Dal ‘Made in Germany’ al ‘Fake in Germany’?
Che cosa sta succedendo in queste ultime settimane in Germania? Dopo la crisi greca, la Germania sembrava essersi calata definitivamente nel ruolo di inflessibile e vendicativo tutore di regole e norme; poi, con l’inaspettata decisione di Merkel di aprire le frontiere ai rifugiati in arrivo attraverso l’Est Europa, aveva guadagnato un volto più amichevole, riconquistando anche all’estero l’immagine di un paese con una forte società civile, pronto ad assumersi il peso di gravi responsabilità politiche e morali. Lo scandalo della Volkswagen ne mette adesso di nuovo in crisi l’immagine, colpendo la Germania proprio là dove si vorrebbe far percepire più forte, e cioè nell’adesione incondizionata ai principi di correttezza e trasparenza. Proprio per questo le reazioni dell’opinione pubblica tedesca allo scandalo, dagli operai dell’industria automobilistica ai cittadini comuni, dai commentatori dei quotidiani ai giornalisti televisivi, sono di delusione, incredulità, indignazione e rabbia. Come ha puntualizzato un commentatore dello Spiegel “lo scandalo della Volkswagen è un segnale che discredita la pretesa di questo paese a svolgere un ruolo di guida morale dell’Europa”.
Giacomo Corneo, professore di economia alla Freie Universität di Berlino, ha pubblicato da poco in tedesco Un mondo migliore: il capitalismo è arrivato al capolinea? Un viaggio attraverso sistemi economici alternativi (Bessere Welt: Hat der Kapitalismus ausgedient? Eine Reise durch alternative Wirtschaftssysteme, Goldegg, Berlin 2014) e si occupa soprattutto di temi di finanza pubblica e politica sociale. Qui ci parla dello scandalo Volkswagen e dei suoi attori, delle sue conseguenze immediate e future, e anche delle ripercussioni sulla società tedesca dell’arrivo in questo ultimo mese di centinaia di migliaia di rifugiati.
Questa immagine è stata postata su twitter dalla redazione del più famoso programma televisivo di satira politica
Nel suo ultimo libro lei mette in luce alcuni aspetti critici della cosiddetta economia sociale di mercato. Le sembra di poter rintracciare nella società tedesca, pur considerata da molti un modello di stabilità sociale ed economica, alcuni degli indicatori di crisi che individua nel suo libro (forbice sociale, welfare ridotto a pure assistenza per i più poveri ecc.)?O addirittura di riconoscerne qualcuno specificamente tedesco?
La Germania dopo la seconda guerra mondiale e fino alla riunificazione era caratterizzata da un modello di capitalismo renano, con delle istituzioni peculiari che riuscivano a mettere insieme da una parte la dinamica economica, la crescita e l’occupazione, dall’altra una distribuzione del benessere abbastanza equa. All’indomani della riunificazione, in concomitanza con fenomeni di globalizzazione, si sono avuti una serie di sviluppi che hanno eroso il lato sociale dell’economia di mercato, e questo si vede in primis sul mercato del lavoro. Il mercato del lavoro pre-riunificazione era relativamente omogeno, la stragrande maggioranza dei lavoratori veniva tutelata dal sindacato e la distribuzione dei salari era relativamente serrata. Dopo, il mercato del lavoro si è dualizzato. In Germania oramai convivono da una parte piccole isole felici che sono i salariati delle grandi imprese manifatturiere che esportano sull’intero pianeta, come dell’industria automobilistica, i quali continuano ad avere posti di lavoro sicuri, tutelati e ben pagati, e poi una fetta maggioritaria della forza lavoro che si ritrova a barcamenarsi in situazioni di precariato. In Germania si è verificata insomma una erosione del vecchio sistema di economia sociale di mercato e una ibridazione di questo sistema con elementi riconducibili al tipo americano di capitalismo, con maggiore ineguaglianza e insicurezza economica.
Lo scandalo della Volkswagen potrebbe mettere a rischio, secondo lei, queste isole salariali felici, generando insomma una crisi generale dell’industria automobilistica tedesca?
