13 novembre 1940 – 25 agosto 2019 / Eliseo Mattiacci. Dalla terra al cielo
Sin dai suoi esordi negli anni Sessanta la scultura è per Eliseo Mattiacci un processo di energie in trasformazione. Il cielo e l’iconografia cosmica; le forze, i pesi e le tensioni dei materiali sono problematiche centrali della sua scultura che ricerca l’instabilità, il divenire, “l’esserci fisicamente nelle cose”. Un percorso dalla terra al cielo che l’artista ha ricollegato a una premonitrice immagine d’infanzia, quando nel contesto contadino della sua famiglia, arando i campi, ammirava “le zolle girate dall’aratro” che “riflettevano le stelle”.
Due mostre in anni recenti hanno riportato all’attenzione la centralità del suo lavoro nell’ambito del rinnovamento della scultura del XX Secolo – le antologiche curate da Gianfranco Maraniello al Mart di Rovereto nel 2016, e da Sergio Risaliti, al Forte di Belvedere e al Museo del Novecento di Firenze nel 2018. Attraversando i decenni e i diversi momenti della sua ricerca, questi eventi espositivi hanno evidenziato la potenza di una processualità plastica che ha scardinato i confini per disegnare nuove spazialità e modalità della scultura.
Nel 1967 Mattiacci ha partecipato alla prima mostra dell’Arte Povera, alla Galleria La Bertesca di Genova. Ha tuttavia considerato da sempre vincolante circoscrivere la propria poetica all’interno di un’etichetta, di una compagine definita. Di “situazioni” più che di “gruppi” Mattiacci è infatti andato alla ricerca sin dai suoi primi passi, quando nel 1964 dalle Marche approda a Roma, dove soggiorna per più di vent’anni, sino al 1986, anno in cui dopo la nascita della figlia Cornelia farà ritorno con la compagna Silvia Mancini nelle Marche, stabilendosi a Pesaro.
Roma è stata per Mattiacci il luogo della sua rivoluzione linguistica, territorio di convergenza e collisione di memorie e tensioni, in un fitto intreccio con le vicende di una generazione di artisti che ha contribuito alla riconfigurazione degli orizzonti fisici e concettuali del fare. Sergio Lombardo, Maurizio Mochetti, Mario Schifano, Mario Ceroli, Jannis Kounellis e Pino Pascali sono gli artisti che Mattiacci frequenta sin dai suoi primi anni del soggiorno nella capitale. Con Pascali in primis, prematuramente scomparso nel 1968, sono anni di intensa amicizia e condivisione sul piano artistico.
Roma, “la città più monumentale, la città più sfatta, la città più bella, la città che non finisci mai di scoprire, la città che per un artista è ancora vitale, ma per il lavoro in sé è dura e cinica più di quello che può sembrare” – così la descrive Mattiacci in un appunto inedito conservato presso il suo Archivio; Roma, appunto, diventa il palcoscenico di mostre e azioni, fissate negli scatti fotografici di Claudio Abate, oggi tra le testimonianze visive più iconiche dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta.
Il momento cruciale di passaggio dall’oggetto scultoreo all’azione è segnato dal Tubo presentato per la prima volta alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis nel marzo 1967. In occasione della mostra parte del lungo serpentone di metallo snodabile verniciato di giallo Agip viene trasportato dallo studio dell’artista in galleria con un’azione collettiva che coinvolge lo spazio urbano e che di fatto si rivela come un punto di riferimento per una nuova modalità partecipativa al fatto plastico. Dalla strada, il corpo fluido del Tubo entra infine in galleria, dove il pubblico è invitato a interagire con la forma e di conseguenza a modificare lo spazio che diventa parte integrante del lavoro, vaporizzando i confini: tra interno ed esterno, tra pratica e contemplazione, tra forma e anti-forma. Mediante l’esplorazione di quella che Mario Diacono definisce “l’estasi mistica di un operare nell’infinitezza”, il Tubo contribuisce a quell’“incessante aggiornamento sul linguaggio internazionale e particolarmente americano attuato a Roma”, tra environment e happening, ma con una propensione che tuttavia contamina sin da subito radici avanguardiste diverse, scompaginando assetti, statuti consolidati, letture unidirezionate.
Vengono subito dopo i Cilindri praticabili (1968), attivabili dal fruitore, che è sollecitato a sostare all’interno dondolandosi o a camminare dentro la forma plastica. Sono grandi cerchi di lamiera ondulata realizzati in relazione al modulo corporeo (misura orientativa dell’ampiezza delle braccia aperte di un corpo adulto). Prima di essere esposti all’Attico – la Galleria di Fabio Sargentini, spazio di punta dell’avanguardia artistica romana – sono allestiti nel Parco Nomentano, vicino allo studio dell’artista. Attestando una militanza che prescinde dall’ideologia, i Cilindri praticabili conferiscono una specifica “politicità dell’esistente” al gesto artistico nel clima incandescente del ’68. La fruizione spontanea, non mediata, dei bambini traghetta la scultura verso una condizione ibrida e laterale di oggetto-giocattolo in piena sintonia con l’utopia marcusiana della liberazione che nutre quei giorni.
In relazione al Tubo e ai Cilindri praticabili, Vittorio Rubiu parla del “secondo tubismo” di Mattiacci: non riferendosi al “tubismo” pittorico di Léger ma alla visionarietà modernista che emerge nelle riflessioni teoriche dell’artista francese, dove industria, immaginazione e reale si incontrano, senza soluzione di continuità. Per Mattiacci il reale diventa la strada, il proprio corpo, il lavorare con le forze e le tensioni dei materiali. La dimensione industriale-tecnologica troverà invece, nella sua ricerca, un’intrinseca e naturale polarità dialettica in una dimensione arcaico-primaria mediante la quale l’artista porta l’attenzione alla terra come materiale evocativo di antiche ritualità contadine e come luogo di intervento, oltreché alla Terra intesa nei suoi moti primari di rivoluzione e rotazione. Questa traiettoria è segnata da due azioni epocali: Lavori in corso (1968), al Circo Massimo, e Il Percorso (1969), all’Attico.
