A cent'anni dalla sua morte / Un ritratto di Rosa Luxemburg
“Esiste per la rivoluzione una regola assoluta: non fermarsi una volta compiuto il primo passo, non cadere nell’inazione, nella passività. La migliore parata è assestare all’avversario un colpo energico. Questa regola che si applica a ogni battaglia, vale soprattutto per i primi passi della rivoluzione”. Forse, fu questa convinzione, più volte espressa, che portò Rosa Luxemburg a restare al fianco dei compagni spartachisti nelle drammatiche giornate dell’insurrezione armata a Berlino, nei primi giorni di gennaio del 1919, anche se, in dissenso con Karl Liebknecht, non aveva considerato né pronto il Partito comunista tedesco (PKD), nato a dicembre, né propizie le condizioni sociali e politiche generali per una rivoluzione, nella quale pure credeva fermamente dopo le manifestazioni di novembre, uscita dal carcere di Breslavia. Tanto che aveva preferito i Consigli dei soldati e dei lavoratori, sorti in vari punti della Germania, all’Assemblea nazionale costituente indetta dal governo provvisorio, che, caduto il secondo Reich, in accordo con l’esercito, i suoi vecchi amici e compagni socialdemocratici avevano accettato di costituire, impegnandosi a contrastare ogni velleità rivoluzionaria. E la repressione da parte del governo contro lo Spartakusbund non tardò ad arrivare, implacabile e sanguinaria. Con l’aggravante che il Ministro dell’Interno diede carta bianca alle squadre paramilitari illegali dei Freikorps, un manipolo di reduci di guerra di estrema destra, che il 15 gennaio arrestarono i due leader rivoluzionari. Rosa venne stordita col calcio di un fucile, freddata con un colpo di pistola alla testa e gettata in un canale. Chi aveva voluto un assassinio così brutale? Chi poteva sentirsi sollevato dall’uscita di scena di Rosa Luxemburg? Certamente, i poteri forti che avevano mal digerito già il passaggio alla repubblica democratica, gli Junker, i partiti “borghesi”, la Germania piccolo-borghese e rurale tradizionalista e conservatrice, impaurita dai “rossi”. Nondimeno, era divenuta però ingombrante sia per i socialdemocratici ormai forza di governo e del nuovo establishment, a causa del suo rifiuto del parlamentarismo e della radicalizzazione del suo attivismo politico, sia per i bolscevichi russi, a causa della sua critica all’involuzione autoritaria del loro regime monopartitico, i quali, ora, potevano assorbire più facilmente nella loro orbita d’influenza i comunisti tedeschi. Insomma, un capro espiatorio perfetto per ritrovare l’unità interna e da sacrificare sull’altare della difficile e incerta transizione politica della Germania, alle prese con le estenuanti e umilianti trattative di pace con i Paesi vincitori, intenzionati, a loro volta, a fare della Germania stessa il capro espiatorio del gigantesco disastro umano e materiale del primo conflitto mondiale. Chi era stata, allora, Rosa Luxemburg fino a quel giorno tremendo, in cui tutta la crudeltà del mondo, contro la quale si era sempre opposta, si era scagliata ineluttabilmente su di lei? E cosa ci lasciano in eredità una vita e un pensiero che ci appaiono sì nobili, eroici, ma lontani come l’intero secolo breve, nel quale l’illusione del comunismo ovvero il “sogno operaio” (quello di Rosaura nel Calderón di Pier Paolo Pasolini, di cui “Rosa la rossa” è divenuta una martire) si è affacciato e tramontato?
Questa ebrea polacca, nata a Zamość nel 1870, che aveva compiuto coraggiosamente i primi passi nel Partito socialista rivoluzionario polacco, sotto il regime zarista, e che, trasferitasi in Germania dal 1897, era diventata una dirigente di spicco dell’SPD, il partito operaio più forte d’Europa, aveva sostituito il Messia con il proletariato, sperando attivamente nella sua missione di redenzione dell’umanità intera, facendosene apostola devota, anche al prezzo della felicità personale. E la cifra della sua idea di socialismo fu proprio la fiducia in una rivoluzione “dal basso”, intesa come un processo di auto-emancipazione e di auto-educazione delle masse popolari, convinta che “gli errori commessi dal movimento operaio veramente rivoluzionario sono storicamente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del migliore comitato centrale” (Marxismo contro dittatura). Rosa Luxemburg è stata una interprete raffinata e originale del marxismo, una militante instancabile, coerente e intransigente, una comiziante impareggiabile, in un mondo ancora dominato da uomini come erano ancora anche i partiti socialisti di fine Ottocento. E, nei primi anni del Novecento, s’inserì autorevolmente nel dibattito della Seconda Internazionale, impegnandosi frontalmente in due polemiche, con due rappresentanti di primo rango di quel mondo: Bernstein e Lenin.