La ripresa tedesca degli ultimi anni è stata tirata dalle esportazioni e da un enorme saldo positivo di bilancia commerciale. Queste esportazioni, a loro volta fanno la felicità di quelle isole felici come la Volkswagen e sono dovute al premio che i consumatori di tutto il mondo sono disposti a pagare per il “Made in Germany” – garanzia di qualità e affidabilità. Il danno di immagine dovuto allo scandalo non colpirà solo Volkswagen ma in qualche misura anche gli altri esportatori perché il fallimento dei controlli è ovviamente un fallimento istituzionale. Se i consumatori cominciassero a leggere il marchio come “Fake in Germany” sarebbe una catastrofe per quelle isole felici. Perché ciò non accada occorre una riforma della governance delle grandi imprese e una ridefinizione dei rapporti fra queste imprese, lo stato e la società civile.
Tutto questo sembra gravissimo anche perché il successo economico tedesco è dovuto proprio alle esportazioni di prodotti di fascia alta ed è basato sulla sicurezza della qualità tedesca. In realtà ci si chiede come sia stato possibile che la Volkswagen abbia messo a rischio il futuro dell’azienda falsando i dati di emissione e come mai non si sia intervenuti prima ad arginare i danni, ora che sappiamo che i vertici dell’azienda erano al corrente da anni delle manipolazioni, secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei più importanti quotidiani tedeschi, dal 2011.
È veramente una situazione di crisi. Negli ultimi trent’anni la Germania ha voluto vivere in bigamia, ha voluto sposare la tutela ambientale, il culto della natura, la protezione del futuro del pianeta, ma non ha voluto rinunciare al vecchio amore per l’automobile. Sembrava a molti che una bigamia di questo tipo fosse impossibile. Però per tanti anni, grazie allo sviluppo dell’alta tecnologia è sembrato che potesse funzionare. E adesso i tedeschi scoprono che proprio la Volkswagen, la loro più grande casa automobilistica , li ha traditi. È un po’ come se i cattolici scoprissero che il papa è un agente segreto della Corea del Nord! I cittadini tedeschi hanno già il dente avvelenato verso le banche e l’industria finanziaria che, dopo aver distribuito negli anni pre-crisi boni e dividendi altissimi, hanno dovuto essere salvate dal contribuente tedesco. E l’altro centro di potere, più discreto ma certamente non meno effettivo di quello delle grandi banche e delle compagnie assicurative, è quello delle grandi industrie. Che hanno moltissimi alleati sia nel mondo politico che nel mondo dei media, i quali hanno già iniziato a manipolare la comunicazione per minimizzare la cosa. Ma non sarà facile, perché la società civile è presente e vigile.
Martin Winterkorn, l’amministratore delegato della Volkswagen che si è appena dimesso, ha voluto a tutti costi un’enorme espansione dell’azienda per conquistare un primato assoluto sul mercato mondiale, celebrato pochi mesi fa con il superamento della Toyota nelle vendite. Recentemente lo storico Paul Kennedy ha riconosciuto proprio nella tendenza a una dilatazione imperialistica dei poteri, sia economici che politici, la causa della perdita di controllo su questi sistemi stessi e quindi della loro decadenza. Lo scandalo potrebbe essere anche la conseguenza di una crescita troppo spinta e veloce dell’’impero Volkswagen’?
