Speciale
“Signori Deputati, non azzardatevi a toccare il 7 novembre!!!” / 7 novembre. Rosso
Den’ sed’mogo nojabrja / krasnyj den’ kalendarja. / Pogljadi v svoe okno, / vse na ulice krasno!
Prima di tradurre e commentare la poesiola che fa da incipit a questa pagine è necessaria una breve precisazione per chi non abbia familiarità con la lingua russa. L’aggettivo krasnyj, che oggi significa rosso, aveva come accezione primigenia il concetto di bello. I versi del poeta Samuil Maršak, presenti su ogni libro di lettura per le scuole elementari e noti a ogni bambino o ex bambino sovietico, giocano su questo doppio valore semantico.
La giornata del 7 novembre,
è una data “rossa” del calendario.
Guarda dalla tua finestra,
fuori tutto è “rosso”.
Giornata di un rosso politico comunista, certo, ma anche bella e festosa, come la lingua russa permette di intuire a chi la conosca. Perfetto per celebrare una delle feste più importanti, sentite e gradite per i cittadini sovietici, almeno fino a un certo punto della loro storia.
In assenza di posta elettronica e internet, con le comunicazioni telefoniche non scontatamente garantite, il ricorso a biglietti e cartoline era grande (come nell’arcaica Italia del resto) e la produzione di cartoncini augurali proliferava. I temi iconografici non vedevano grandi investimenti creativi. Dominavano i simboli classici, stella rossa, falce e martello, nastri rossi, più rari nastri di San Giorgio, spighe di grano, garofani rossi, stemmi sovietici. Talora erano inseriti dettagli specifici legati alle peculiarità del momento, conquista dello spazio, edificazioni straordinarie, skyline di città, rimandi al folclore. Più rare le figure umane (di solito allegoriche o infantili e sovrastate dall’icona leniniana). Come immancabile chiosa gli slogan più tradizionali: “Gloria all’Ottobre!”, “Buona festa del grande Ottobre!”, “
La giornata solitamente iniziava con le preparazioni per la parata. Chi aveva conquistato il diritto all’eccellenza avrebbe sfilato sulla piazza Krasnaja (a sua volta Bella e Rossa) nelle file della propria fabbrica, istituzione o associazione sportiva. Chi si era reso meritevole in grado minore aveva garantita comunque una postazione d’onore nelle tribune riservate. Il grosso della popolazione si accontentava, e non era poco, di assieparsi con i vestiti della festa sui bordi delle strade che la manifestazione ufficiale avrebbe percorso prima di accedere alla piazza e di gustare la cerimonia a una certa distanza dal Mausoleo di Lenin e dal politbjuro di turno schierato sulle sue gradinate, ma aderendo in ogni caso festosamente all’entusiasmo collettivo. Sfilavano le rappresentanze delle repubbliche sovietiche, i migliori lavoratori del paese, i recordmen di ogni genere e grado, i più illustri rappresentanti della patria sovietica, gli atleti, gli sportivi, i pionieri. A seguire arrivano le divisioni militari, i carri armati, la tecnica bellica, la cavalleria, mentre nel cielo sfrecciavano ardite formazioni aeronautiche. Il tutto in un tripudio di bandiere e festoni rossi, da giorni strategicamente sistemati con grande gusto estetico per tutta la città. E, come testimoniamo ancora oggi blog nostalgici, “negli animi esplodeva l’orgoglio: siamo i più forti!”.
Al momento politico collettivo seguiva la celebrazione casalinga personale. Si invitavano gli amici e i parenti. Si preparava una tavola di festa. Un popolare libro di consigli per l’economia domestica recitava: “Per le feste di novembre suggeriamo di invitare i vostri amici al pranzo del 7, dopo la fine della dimostrazione. Reduci da una passeggiata per la città, arriveranno da voi del migliore e vivace umore, colmi di impressioni e, soprattutto, con un considerevole appetito, dettaglio che non potrà che essere gradito a ogni massaia ospitale”. I negozi avevano da giorni incrementato gli approvvigionamenti e le famigerate code non lasciavano nessuno a bocca asciutta.
Ogni padrona di casa avrebbe sfoggiato la propria versione dell’irrinunciabile salat Oliv’e (una variante più ricca di quella che noi chiamiamo insalata russa). Non sarebbero mancati gli šproty (spratti di Riga), pesciolini affumicati in scatola, altra delicatesse inevitabile, e l’insalata di fegato di merluzzo, vera delizia per palati raffinati. La vodka avrebbe innaffiato generosamente piatti e stomaci facendo salire il benessere e stimolando la predisposizione a emozionarsi e commuoversi. Qualcuno avrebbe sfoderato una chitarra o una fisarmonica e ci si sarebbe messi a cantare. Orgoglio patriottico e compiacimento personale si sarebbero combinati alla grande, tra canti di guerra, melodie popolari e, più tardi nel tempo, poesie-canzoni dei cantautori.
