Il progetto imperiale di Putin / Russia, Ucraina, Europa: la fine dell’età post-sovietica?
“Il periodo di recupero è finito. La fase post-sovietica nello sviluppo della Russia, del resto, così come nello sviluppo del mondo intero, è completata ed esaurita.”
Nel primo dei documenti programmatici che anticipavano la sua candidatura al terzo mandato presidenziale nel 2012, Vladimir Putin dichiarava la fine della ‘fase post-sovietica nel processo di sviluppo della Russia’ e del resto del mondo, e l’inizio di una nuova era. Un’era in cui era possibile ‘ripristinare la controllabilità elementare del potere’, ‘restituire alla Russia lo status di entità geopolitica’, ‘stabilire un sistema sociale e migliorare l’economia’ del Paese. “La fine della fase post-sovietica” veniva dunque sancita direttamente dalle parole di Putin. Ma che significato aveva in termini politici un’affermazione del genere?
Affermazioni che al tempo potevano sembrare puramente funzionali alla campagna elettorale presidenziale hanno poi trovato una loro concreta applicazione in una serie di riforme relative al ‘ripristino della controllabilità elementare del potere’, approvate nei primi anni seguiti alla rielezione di Putin al terzo mandato presidenziale: la legge federale sulle riunioni pubbliche (giugno 2012), che stabiliva rigide condizioni per l’organizzazione di manifestazioni e cortei a sfondo politico e inaspriva le sanzioni in caso di infrazioni amministrative; la legge sugli ‘agenti stranieri’ (novembre 2012), che mirava a colpire le ONG, obbligandole a registrarsi presso il Ministero della giustizia come ‘agenti stranieri’ se sostenute finanziariamente da fondi stranieri e attive politicamente (che avrebbe portato ad una lunga serie di perquisizioni a sorpresa presso le sedi di decine di ONG, che a lungo andare non avrebbero più potuto portare avanti le loro attività, se non con il supporto di fondi governativi e il beneplacito dell’establishment russo); la ‘legge sulla blasfemia’ (luglio 2013), che stabiliva pene detentive e sanzioni amministrative elevate contro le dichiarazioni e le manifestazioni critiche verso la religione (in chiara risposta al caso del gruppo femminista Pussy Riot, che nel febbraio 2012 si era reso protagonista di una protesta contro la rielezione di Putin con una performance all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca); la legge sul ‘divieto della propaganda per l’omosessualità’ (giugno 2013), che colpiva non soltanto i cittadini russi, ma anche i cittadini stranieri che promuovevano un orientamento sessuale ‘non tradizionale’ sui media e su internet.
Una rilettura del percorso storico post-sovietico, quella di Putin, che sottintendeva quindi risultati concreti nel corso degli anni successivi nelle forme del potere e nel rapporto tra stato e società in Russia. Non a caso, eravamo soltanto ad un anno di distanza dal più grande movimento di opposizione politica nella Federazione Russa, con il movimento di protesta che aveva preso forma nelle maggiori città nel novembre del 2011, dopo le contestate elezioni parlamentari; mentre un anno dopo la rielezione di Putin, nel novembre del 2013, assistevamo in Ucraina all’inizio della Rivoluzione di Euromaidan, come è nota ad Occidente, o Rivoluzione della Dignità, come viene descritta all’interno del Paese. Eventi, quest’ultimi, che tracceranno una scissione e una forte separazione tra i percorsi delle due comunità politiche: se per la Russia la fase post-sovietica era dichiarata conclusa, per l’Ucraina invece le forme della propria comunità politica erano ancora oggetto di dibattito e contestazione.
Ma cosa implica, in termini più ampi, dichiarare la ‘fine dell’età post-sovietica’ nel processo di sviluppo, non solo della Russia, ma significativamente anche del resto del mondo? Cosa vuol dire, in generale, vivere una ‘fase post-sovietica’ di sviluppo della vita politica? Comprendere le dinamiche del contesto post-sovietico nel corso degli ultimi 30 anni è un passaggio importante per far luce sulle origini dei diversi modelli politici sorti all’interno della regione e andare al di là di una distinzione tra bianco e nero in termini etici, che sembra privarci di una possibilità di comprendere il significato reale (e politico) del conflitto odierno tra Russia e Ucraina.