Non la vedrei come una caratteristica di imprese sovradimensionate: a me sembra che sia una caratteristica strutturale del capitalismo. Il capitalismo si basa sull’incentivo per le singole imprese a massimizzare il loro profitto. E la massimizzazione del profitto, volendo categorizzare si può fare in due modi: in modo produttivo o distruttivo. Il modo produttivo consiste nel migliorare continuamente la qualità dei propri prodotti e perfezionare le dinamiche di produzione. E poi c’è il modo distruttivo, quello che gli inglesi chiamano rent-seeking, per cui attraverso escamotages di vario tipo si riescono a ottenere dei guadagni a danno di altri: dei consumatori, costretti dal monopolista a pagare dei prezzi molto superiori ai costi di produzione, dei lavoratori che vengono pagati meno del valore del loro lavoro, o dell’ambiente che viene sfruttato senza che la comunità venga risarcita. E questo della Volkswagenè un caso eclatante di massimizzazione distruttiva dei profitti. Fondamentalmente, il capitalismo può mantenersi in vita solamente se l’equilibrio viene mantenuto fra la motivazione delle imprese a massimizzare il profitto e, dall’altra parte, la comunità che, attraverso in primis lo stato, riesce a far rispettare quelle regole per cui le imprese continuano a operare senza ledere gli interessi di altre parti costitutive del sistema. La realizzazione di questo equilibrio dipende in larga misura dalla distribuzione del potere all’interno della società. E qui ritorniamo al primo punto che lei ha menzionato, ovvero alla questione della dinamica della forbice nella distribuzione delle ricchezze. In Germania come altrove questa forbice si è allargata. Quando delle élites accumulano delle ricchezze che sono estremamente superiori a quelle del cittadino medio, acquisiscono un peso estremamente superiore nella definizione delle regole e nella definizione di quanto debbano venire controllate quelle regole.
È noto che il governo tedesco sapeva almeno dal 2014 che c’erano delle infrazioni di regole rispetto all’emissione di gas delle auto, però non ha fatto niente, e questo chiaramente indica che il governo era stato messo sotto pressione perché non facesse niente. Ciò è possibile perché le grandi imprese hanno un potere economico che possono trasformare in potere di ricatto verso i politici. La lobby dell’automobile in Germania è fortissima. Non c'è nessun altro paese in Europa dove non esiste un limite generale di velocità sull’autostrada, peraltro gratuita. Non credo che esista un altro paese in Europa con delle agevolazioni fiscali così forti per l’uso dell’automobile, come per esempio la cosiddetta ‘Pendlerpauschale’ (un importo forfettario riservato ai pendolari scaricabile dalle tasse). La ricerca in ambito automobilistico è sovvenzionata in maniera massiccia. I premi di rottamazione sono stati estremamente generosi. È una lobby con fortissime entrature nel governo, nei partiti, nei media, nelle università e nel sindacato.
Dunque, dobbiamo proprio pensare a una crisi di grandi dimensioni che coinvolgerebbe anche strutture politiche e istituzioni dello stato?
Lo scandalo della Volkswagen potrebbe in fondo rivelarsi salutare, perché potrebbe rendere più realistica la percezione della Germania non solo all’esterno, ma anche all’interno stesso del paese. La hybris che si è sentita da qualche anno dopo l’inizio della crisi euro, è giusto che si riduca. E lo scandalo può servire a risvegliare la coscienza della popolazione perché rilevi il problema della perdita di controllo da parte della polis su quelle che sono le sue priorità. Proprio la tutela dell’ambiente viene considerata in Germania dalla maggior parte della popolazione una priorità importantissima. La quale viene di fatto negata dal comportamento di attori potenti come Volkswagen. Questo potrebbe spingere la popolazione a richiedere più potere di intervento diretto nelle scelte, nei controlli, e quindi un aumento della democrazia diretta che sarebbe, secondo me, essenziale per contrastare la tendenza a considerare la democrazia un affare delle élites e per il resto della popolazione come uno spettacolo, un diversivo che si vede alla televisione alla sera tanto per passare il tempo.
Süddeutsche Zeitung
Eppure proprio in questo ultimo mese c’è stata una grande presenza e visibilità della società civile sulla scena politica: sia come reazione alle violenze dell’estrema destra contro i rifugiati che come spinta dal basso per una politica di apertura e accoglienza. In effetti lo scandalo della Volkswagen è piombato sulle teste dei tedeschi in un momento di riconoscimento tra società e istituzioni politiche. Un momento in cui bisogna tra l’altro prepararsi ad affrontare la grande sfida non solo della prima accoglienza, ma anche quella più difficile dell’integrazione.