Anni, quelli dei cantautori (Sessanta-Settanta), in cui l’incanto e il coinvolgimento sovietico cominciavano a declinare, soprattutto tra i giovani. Un disincantato Eduard Limonov, nel suo primo romanzo autobiografico Podrostok Savenko del 1983 (Eddy Baby ti amo, nella traduzione italiana), tratteggiando la propria adolescenza di teppistello a Char’kov già evocava con irriverenza i riti novembrini dei borghesucci sovietici:
“Strisciavano fuori dalle loro case con i vestiti buoni e in corpo già un paio di bicchierini di vodka e assaggi dal pranzo della festa. Eddy Baby sapeva che in tavola non sarebbero mancati l’insalata “Oliv’e”, il salame e gli irrinunciabili šproty. Il capo famiglia avrebbe indossato, non senza fatica, il cappotto pesante e una giacca blu scuro, la cravatta e le scarpe nuove che gli avrebbero procurato dolori indicibili a ogni passo. Bambini tirati a lucido, vestiti da adulti in abiti troppo grandi e brutti, avrebbero ingurgitato l’immancabile gelato, trascinandosi dietro alcuni palloncini legati a un filo. Di tanto in tanto i palloncini sarebbero scoppiati, con un terribile colpo di pistola, sempre nei momenti più inattesi. L’abito e il cappotto della consorte con ogni probabilità avrebbe puzzato di naftalina: loro sapevano conservare come si deve i propri beni”.
Con la perestrojka di Gorbačëv tutto questo sarebbe stato spazzato via, suscitando in alcuni irrefrenabili rigurgiti nostalgici, in altri vendicativa soddisfazione, in altri ancora il gusto sarcastico di guardare indietro non con rimpianto ma con ironia e distacco.
Atteggiamenti che ritornano oggi nelle varie immagini legate alla storica festa nell’anno del suo centesimo anniversario. È opportuno ricordare che dal 2005, per decreto di Putin, il 7 novembre non è più festa nazionale né giorno di vacanza. In sua vece, con un procedimento che ricorda quello adottato dai sovietici dopo l’ottobre per cancellare le festività religiose sostituendole con nuove celebrazioni politicamente al passo coi tempi, è stata ripresa la festa dell’Unità nazionale, eliminata dal calendario bolscevico nel 1917. Celebrata il 4 novembre, a pochissima distanza dunque dalla vecchia data “rossa” del calendario, ne fa parzialmente le veci, ambiguamente sovrapponendosi a lei nell’immaginario e nella coscienza collettiva. Il problema dell’unità, della compattezza nazionale, della stabilità del Paese è fondamentale nel discorso politico putiniano contemporaneo e certe scelte non stupiscono. Il riferimento storico è alla cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612 per opera di Minin e Požarskij, gli eroi a cui è dedicato un famoso monumento sulla piazza Rossa che oggi compare nelle immagini celebrative.
Già da alcuni anni la storica parata del 7 novembre celebra non già l’anniversario del 1917 ma quello del 1941, anno in cui, grazie a Stalin, nonostante gli occupanti tedeschi già fossero sul territorio sovietico, la dimostrazione ebbe luogo sulla piazza rossa e costituì fonte di stimolo patriottico, ispirazione e sostegno morale per i combattenti al fronte e per il popolo nelle retrovie. Il Presidente Putin aveva comunicato anticipatamente che non avrebbe preso parte alla marcia russa del 4 novembre di quest’anno. Significativamente, ha inaugurato nei giorni scorsi un monumento alle vittime di tutte le repressioni sovietiche, il Muro del dolore. Le reazioni polemiche, ovviamente, non sono mancate. E le vittime delle sue repressioni? Politkovskaja, Nemcov? E le violazioni odierne dei diritti umani? Con grande sottigliezza diplomatica il Presidente sta aggirando la delicata ricorrenza, per non scontentare né i nostalgici dell’URSS né i più accesi revisionisti. L’evocazione del “colpo di stato” del 1917 potrebbe essere fatale alla lunga e lenta costruzione di immagine carismatica che lo ha portato a godere tra la sua gente di un seguito inaudito. Su tutto questo aleggia il fantasma di Stalin, ora acclamato, ora demonizzato, ma, negli ultimi tempi, con sempre maggiore insistenza, rivalutato e riconsegnato alla storia come responsabile morale, se non militare, della vittoria nella Grande Guerra patriottica.
Segnalo, avvicinandomi alla conclusione, alcuni riscontri iconografici decostruttivi, tra i moltissimi a disposizione, del mito relativo al 7 novembre, riprese ironiche e talora beffarde per promuovere iniziative di assoluta contemporaneità, globalizzate e disincantate.
Concludo con due esemplari di immagini afferenti alla categoria nostalgica. La prima, un volantino del KPRF (Partito Comunista della Federazione Russa) che invita a un meeting-marcia che prenderà eloquentemente le mosse dalla Stazione di Finlandia, dove Lenin era arrivato a Pietrogrado a bordo del famoso treno blindato, per procedere fino al mitico incrociatore Aurora. “Torneremo!” è l’impegno-minaccia-promessa che chiude il manifesto in basso.
Ho lasciato per ultima la fotografia di una donna non giovane, emblema di chi rimpiange, probabilmente, non tanto il regime sovietico quanto un Paese in cui aveva investito e creduto. Simbolo di intere generazioni, spaesate e deluse da cambiamenti radicali e scombussolanti, meritevoli di rispetto, prima di tutto, e attenzione per quanto hanno compiuto, subito, realizzato. Il cartello che la signora tiene in mano dice: “Signori Deputati, non azzardatevi a toccare il 7 novembre!!!” Non sono stati in molti a darle retta.