Al primo, che aveva mandato in soffitta la rivoluzione, giudicando erronea la previsione di Marx sul crollo inevitabile del capitalismo e sulla proletarizzazione della società, e aveva indicato per il futuro della socialdemocrazia tedesca solo il compito di una lotta parlamentare per le riforme e la democratizzazione, anche in alleanza con i settori più illuminati della borghesia, Rosa Luxemburg rispose, nel 1899, con l’opuscolo: Riforme o rivoluzione?. Eduard Bernstein si limita a considerare fatti isolati e solo “i lati buoni” dello sviluppo economico capitalistico, derubricando quel punto di vista dialettico e della totalità nell’analisi del processo storico, propriamente marxiano, secondo cui il vero è l’intero. In questo modo, secondo la Luxemburg, si finisce per non vedere più, al di là delle crisi che il capitalismo riesce a evitare o superare, le contraddizioni in cui esso, in virtù della sua dinamica intrinseca, continua ad avvitarsi, con la loro insostenibilità crescente, che pungolano la coscienza di classe del proletariato e la spingono all’azione rivoluzionaria risolutiva. Ecco, perché pur riconoscendo l’importanza delle riforme e delle conquiste sindacali che gli estremisti e i massimalisti non riconoscono, la Luxemberg non accetta la sfiducia “opportunistica” nella rivoluzione e le remore del partito ad appoggiare e incoraggiare la rivolta spontanea e creativa delle masse. In quest’ottica, anche le “sconfitte” prevedibili o probabili, se viste come atti mediante i quali il processo storico avanza, diventano una via necessaria alla vittoria: la costruzione di una società alternativa a quella borghese. In un saggio che le dedicherà nel 1921, György Lukács, l’allievo di Simmel approdato al marxismo, riconoscerà come “un segno dell’unità tra teoria e praxis nell’opera di Rosa Luxemburg il fatto che quest’unità di vittoria e disfatta, di destino singolo e di processo totale abbia formato il filo conduttore della sua teoria e della sua condotta di vita” (Storia e coscienza di classe, Sugarco Edizioni 1988, p. 56).
La dinamica intrinseca dell’economia capitalistica è, d’altronde, descritta dalla Luxemberg come una “crescente anarchia”, nello scritto teorico più importante e complesso, L’accumulazione del capitale del 1913. Costretto ad espandersi nel mondo e ad assoggettare regioni e aree non capitalistiche, considerati i limiti strutturali di assorbimento dei suoi prodotti da parte dei mercati nazionali europei, il capitalismo dovrà ricorrere a imperialismo, militarismo e guerre, e una volta saturato il mondo, le contraddizioni capitalistiche sono destinate a ritornare ai propri luoghi di origine e a portare alla catastrofe. Ma per quanto storicamente necessario, Rosa Luxemberg inviterà a non considerare mai fatale il rovesciamento dell’ordine capitalistico e l’avvento del socialismo, come nella concezione “evoluzionistica” del compagno di partito e per lungo tempo amico Kautsky, ma richiederà sempre il ruolo attivo del proletariato e del partito: con il dilemma “socialismo o barbarie” (uno dei suoi slogan più celebri), Rosa Luxemburg formulava, così, in modo icastico i rischi associati a ogni politica rivoluzionaria che avesse mancato di audacia.