Nel corso degli anni Novanta, la regione è stata protagonista della cosiddetta esperienza della ‘transizione post-sovietica’, ovvero un processo di formazione dei nuovi regimi politici e di democratizzazione nei nuovi stati post-sovietici. Questo processo ha dato vita in molti casi a ‘democrazie imperfette’, nate anche come il prodotto della presunzione e dell’ingenuità occidentale di vedere nel processo di formazione delle istituzioni dell’economia di mercato e della democrazia liberale un processo automatico di trasformazione verso una nuova ‘modernità universale’ nell’era della globalizzazione post-1989. Tuttavia, già all’inizio degli anni Duemila, sembrava chiaro che questa transizione non sarebbe stata così automatica. I risultati della transizione della neonata Federazione Russa nel corso dei suoi primi dieci anni di storia (el’tsiniana) iniziavano già a deludere le attese di politologi ed economisti, che avevano basato le loro previsioni di consolidamento istituzionale su dati statistici e indici di sviluppo democratico. Così, la transizione diventava imprevedibile, e già verso la fine del primo mandato putiniano nel 2003 era chiaro ad osservatori come Peter Rutland che la Russia avrebbe preso direzioni ‘inaspettate’:
Se la Russia non è in effetti diretta verso il capitalismo liberale e la democrazia di mercato, come li conosciamo e li comprendiamo, allora dove è diretta? Regredirà verso il comunismo (improbabile) o verso l'impero (una possibilità concreta)? O sta per ristagnare…? In realtà, la storia non consiste solo in queste tre possibilità: movimento in avanti, movimento indietro o segnare il tempo. Piuttosto, la maggior parte dei movimenti è laterale, si ramifica in direzioni inaspettate, creando ibridi curiosi e imprevedibili. Guardando indietro agli ultimi quindici anni di storia russa, la previsione più sicura è: aspettiamoci qualcosa di imprevedibile.
L’imprevedibilità delle forme del potere politico in Russia era così già evidente agli esordi della carriera politica putiniana (o, per dirla diversamente, gli esiti odierni non erano così imprevedibili e inaspettati). Non a caso, a venticinque anni dal crollo dell’Unione Sovietica, il politologo americano Henry E. Hale si chiedeva cosa fosse andato storto, come si fosse arrivati a distanza di due decenni a rivalutare il crollo dell’Unione Sovietica come uno dei momenti di maggiore ‘sdemocratizzazione’ della vita politica non solo della Russia, ma – a diversi livelli – dell’intera regione. Regimi clientelari guidati da éleite politico-finanziarie legate alle nuove istituzioni democratiche da connessioni di potere informale prendevano forma in misura diversa nello spazio post-sovietico.
In particolare, l’Ucraina sembrava rientrare all’interno di un gruppo di Paesi (insieme a Moldova e Georgia) in cui il cambio delle autorità al vertice sembrava garantire ancora spazio per il confronto democratico e per elezioni libere (seppur legate alla strumentalizzazione di questioni identitarie da parte dei diversi gruppi di interesse, che erano lontane dalle riforme politiche ed economiche necessarie alla vita del Paese). Invece, in altre realtà dove il ripristino della ‘controllabilità elementare del potere’ era stato reso possibile dalla stabilità al vertice della medesima éleite politica (come la Russia, l’Azerbaijan, la Bielorussia e le repubbliche centro-asiatiche), le istituzioni democratiche hanno gradualmente vissuto un processo di significativo svuotamento. Non a caso, solo nel primo gruppo di Paesi – e, in particolar modo, in Ucraina – abbiamo vissuto ‘cicli rivoluzionari’ consistenti, che hanno visto la società civile intervenire nel tentativo di ristabilire uno spazio di ‘rappresentatività politica’ nelle istituzioni democratiche, seppur con scarsi risultati.