Il 1° marzo 1969, a distanza di due mesi dall’azione dei Dodici cavalli vivi di Kounellis, Mattiacci entra nel garage di via Beccaria, il nuovo spazio di Sargentini, su un compressore arancione e blu e spiana della terra pozzolana per creare un percorso-sentiero vibrante e accidentato che si estende dall’ingresso all’interno. Leggendo oggi questo intervento in relazione con il coevo scenario earthworks americano, sembra che Mattiacci abbia fornito la propria risposta e critica alle grandi operazioni sul paesaggio compiute dagli artisti d’oltreoceano. Se alla base delle azioni di accumulazione, scavo, scaricamento, incisione, demarcazione condotte sul paesaggio dagli artisti americani vi è l’utilizzo di mezzi meccanici, Mattiacci nella sua azione trasforma il rullo compressore in una sorta di grande ready-made, ancora una volta un oggetto-giocattolo che depotenzia la tecnologia e conferisce “qualità misteriose” all’azione.
In una mediterranea traiettoria antiform che si propaga dal Tubo a Lavori in corso, dal Percorso ad Assistere intensamente al processo di crescita, intervento ideato per Processi di pensiero visualizzati (la mostra sulla giovane avanguardia italiana poverista curata da Jean-Christophe Ammann al Kunstmuseum di Lucerna nel 1970), Mattiacci è dunque attratto dalla temporalizzazione della forma messa in tensione dai gesti dell’artista e della gente, dagli agenti atmosferici, dalle forze cosmiche.
“Amo l’esserci fisicamente nelle cose – scrive nel 1969, fornendo un primo resoconto dell’intesa stagione di rinnovamento della sua scultura – poggiarci le mani, analizzarle e comprimerle, attraversarle: perché esistono. Per questo i materiali che uso sono vari: mi interessa vedere come reagiscono, come si piegano. Mi piace vedere una materia compressa da un peso, osservata in trasparenza, assistere a come si muove e varia nell’aria, nel sole, nella pioggia. Le dune di sabbia formate dal vento, oppure trattenute da membrane trasparenti; quel che galleggia, si arrotola, si srotola. E le azioni improvvise e instabili, l’incontro fortuito”.
A ragione Fabrizio D’Amico, che a Mattiacci ha dedicato pagine tra le sue più intense, ha letto queste riflessioni come rivelatrici di tanta scultura a venire, quando a partire dagli anni Ottanta nuovi interessi cosmico-astronomici rivitalizzano il suo rapporto con la materia, con l’immagine plastica, con l’idea di scultura.
In mezzo tra queste due stagioni si situano le pratiche comportamentali degli anni Settanta che pongono al centro del discorso il corpo dell’artista. Dall’estroversione delle azioni della fine degli anni Sessanta, l’indagine degli anni Settanta capovolge lo sguardo ai comportamenti che mettono in evidenza limiti ed energie nascoste del corpo e del pensiero. È un processo di conoscenza che porta l’artista ad ascoltarsi nel profondo, a toccare i limiti dell’agire, a esperire attraverso pratiche fisico-antropologiche il confronto continuo tra visibile e invisibile. “Dal 1971 l’erranza cosmica si trasforma in immersione nella voragine del corpo, che viene assunto quale galassia composta di carne e di spirito”, scrive Germano Celant nella monografia pubblicata da Skira nel 2013, un ponderoso volume realizzato con la collaborazione scientifica di Francesca Cattoi che ha raccolto testimonianze dell’artista, oggi fonte preziosissima per inoltrarsi nel suo lavoro.
Il percorso è annunciato dalle 12 radiografie del proprio corpo esposte alla Galleria Toselli di Milano nel 1971, e approfondito in azioni come Esperienza fisiologica, realizzata all’Attico il 4 dicembre 1971, e Pensare il pensiero - Rifarsi, messe in atto in occasione della mostra alla Galleria Alexandre Jolas nel maggio 1973.
Attraverso la tensione che si istituisce tra gesto e pensiero, tra visibile e invisibile, anche lo spettatore è sollecitato a compiere la propria esperienza fisiologica nello spazio della mostra, come avviene ad esempio con Essere e Respirare, azione-scultura del 1978 esposta proprio in questi mesi nella mostra Entrare nell’opera. Prozesse und Aktionen in der Arte Povera al Kunstmuseum di Vaduz (itinerante al MAMC+ / Musée d’art moderne et contemporain di Saint-Étienne, a partire dal 30 novembre). Una lastra di piombo dell’altezza di una porta è collocata a parete, accanto a un martello, su cui è incisa la parola Essere, messo a disposizione del visitatore che può usarlo percuotendo la superficie per lasciare la propria traccia mediante un gesto che afferma la propria presenza nel qui e ora. Il coinvolgimento ambientale e sensoriale si completa con Respirare, consistente in una mezza sfera nera, collocata a parete al cui interno è posizionato un microfono che trasmette il suono del respiro dell’artista, il suo soffio vitale. Al culmine di uno dei momenti più tesi della storia socio-politica italiana degli anni Settanta, con Essere e Respirare, presentata per la prima volta alla Galleria La Salita di Roma il 14 marzo 1978 (due giorni prima del sequestro di Aldo Moro), Mattiacci rivendica il vitalismo prorompente dell’azione artistica, oltre lo spazio e il tempo, alla ricerca di una dimensione cosmica infinita.