Se l’“opportunismo” dei socialdemocratici alla Bernstein tendeva a paralizzare il movimento rivoluzionario autonomo della classe operaia e a trasformarlo nello strumento delle ambizioni di intellettuali, questo rischio non diventava meno reale, soprattutto nelle fasi iniziali del movimento operaio, se, con un’organizzazione centralizzata del partito, quel movimento di proletari ancora incolti e poco coscienti si fosse consegnato nelle mani dei capi intellettuali del comitato centrale e alla loro guida illuminata. È questa l’obiezione fondamentale che Rosa Luxemburg muove, infatti, già a a partire dal 1904, sulle pagine dell’“Iskra”, alla concezione bolscevica del “partito dei rivoluzionari di professione”, che Lenin stava elaborando in Che fare? (1902) e in Un passo avanti e due indietro (1904), in dissenso con altri socialdemocratici russi come Plechanov e Martov. Pur riconoscendo l’esigenza imperativa di organizzare il movimento operaio con un partito, Rosa Luxemburg metteva in guardia dal pericolo di sostituirsi o sovrapporsi col partito all’azione spontanea e creativa delle masse (vedrà sempre nello sciopero generale la via maestra alla rivoluzione) e dal pericolo permanente per il proletariato di essere ridotto al ruolo di materia prima per l’azione di un gruppo di intellettuali piccolo-borghesi. L’idea di Lenin di affidare la rivoluzione alla “minoranza risoluta” dei capi e degli intellettuali del partito, mettendo sotto la loro tutela il proletariato, rendeva il leader russo agli occhi della rivoluzionaria polacca un neogiacobino o un blanquista piuttosto che un discepolo ed esegeta fedele di Marx. Considerate queste premesse, si comprende come queste critiche e questi timori si riconfermeranno all’indomani della presa del potere da parte dei bolscevichi, con la rivoluzione di Ottobre del 1917. Rosa Luxemburg raccoglie alla spicciolata notizie dai giornali sugli sviluppi della situazione in Russia, mentre è sorvegliata e detenuta nel carcere di Breslavia a causa della sua propaganda pacifista, e mette per iscritto le sue riflessioni nel 1918 in un opuscolo, La rivoluzione russa, che sarà pubblicato postumo nel 1922 da Paul Levi, dopo che questi ruppe con Lenin e fu espulso dal Partito comunista tedesco.
La Luxemburg approva entusiasticamente l’iniziativa rivoluzionaria dei bolscevichi, come prologo di una possibile rivoluzione mondiale, e ne apprezza il “volontarismo”, come ha fatto Gramsci nel famoso e sorprendente articolo: La rivoluzione contro il Capitale, apparso su “L’Avanti” poche settimane dopo l’assalto al Palazzo d’Inverno. Tuttavia, in una serie di atti compiuti dal governo bolscevico (lo scioglimento con la forza dell’Assemblea costituente nel novembre 1917, l’abolizione della libertà di stampa, l’esautoramento dei soviet, che fino a quel momento avevano canalizzato la partecipazione attiva e consapevole delle masse, l’istituzione della polizia segreta), Rosa Luxemburg scorge e denuncia i tratti embrionali di un nuovo Leviatano, i cui germi stavano nella concezione leninista, elitaria e autoritaria, del partito. Dal suo punto di vista, la “dittatura del proletariato” non può concretizzarsi nella “dittatura di un partito o di una cricca”, ma come “dittatura della ‘classe’, cioè nella più larga pubblicità, con la più attiva e libera partecipazione delle masse popolari in una democrazia senza limiti” e, pertanto, occorre non abolire, ma estendere le libertà “formali” di stampa e di associazione, tanto più nella società socialista, perché “la libertà riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico partito – siano pure numerosi quanto si vuole – non è libertà, la libertà è sempre soltanto libertà di chi pensa diversamente”. Va da sé che la “fede” nel socialismo, con il suo portato di profetismo e messianismo, poteva inficiare l’oggettività e anche la coerenza logica delle analisi pur sempre stringenti della Luxemberg.
Ad esempio, negli stessi anni, toccava al professore Max Weber dimostrare come moralistica e infondata la denuncia socialista del carattere “anarchico” del modo di produzione capitalistico, mostrando come esso scaturisse dall’etica economica delle religioni e dalla piena emancipazione del calcolo economico dall’utile soggettivo e individuale. Così come la morte prematura e violenta impedì a Rosa Luxemburg di chiarire come la necessità, mai negata, di un partito come avanguardia e testa del proletariato prima, durante e dopo la rivoluzione, potesse scongiurare che questo partito non si comportasse come organo di potere. È sempre questa fede, che traeva linfa dalla fiducia per un’umanità rigenerata, che, alla vigilia della prima guerra mondiale, la renderà immune dalle sirene della Kriegsideologie, dai fervori bellicisti e dal gesto “opportunista” più clamoroso della socialdemocrazia tedesca, che, nell’agosto 1914, approva i crediti di guerra in Parlamento in nome dell’unità nazionale. Rosa Luxemberg resterà pacifista e internazionalista, mentre si sfalda la Seconda Internazionale, e, col protrarsi del conflitto, comincerà a vedere nelle conseguenze catastrofiche della guerra l’occasione di una crisi risolutiva, del punto di rottura dell’ordine sociale capitalistico, attestandosi così sulle posizioni radicali, che, con Karl Liebknecht, l’unico deputato socialdemocratico che non si era allineato a quel drammatico voto, la porteranno a fondare la “Lega di Spartaco” e, poi, il Partito comunista tedesco.
