Rifkin’s Festival / Woody Allen: i conti non tornano

3 Giugno 2021

Il protagonista dell’ultimo film di Woody Allen si chiama Mortimer ma tutti lo chiamano Mort. La Morte. Delle circostanze – tentativi di cancellazione, denigrazione, esilio etc. – che hanno determinato la produzione all’estero di Rifkin’s Festival si è praticamente già detto tutto. Di queste circostanze, Rifkin’s Festival, però – e questo si è detto meno – fa problema, sublimandole artisticamente, ovvero astraendole dalla tanto odiata concreta realtà, alla ricerca del loro valore esistenziale, delle loro grandi domande. 

E conosciamo, allora, Mort, professore di cinema in pensione perennemente alle prese con il suo romanzo. Egli appare sullo schermo mentre si accinge a raccontare la sua strana avventura allo psicanalista, nella cui posizione Allen sceglie di collocare proprio lo spettatore, come a dire che toccherà al pubblico il compito di trarre le conseguenze di quanto raccontato. Il film si trasforma, quindi, in un lungo flashback che dallo studio dello strizzacervelli si sposta fino in Spagna, nella bella San Sebastian, illuminata per l’occasione da Vittorio Storaro. Tutto ha, infatti, inizio quando Mort accetta di seguire la propria moglie al festival del cinema della ridente cittadina basca. Sue, questo il suo nome, lavora al festival come pierre e a lei spetta di occuparsi della promozione dell’ultimo film di un regista di grido, il non meglio identificato Philippe, interpretato da Louis Garrel (la cui presenza nel cast risulta quanto mai politica). 

 

È a San Sebastian che Mort si troverà a fare i conti con la vita. Con il fatto di essere passato di moda, di non essere più considerato il brillante intellettuale che un tempo aveva riscosso ammirazione e fatto innamorare colei che sarebbe diventata sua moglie. Adesso, Sue pensa ad altro. È fortemente affascinata da Philippe, il regista di cui cura l’immagine. Che appare come un vincente. Propugnatore di un’estetica “realista” e politicamente impegnata, Philippe non si fa scrupoli a prendere posizione su qualsiasi argomento, conflitto Israele-Palestina compreso: ecco perché i suoi film, invece che al cinema, possono essere benissimo presentati, come a un certo punto si prospetta, all’assemblea generale delle Nazioni Unite. 

 

La differenza fra Mort e Philippe è, innanzitutto, epidermica (Mort è vecchio e brutto e Philippe giovane e bello) ma viene ironicamente tratteggiata anche attraverso gusti e scelte di vita. Philippe non fa che parlare di Hollywood – delle champagne comedies tanto amate da Allen – ma lo fa vacuamente, senza prenderne le distanze, senza rilevarne il carattere ideologico, costruttivo, finzionale, ovvero aderendo semplicisticamente alla loro narrazione ottimista. Non è un caso che Mort detesti quel cinema, formatosi in un contesto in cui i film venivano presi sul serio, come artefatti che avrebbero potuto aspirare a essere Arte, capaci di dar forma poetica alle questioni metafisiche che da sempre attanagliano l’umanità. A Mort sembra non rimanere altro che prendere atto del proprio fallimento e della propria inattualità: il festival del cinema non è più il festival del cinema, a tavola si parla solo di incassi, a ricevere l’eredità di premi intitolati ai grandi registi come Buñuel sono mezze cartucce come Philippe. A un certo punto, a Philippe dalla Svezia regalano una monografia su Bergman: lui non sa che farsene e la molla a Sue, sarà lei a farla avere a Mort, l’unico davvero interessato a possederla. Ed è allora che i film che hanno costituito quel linguaggio – il cinema come Arte – i film di Welles, Fellini, Godard e Truffaut, Lelouch, Bergman, Buñuel, si trasformano in fantasmi, aleggiano nei suoi sogni in una simpatica riproposizione delle loro sequenze più famose: questi fantasmi di celluloide, il Novecento, fuori dai sogni di Mort, sembrano finiti per sempre. 