Come ricordava il politologo britannico Richard Sakwa, già a circa un decennio di distanza dal crollo dell’URSS e dei regimi comunisti in Europa centro-orientale, la fase post-sovietica di sviluppo politico ha finito per coinvolgere non solo quegli attori che l’hanno vissuta in prima persona. Il nostro sguardo disattento verso questa regione storica non ci ha permesso di comprendere quanto fossimo coinvolti in questo processo di cambiamento. Non ci ha permesso di comprendere, per dirla come Sakwa, che “siamo tutti postcomunisti”:
Proprio come la rivoluzione comunista in Russia e altrove è diventata la "proprietà", per così dire, degli intellettuali, del movimento operaio, e anzi parte dell'esperienza collettiva del ventesimo secolo, così anche il postcomunismo è parte dell'esperienza comune dell'umanità contemporanea. In questa prospettiva il postcomunismo ha sia un significato specifico, riferendosi da un lato ai paesi che sono usciti o stanno uscendo dal comunismo, e, dall'altro, ai dilemmi universali posti dal crollo della sfida socialista rivoluzionaria all'egemonia del capitalismo. Da questo punto di vista, ora siamo tutti postcomunisti.
La fase post-sovietica nello sviluppo della Russia e dell’Ucraina è uno spazio dimenticato in cui ha preso forma in modo chiaro un dibattito sopito ad Occidente: un dibattito relativo alle forme di una democrazia ‘imperfetta’ e del rapporto tra stato e società, non solo ad Oriente ma anche ad Occidente. Dichiarare la fine dell’età post-sovietica oggi significa sostenere e prendere atto che questo dibattito è concluso, che la trasformazione non è più possibile, che un’alternativa a forme autoritarie di potere non esiste. Questa è la posizione che sembra prendere forma nella visione geopolitica promossa dall’éleite politica russa: una posizione che viene affermata oggi brutalmente con la forza anche in Ucraina.
Rileggendo le parole dei maggiori politologi vicini al Cremlino è possibile comprendere quale sia il reale significato della posizione assunta dalla Federazione Russa, tanto alla vigilia quanto all’indomani, dell’apparentemente incomprensibile aggressione all’Ucraina. Già alla fine dello scorso dicembre, Timofej Bordačev, direttore del programma di ricerca del Valdaj Club, il maggiore think tank russo, pubblicava un articolo intitolato ‘La vita dopo la morte: a cosa sono arrivate le ex-repubbliche sovietiche dopo 30 anni’. Nelle battute iniziali, viene subito messa in chiaro la visione della Russia delle relazioni politiche nello spazio post-sovietico, che a due mesi di distanza dalla data di pubblicazione dell’articolo sembra risuonare come una profezia:
A 30 anni dalla sua formale scomparsa, l'URSS continua a vivere, anche se le generazioni di leader e i regimi politici continuano a cambiare nel suo vecchio territorio. E il punto non è solo che le 15 repubbliche dell'Unione sono oggi collegate da uno spazio geopolitico e da elementi culturali comuni. Un fattore ancora più importante è il fatto che la Russia continua a fungere da polo naturale di potere per i suoi vicini. Anche se alcuni di loro sono diventati partecipi delle funzioni delle istituzioni dell'Occidente, la Russia rimane il fattore più importante per la loro sicurezza nazionale. Questo legame può esprimersi nella cooperazione o nel conflitto, spesso molto violento, ma è impossibile liberarsene. Dal momento che la Russia è la potenza militarmente più forte in Eurasia, sarà temuta dai suoi vicini per il prossimo futuro. Ma questa circostanza non va drammatizzata. È naturale come il freddo d'inverno e il caldo d'estate. La Russia e i suoi vicini devono solo imparare a conviverci.
In tempi più recenti, in un saggio pubblicato il primo marzo di quest’anno sulla maggiore rivista di politica internazionale della Federazione Russa (Russia in Global Affairs), dal titolo emblematico “La fine di un’era”, Fedor Lukjanov esplicita poi il cambiamento ‘non troppo’ implicito dettato dall’aggressione militare russa in Ucraina, proiettandolo all’interno dello scenario globale:
La tensione è stata a lungo in ebollizione e l'Ucraina è ora diventata la prima linea decisiva. Questa non è una battaglia ideologica come quella a cui si è assistito nella seconda metà del Novecento…Da un lato, c'è l'esercizio dell'hard power classico, che è guidato da principi semplici, rozzi, ma chiaramente comprensibili: sangue e terra. Dall'altro, un moderno metodo di propagazione degli interessi e dell'influenza, realizzato attraverso un insieme di strumenti ideologici, comunicativi ed economici, efficaci e, allo stesso tempo, malleabili – comunemente indicati come "valori"…Il ‘forte’ Russia ha deciso di mettere alla prova le sue forze e, allo stesso tempo, è diventato un agente di cambiamento cardinale per il mondo intero.
