Speciale
Il giardino degli errori / Il tempo della quarantena
“Il tempo come sonda nella profondità dell’apparenza sociale” (Walter Benjamin, Proust e Baudelaire) ci si presenta per la prima volta nella quarantena di 60 milioni di persone che stiamo iniziando a vivere. Siamo per la prima volta soli. Sperimentiamo il disagio, la paura, ci affidiamo ai mezzi elettronici per comunicare. È una solitudine imposta, non scelta.
Ma nel romanzo proustiano anche la felicità dei personaggi, il piacere sono esperienze solitarie, non possono essere condivise con altri. Perché? La solitudine si situa in una sfera che è in contrasto fondamentale con i piaceri e le gioie che vengono dalla sfera produttiva. Siamo fuori dal “contatto”, annota Benjamin. Quello che si realizza nella sfera del lavoro produttivo. Quello cui stiamo rinunciando non solo nell’ufficio o nel business meeting, ma perfino nella forma della passeggiata, dell’intrattenimento amicale.
Il contatto è, nella Recherche, impensabile perché profondità e immensità sono sempre dalla parte del soggetto, non dell’altro. In questo senso la felicità è solitaria: l’intero romanzo di Proust è dedicato a come la società fa funzionare il “me stesso”.
Oggi siamo costretti alla solitudine del me stesso, ci allontaniamo dalla sfera del lavoro produttivo. Questo assorbimento in me stesso, cui siamo tutti ora costretti, è alla base della solitudine e dell’assenza di contatto, lontano dal “rumore” della società. Che è una società di consumatori, i cui riti, i cui luoghi (dallo stadio al centro commerciale all’aeroporto) sono oggi bruscamente interrotti.
Non sappiamo così più, ora meno che mai, calcolare in che modo le mie parole, i miei movimenti appaiano agli altri. Questa difficoltà che è sempre presente come una legge generale della relazione sociale, si esaspera nel tempo sospeso della quarantena. Lontani dal lavoro produttivo e del consumo non riusciamo più a contemplare la nostra esistenza dal punto di vista del consumatore.
Sarà questa solitudine imposta una come si dice, opportunità? Facciamo i conti con noi stessi. Ma facciamo i conti anche con – a causa del virus – il funzionamento di un male che abbiamo, noi, provocato. Una sofferenza sociale – fisica, psichica, spirituale – che è l’opposto del piacere, che è non-piacere (Paul Ricoeur, Il male). Paradossale risultato di un’economia che si dice utilitarista! Gaia, theòn meter, la nostra Terra Madre ci rovescia addosso la nostra imprevidenza, la nostra esasperata volontà di potenza che si riflette proprio nella sfera produttiva e del consumo: globalizzazione, esternalizzazione, mobilità di tutti i fattori e di tutte le persone.
Abbiamo talmente spinto verso l’outsourcing – praticato dalle imprese produttive e reso possibile dalle catene logistiche delle merci – da importare ora il contagio. Una insensata, calcolata sfida alle leggi terrestri della stanzialità, della località, del prendersi cura della Terra.
Il virus, e il panico finanziario che lo accompagna ci mostrano che la globalizzazione ha assunto la forma labirintica dell’irrgarten, il giardino degli errori in cui le linee si intersecano e noi perdiamo l’uscita. L’immobilità forzata di questi mesi ci appare quindi come una legge del contrappasso che punisce la mobilità sfrenata del mondo globalizzato, l’ovunque che si accompagna al nessun luogo, al transito del “contatto” che si tramuta nel “contagio”.
La forma anomica dell’epidemia – che la scienza non controlla – assume le stesse sembianze del virus informatico, della propagazione virale delle informazioni voluta e dominata dalle imprese globalizzate.
Solo quindi una globalizzazione decentrata, un’attenta reinternalizzazione dei saperi e delle competenze oggi dispersi, una consapevole cura del luogo che abitiamo – la sua buona salute equivale alla nostra – potrà invertire la tendenza, e farci ritrovare il tempo che stiamo perdendo.