 

 

A rimescolare le carte arriva, però, il caso. È, infatti, per una pura coincidenza che Mort incontra Jo. Egli, da quando ha lasciato New York, non fa che accusare dolori al petto e per questo va dal cardiologo. Che scoprirà – a dispetto del suo nome maschile – essere una cardiologa, con un passato newyorkese. In men che non si dica, i due, accomunati da una medesima affezione geografica e da comuni visioni cinematografiche, si ritroveranno a condividere memorie del loro neighborhood e un medesimo disincanto verso il pretenzioso cinema di Philippe. La qual cosa permetterà allo stesso Mort di trovare sollievo nella complicità della sua interlocutrice, invaghendosi di lei mentre il suo matrimonio e tutto ciò che egli aveva ritenuto importante nella vita è sul punto di crollare. 

Si capisce che Mort cercherà in ogni modo di rivederla nonostante non possa esibire alcuna ragione plausibile per essere nuovamente ricevuto da lei. Ma ci riesce. Ed è proprio a margine del loro secondo incontro che arriva una delle sequenze che più mi hanno impressionato di tutto il cinema di Allen. A un certo punto, dopo la visita, i due si ritrovano a parlare dei posti preferiti di New York in una rievocazione che progressivamente guadagna intensità: “Mi dica, qual era il suo posto preferito dove passare il tempo a Central Park? Io ho sempre amato stare al laghetto delle barche a vela”, “Ha visto molto di Shakespeare nel parco? È stato fantastico andare in quelle notti d’estate”. 

 

Ma squilla il telefono. È allora che Mort si ritrova imbarazzato testimone dell’ennesima sfuriata fra lei e il marito. Al ritorno, Jo è visibilmente emozionata ma si sforza di continuare la conversazione a proposito di New York: “cos’è che dicevi? “Central Park”, “Oh, Central Park... Sì, ho passato molto tempo al Met e mi piaceva stare seduta sui gradini anche in primavera”, mentre la voce si rompe per la commozione fino a sfociare, quando Mort richiama il ricordo di una caffetteria di Madison Avenue, in un pianto a dirotto. La sequenza è struggente perché costruisce una sorta di indecidibilità: perché piange Jo? Piange per la sua litigata con il marito? O piange, con Woody Allen, per la New York perduta? La New York che ripudia se stessa, i suoi artisti, il suo sudiciume, la sua storia, i suoi posti? “Sono stata in ognuna di quelle caffetterie. Le amavo”. Si realizza una disperante sensazione di perdita di senso. 

 

Che però trova la strada per riaffiorare, grazie all’erotismo. È nel flirt complice fra le anime in pena di Mort e Jo, circondate da personaggi vuoti e superficiali, che si scorge una via d’uscita allo stesso tempo esistenziale e politica. Esistenziale perché fa intravvedere che non è finita lì, che c’è ancora tempo per tirare le somme, che la morte non potrà che attendere, illuminando la strada a nuovi inizi. Politica perché chiede impegno, presuppone un atteggiamento amorevolmente conservatore, custode del punto di vista e delle grandi opere del Novecento. E, d’altra parte, presuppone anche un recupero dell’umanesimo contro ogni imperativo categorico alla produttività e alla specializzazione: “Ultimamente sono tentata di lasciare la mia professione e fare qualcos’altro e quel desiderio mi spaventa. E cosa faresti? Qualsiasi cosa. Non so, scrivere, leggere, forse solo studiare seguire lezioni scoprire cosa davvero voglio, chi sono davvero, forse sono un dilettante, è così male?”.

 

Anche Mort è un inconcludente, di fronte alla sfida con i grandi maestri della letteratura, tergiversa, il suo romanzo non trova mai compimento. E nel frattempo, nel disperato tentativo di mantenere il suo feticcio, dimentica di essere se stesso, per ritrovarsi, infine, di fronte al baratro con le mani vuote. Ma – è questa la lezione che gli verrà impartita dalla morte in persona – se è vero che la vita non ha senso, non si può dire che sia vuota: si riempie regolarmente delle solite cazzate (lavoro, famiglia, amori). Il segreto è essere consapevoli che, anche se si dovesse fallire, ciò non la renderebbe meno piena. E allora si può sempre scegliere di non impuntarsi, di non concludere. E tornare a essere se stessi, lasciandosi il passato alle spalle, seppur fitte di dolore al petto ti prendono al solo nominare la New York perduta. 

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