Accettare la “fine di un’era” significa accettare che lo spazio post-sovietico sia ormai diventato il laboratorio di processi politici che ci hanno visto e ci vedranno inermi, ma che in un modo o nell’altro finiranno per coinvolgerci. Basti pensare a quanto è avvenuto, da una parte, alle ‘democrazie imperfette’ di quella parte di Europa centro-orientale che è diventata parte integrante dell’‘Europa politica’. Come suggerisce Ivan Krastev, guardando agli sviluppi recenti nella Polonia di Jarosław Kaczyński e nell’Ungheria di Viktor Orbán:
Per comprendere le origini dell'odierna rivoluzione illiberale dell'Europa centrale e orientale, non bisogna guardare né all'ideologia né all'economia, ma piuttosto all'ostilità repressa generata dalla centralità della mimesi nei processi di riforma avviati nell'Est dopo il 1989. La svolta illiberale non può essere colta a prescindere dall'aspettativa politica di “normalità” creata dalla rivoluzione del 1989 e dalla politica di imitazione che essa ha legittimato. Dopo la caduta del muro di Berlino, l'Europa non era più divisa tra comunisti e democratici. Si divideva invece tra imitatori e imitati. Le relazioni est-ovest si sono trasformate da una situazione di stallo nella Guerra Fredda tra due sistemi ostili in una gerarchia morale all'interno di un unico sistema liberale occidentale. Mentre gli imitatori guardavano con ammirazione i loro modelli, i modelli guardavano dall'alto in basso i loro imitatori. Non è del tutto misterioso, quindi, il motivo per cui "l'imitazione dell'Occidente" scelta volontariamente dagli europei dell'est tre decenni fa alla fine abbia provocato una reazione politica.
Questa reazione politica è poi indubbiamente diventata parte integrante della vita politica delle ‘democrazie altrettanto imperfette’ nella ‘vecchia Europa’: laddove ci meravigliamo della presenza di gruppi di estrema destra tra le fila dell’esercito ucraino (elemento disturbante, peraltro frutto del processo di legittimazione interna portato dagli ultimi 8 anni di guerra, che però non ha alcun riscontro nella vita politica reale del Paese, laddove questi gruppi non sono mai entrati o non hanno mai avuto un ruolo rilevante in Parlamento), ci dimentichiamo ad esempio di guardare alle ‘nostre’ democrazie, dove alcuni tra i maggiori esponenti politici inneggiano all’eredità fascista, riscuotendo più del 20% dei consensi a livello nazionale. E ci dimentichiamo che questi stessi partiti, in Italia come in Francia, non a caso hanno ricevuto in passato il sostegno finanziario e politico dell’éleite della Federazione Russa.
È intorno alla fine o meno di questo percorso che oggi ritroviamo la comune responsabilità di questo conflitto, e cerchiamo di riscoprire un senso di responsabilità politica di fronte alle posizioni da assumere alla luce di queste dinamiche: posizioni che avremmo sicuramente dovuto assumere molto prima della preannunciata “fine dell’età post-sovietica” e dello scoppio di una guerra. Prendendo atto di questo, resta chiaro il fatto che l’unico modo per rispondere alla fine dell’età post-sovietica sostenuta da Putin non possa che ruotare intorno al sostegno alle forme democratiche (imperfette) ai confini dell’Occidente, e ad un’apertura sempre maggiore verso il rinnovamento delle politiche interne e di quelle da adottare nei confronti dell’Ucraina, così come nei confronti delle vittime di tutti i conflitti vicini e lontani che non avrebbero dovuto mai avere inizio.