/non vorrei”, ambivalenza tipica dell’erotismo distillato. Nella sua sensualità si unisce il desiderio e la volontà di emancipazione sociale. D’altra parte, l’arrivo di Don Giovanni nella comunità dei contadini innesca una pressione tenebrosa e lugubre, la presenza sovrastante di una carrozza nera a testimoniarlo. Qualcosa si spezza nella gioia festiva del matrimonio, così come il piano di aderenza alla natura. La presenza del “padrone”, che si arroga il diritto di prendere Zerlina come se fosse un frutto, trasforma i contadini in operai e le mele in merce.
PDM: Nel secondo atto la cinica enumerazione del catalogo, con la sua rappresentazione prestazionale della sessualità maschile, si ribalta in una moltitudine di donne che tornano a prendersi lo spazio....
RC: Don Giovanni sembra incapace di vedere le donne nella loro singolarità, perché accecato dal proprio narcisismo uniformante. Schiavo del suo godimento, non è in grado di contemplare la differenza di fronte a sé. L’altro non si costituisce, ne ha paura. Non esiste principio di reciprocità nel suo universo, significherebbe investire nella relazione, mettersi in ascolto.
Per il secondo atto, attraverso una chiamata, abbiamo chiesto a un grande numero di donne di Salisburgo di occupare uno dei teatri della loro città. Le donne tornano a riprendersi ciò che gli spetta. Il proprio corpo. Una presenza. Una biografia. La lista agghiacciante del catalogo diventa un elemento toccante e commovente, incarnato.
La coreografa Cindy Van Acker ha disegnato con loro traiettorie, dinamiche di relazione, forme di complicità che suggeriscono una rinnovata sorellanza che sorpassa gli stereotipi del femminile.
La loro presenza rende visibile il campo del desiderio soggiogato dalla schiavitù del solo godimento che diventa progressivamente fagocitante. La polarità che vede in Don Giovanni il cacciatore e nelle donne le cacciate si rovescia completamente, fino al punto limite di diventare una di loro. Lì si manifesta una totale immedesimazione con l’oggetto desiderato.
PDM: Il Commendatore è il vecchio, l’uomo con tre gambe per via della stampella ortopedica (con chiara allusione all’enigma edipico). L’“uomo di sasso”, l’“uomo bianco” torna come inviato dei morti in funzione di giustiziere ma si presenta come lo specchio traumatico di una lotta tutta interiore.
RC: Commendatore coincide con la Legge del Padre, appare per diventare fantasma (o forse lo è sempre stato). Come tutti i padri assassinati della immensa drammaturgia occidentale, il Commendatore, ritorna come spirito, è ovunque.
Nel finale Don Giovanni lascia il campo, non perché spinto da una ragione esterna o principio morale: a portarlo via è una causa tutta interiore. È lui stesso ad aver prodotto il Commendatore, come ogni presenza, dall'inizio. Tutto quello che ha avuto luogo corrisponde a una casella della sua psiche.
PDM: Nell’enfasi gioiosa e moralistica del finale ci viene consegnata un’immagine di immobilità e fissazione. Sono evocati i corpi bruciati all’istante dalla lava di Pompei, nell’eruzione del 79 d.C.: il fuoco improvviso coglie i corpi in movimento e li blocca per l’eternità. Cosa significa questa pietrificazione finale?
RC: Il finale moralistico è una scena di totale finzione. Il dramma gioioso non prevede happy end, in questo senso non può esserci commedia. Con il “No” finale Don Giovanni sceglie di sparire, e con lui svanisce il principio di disordine. Ma è possibile una vita dominata solo dall'ordine, senza principio vitale?
Dal momento in cui Don Giovanni scompare tutto si raggela improvvisamente. I personaggi diventano figurine senza spessore, senza ombra. Il fuoco gli appartiene, è il suo elemento. Ad essere pietrificato non è più solo il convitato di pietra, ma tutti i personaggi che restano lì, abbandonati, idealmente per sempre.
Tutte le fotografie, a parte la prima di Monika Ritterhaus, sono di Ruth Walz.