Fino al fatale e tragico 15 gennaio 1919.
Se, dopo quella data, l’azione e la voce carismatica di Rosa Luxemburg avessero risuonato anche nella Repubblica di Weimar, non sappiamo come ella avrebbe sviluppato la sua critica al sistema sovietico, quale ruolo avrebbe assunto nel filone che Maurice Merleau-Ponty chiamerà “marxismo occidentale” e, soprattutto, come avrebbe inciso nella dinamica dei rapporti politici e parlamentari tra comunisti e socialdemocratici, considerato che proprio il suo assassinio e quello di Karl Liebknecht apriranno un fossato permanente e una ferita non più rimarginata tra i due partiti, che agevolerà l’ascesa elettorale e le possibilità di manovra politica dei nazisti, a partire dagli anni trenta. Quel che possiamo oggi raccogliere ed estrapolare dalle teorie, dai discorsi, dalle lettere, che hanno ispirato la militanza appassionata che ha fagocitato quasi tutta la sua vita tragicamente spezzata all’età di quarantotto anni, sono due parole chiave, le impronte di un pensiero combattivo e di una sensibilità politica in continua evoluzione: democrazia e compassione. La sua idea di un partito che non inquadra e dirige le masse, ma ne incoraggia le lotte spontanee e ne valorizza la creatività, è solidale con il nesso indissolubile, ai suoi occhi, di socialismo e democrazia. La democrazia “borghese” con i suoi istituti e con le sue forme politiche è necessaria per Rosa Luxemburg ancora di più al movimento operaio verso il traguardo del socialismo, ma anche alla costruzione della società socialista stessa. Indispensabile per far avanzare i diritti e gli interessi delle classi lavoratrici nella società capitalistica, ma anche per trasformare in senso socialista la società, considerato che il capitalismo pone dei limiti alla democrazia e all’esercizio delle libertà democratiche. Rosa Luxemburg puntava insomma a tenere insieme ciò che altre correnti del marxismo separavano e contrapponevano: democrazia formale e democrazia reale, democrazia borghese e democrazia proletaria.
E quando i nodi pratici e non solo teorici di questa distinzione vennero al pettine con la rivoluzione bolscevica, la Luxemburg, come si è visto con La rivoluzione russa scritta nell’autunno del 1918, si oppose all’idea di Lenin e Trotsky di realizzare la seconda mediante la “dittatura” del partito comunista come rappresentante dei lavoratori o anche solo dei soviet e in opposizione e alternativa all’“astrattezza” della seconda. Per la rivoluzionaria polacca era giusto pensare a un sistema istituzionale misto dove le istituzioni della democrazia (parlamento, suffragio universale, libertà di espressione) potessero coesistere con i consigli degli operai e dei soldati. Un’idea che tra l’altro convergeva con le posizioni anche della frazione dei socialdemocratici indipendenti dell’USPD come Rudolf Hilferding et Karl Kautsky e che si è affacciata anche nella tormentata vicenda dei Paesi del “socialismo reale” alla ricerca di un “socialismo dal volto umano”. Quel che rimane rilevante di questa impostazione di Rosa Luxemburg, al di là delle stesse oscillazioni che ella ebbe dal novembre 1918, è il fatto di innestare, valorizzandoli, nella prospettiva marxista, gli aspetti “formali” della democrazia e, combinando strutture di base e strutture rappresentative, lo sforzo di concepire forme istituzionali capaci di estendere la democrazia, oltre i limiti posti dalle diseguaglianze concrete e dalle sperequazioni generate dal sistema capitalistico. Questo sforzo non è lontano da quello compiuto, più di recente, da filosofi e scienziati politici come Robert Dahl, che si è posto il problema della ineguaglianza delle risorse d’influenza politica nelle democrazie pluraliste, o dalle carte costituzionali più avanzate come quella repubblicana italiana, che al secondo comma dell’articolo 3, assegna alla Repubblica “il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”.