Nonostante la Germania sia paese di immigrazione da mezzo secolo, la situazione degli stranieri in Germania mediamente non è rosea. Per esempio la quota di giovani che lascia la scuola senza titoli di studio fra gli stranieri è doppia rispetto a quella dei tedeschi. La quota invece di chi esce dalla scuola con un diploma che permetta l’accesso all’università fra gli stranieri è un terzo rispetto a quella della popolazione autoctona. C’è un problema di integrazione e c’è un problema di valutazione dei talenti che non riguarda solo gli stranieri, ma anche i giovani di famiglie meno abbienti. Nel corso del tempo la situazione però tende a migliorare: insomma, se ne dovessimo vedere una fotografia, sarebbe piuttosto un’immagine negativa, però se ne vediamo il film, riconosciamo un miglioramento. Se paragoniamo per esempio la situazione scolastica dei giovani di origine straniera, anche italiani, rispetto a quella dei loro genitori, osserviamo un progresso notevole. Ma la Germania certo non è un paese come gli Stati Uniti dove l’integrazione in linea di massima avviene in maniera rapida. Soprattutto quando dei numeri così alti di immigrati e rifugiati arrivano da culture così diverse sarà una sfida difficile da vincere, e che è possibile vincere soltanto se ci sarà uno sforzo notevole di integrazione. Questo sforzo dovrà essere rivolto alla riforma del sistema di istruzione e alla riforma del mercato del lavoro. Sul lato dell’istruzione la Germania esibisce un dato di mobilità intergenerazionale che è particolarmente basso perché la selezione, nelle scuole tedesche, avviene in età molto precoce. Nella maggior parte della Germania dopo il quarto anno di scuola elementare il destino dell’individuo è quasi determinato perché o si va al liceo, che permette l’accesso all’università, oppure a una scuola professionale e si è tagliati fuori dalle professioni più interessanti e redditizie. Qui bisognerebbe fare un discorso ancora più ampio, perché questo sistema anacronistico perdura da così tanto tempo perché in Germania esiste un federalismo deleterio, costoso ed inefficiente che blocca fra le altre cose anche la riforma del sistema scolastico.
Sul mercato del lavoro un problema molto importante, che riguarda le chances di integrazione dei rifugiati, è l’apertura di tutti i settori legati all’artigianato. In Germania esiste l’obbligo di aver fatto una certa formazione professionale e aver acquisito un certo diploma per poter aprire un’impresa individuale come artigiano, come idraulico, come falegname, ecc. Se uno arriva dall’estero, normalmente non ha la possibilità di mettersi in proprio per fare questi mestieri. Si è costretti a lavorare per qualcuno, sperando che questa sia una persona perbene che voglia assumerti. La liberalizzazione di queste attività professionali sarebbe di notevole efficacia per l’integrazione e diminuirebbe il rischio che si formino sacche di disoccupazione nella popolazione di origine estera.
Che tipo di investimenti pubblici sarebbero quindi necessari a questo punto, quali interventi dello stato?
La Germania da una decina d’anni investe negativamente nella infrastruttura pubblica. Cioè quello che viene speso non basta neanche per mantenere il livello della infrastruttura esistente. I problemi di degrado vanno dai ponti sulle autostrade agli edifici scolastici. Il calo degli investimenti pubblici è stato uno degli strumenti con i quali si è cercato di ridurre il debito pubblico, obiettivo giustificato dal governo adducendo il benessere delle generazioni future. In realtà è il calo degli investimenti pubblici che peserà sulle spalle delle prossime generazioni. C’è stato quest’anno una commissione governativa che ha lavorato per vedere come rilanciare l’investimento pubblico. Ma le lobby delle banche, delle compagnie di assicurazione e della grande industria hanno voluto ed ottenuto di farne parte, arrivando alla fine a proporre delle soluzioni di cosiddetta “partnership” fra stato e privati. Queste soluzioni difettano però di trasparenza e lasciano ampi margini ai privati di riempirsi le tasche al danno dei contribuenti. Perciò sono fino ad adesso bloccate. È un altro esempio del difficile rapporto fra capitalismo e democrazia, anche in Germania.
Leggi anche su doppiozero Chi ha incastrato Volkswagen? di Dario Mangano