Il bivacco, e la vocazione di perdersi
Ho calzato scarponi, indossato lo zaino, reflex a tracolla e poi via, via rapido verso quel luogo da dove amo partire per salire in Presolana. Stanno costruendo il nuovo bivacco, mi ha detto un amico. Urca. Devo andare, subito. Devo salutare quello vecchio! Già, "Il (mio) Bivacco" non è la definizione del luogo speciale che si trova in montagna, il riparo per la notte con poco o nulla da mangiare, dentro (e quel poco o nulla va lasciato stare, o sostituito con qualcos'altro di altrettanto fondamentale). "Il (mio) Bivacco" è quello a 2050 metri sotto le vette della "Montagna" (ché la Presolana per me è "La Montagna").
Bivacco, città di Clusone, ph. Davide Sapienza
(Sinossi) Il "Bivacco Città di Clusone" è nato dopo che il 24 marzo 1968 sette persone persero la vita risalendo il canale Bendotti, per fornire all'allora giovane soccorso alpino opportunità di avamposto. Dopo quasi mezzo secolo, quella scatola rossa di metallo (ma con troppo amianto sulla copertura), l'amichevole guscio di alpinisti e vagabondi delle alte terre, cambia – anche posizione: dieci metri sotto al guscio rosso, proprio sul balcone delle "scogliere verdi" di Presolana tra Valle dell'Ombra e Calvario. Quello nuovo è splendido. Va detto. (Fine Sinossi)
Risalendo le tracce di sentiero della valle Cassinelli, la Presolana alle soglie del Solstizio era un bagliore verde: il calcare ha un magnetismo speciale, sarà perché l'acqua vi filtra e anch'io mi sento carsico – la vita accade e filtra per trasformarsi nella mia vicenda interiore, proprio come il liquido della vita (stoltamente chiamato "brutto tempo") entra nelle rocce calcaree per diventare sorgente – dunque vita (o stolti). Al "Bivacco" per me c'è stato un incontro interstellare. Vagabondando tra suggestioni e terre alte, arrivato lassù, attraversata la linea della nebbia a duemila metri, ho lasciato il sole fuori e ho aperto un varco – proprio come tante altre volte.
Il varco è spaziotemporale. Lì mi sono venute in mente tante cose, ad esempio che l'amico e maestro di vagabondaggi e viaggi Franco Michieli (con il quale ho pubblicato Scrivere la natura nel 2012, lo dico per farvi capire che sono "di parte") ha scritto un libro che riassume quattro decenni di "carriera a piedi" non descrivibile in due righe. Si intitola La vocazione di perdersi, è pubblicato da Ediciclo nella collana Piccola Filosofia di Viaggio (da me aperta con La musica della neve, di cui doppiozero ospitò un'anteprima quattro anni fa) e racconta con rara maestria l'inclinazione di andare a cercare il modo di smarrirsi nello spaziotempo cancellando le coordinate conosciute, per entrare nel territorio interiore-esteriore con il quale conversare per capire che, dopotutto, ogni direzione è la direzione giusta. Pensando a questo libro, che abbiamo atteso anche troppi anni (ma che ora esiste), scritto così bene, ho osservato il guscio rosso quasi smantellato e ho ricordato: i primi tempi dell'amicizia con Franco, a "Il Bivacco" andai tentando di perdermi tra le scogliere di quello che fu un grande mare, la Presolana. Che brividi. In pratica devi imparare a camminare con l'inconscio. Devi capire che perderti ti farà vedere tutto diversamente. E che alla fine, una traccia verso casa la troverai. Casa, che era appunto "Il Bivacco". Sbucò ammiccante e rosso, lassù. Sorrisi felice. Mi ero perso. Mi ero, finalmente, trovato. Varcata questa soglia mi è tornato in mente un giorno in cui insieme a un amico – questa volta sì, con gli ski "pellati" ai pedi – vagammo due ore in un mare bianco di neve e whiteout, dondolando meravigliosamente tra variazioni del terreno a noi care e conosciute che però così sembravano completamente sconosciute ai piedi diventati assi di legno. Che incredibile sensazione, trovarsi all'improvviso a dieci metri dal guscio rosso, proprio lì dove ora sorge quello nuovo, dentro quel whiteout, aprire la porticina di metallo, sederci e sorridere, bevendo un tè caldo!
Bivacco, città di Clusone, ph. Davide Sapienza
Sì. Al Solstizio mi è venuto in mente l'inizio di La vocazione di perdersi e il patrimonio genetico di decine di notti e di ore trascorse al "Bivacco" – ma anche di brevi minuti a volte – a perdermi nell'immensità dell'immaginazione creativa, che in montagna trova una propulsione incredibile: "la bellezza misteriosa dell'orizzonte bianco di neve, ondulato e disabitato, gelido e luminoso, disteso intorno a noi in ogni direzione, non dipende dalla sua estetica e nemmeno dalla sua potenza, ma dall'infinità di storie che là dentro potrebbero avvenire e coinvolgerci (...) perché non è per noi un panorama, ma un luogo esteso nello spazio". Esattamente così, Franco. Aggiungerei anche nell'Ultratempo, la folgorante nuova categoria delle idee che mi venne quel giorno... tanti anni fa... ma sì, ovvio, sperduto nella nebbia dei duemila metri, vedendo davanti ai miei passi quel guscio rosso. "Il Bivacco". Il luogo dove non si può restare, ma solo passare.