Ma c’è una Rosa Luxemburg che, quando esce dalle categorie rigide della concezione materialistica della storia, soprattutto nella corrispondenza, si avventura nel campo delle emozioni, della loro fecondità esistenziale e politica, e, in una lettera, tra le più note, scritta dal carcere nel dicembre 1917 e destinata a Sonja Liebkenecht, ne incontra una particolarmente rivelativa: l’emozione della compassione. In questa lettera, che Karl Kraus pubblica nella rivista Fackel nel luglio 1920, auspicando che sia ospitata nelle antologie scolastiche per il suo pregio letterario, la Luxemburg innanzitutto, per contrasto all’inquietudine che vive l’amica, si scopre straordinariamente “calma e serena”, nonostante le condizioni di dura segregazione e desolazione in carcere. Confessa all’amica: “Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità… Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa” e aggiunge, in uno slancio di solidarietà amicale: “Quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso… vorrei soltanto donarvi la mia inesauribile letizia”.
E più avanti, Rosa racconta del dolore che le ha provocato assistere a una scena: due bufali usati come animali da soma per trasportare carichi enormi di giubbe e altro materiale di guerra, così brutalmente percossi da un soldato, da suscitare la compassione della guardiana e, poi, la sua nel vedere uno dei due bufali sanguinare e assumere “un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo”, tanto da farle sospirare: “Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia” (R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007). Nell’equiparare la propria condizione a quella dell’animale, pur così diversa, Rosa Luxemburg muove dalla valutazione della comune vulnerabilità al dolore, alla fame, alla malattia e ad altre forme di sofferenza (la sofferenza del bufalo sottratto alle sue praterie rumene, come bottino di guerra, diventa l’epitome di tutte le sofferenze umane e non umane provocate dalla guerra, come dimostra la conclusione della lettera), che sta sempre alla base del sentimento di compassione, che, a differenza dell’empatia, che consiste nel sentire o entrare in risonanza con ciò che sente un’altra persona particolare, rinvia a una morale naturale e universale, indipendente dalle culture e dalle epoche storiche. La Luxemburg sembra intuire la forza etica e umanizzante che può avere la capacità di compassione, quando – come si vede nelle ultime scene del film che le ha dedicato Margarethe von Trotta nel 1986 – dettando proprio a Sonja il suo editoriale per il giornale di partito, nei giorni concitati dell’insurrezione berlinese, dice sorprendentemente: “L’uomo affrettato da un’azione importante, che, negligentemente, calpesta un miserabile verme, commette un crimine”.
Pochi cenni, ma significativi, dove il concetto di socialismo sembra allargarsi a quello di una socialità che trova il suo fondamento nella capacità di compatire l’altro e nello spirito attivo e cooperativo che la compassione induce. Troviamo così i prodromi di una riflessione sul significato morale e cognitivo, sociale e politico, della compassione, che coinvolgerà molti esponenti della scena filosofica contemporanea, da Lévinas a Nussbaum, arrivando fino ai giorni nostri. D’altra parte, la preoccupazione di Rosa Luxemburg di preservare le libertà democratiche che l’autoritarismo bolscevico russo annullava, non conteneva forse la preoccupazione di creare le condizioni istituzionali e giuridiche che promuovessero le capacità di convivenza disinteressata e affettiva dei singoli individui e lo sradicamento della violenza permeante la struttura di classe della società capitalistica che la Luxemburg vedeva riproporsi drammaticamente, in forme nuove, nel socialismo realizzato dei bolscevichi? Se è così, suonano allora pertinenti le parole dell’epitaffio che le dedicò Bertolt Brecht, dopo il ritrovamento del suo corpo e la sepoltura: “Qui giace sepolta/ Rosa Luxemburg/ Un’ebrea polacca/ Che combatté in difesa dei lavoratori tedeschi,/ Uccisa/ Dagli oppressori tedeschi. Oppressi,/ Seppellite la vostra discordia!” (Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1981, p. 182)