100 anni DADA
Cento anni fa, il 5 febbraio 1916 apriva a Zurigo il Cabaret Voltaire e iniziava l’avventura, la rivolta, il ripensamento che si chiamò Dada. Destino scritto nella piccola storia, il Cabaret apriva in Spiegelgasse, vicolo dello specchio: nessuno avrebbe rispecchiato meglio la fase turbolenta, folle, caotica di quel momento. Occupava la sala di fondo di una taverna che dava sulla via, dove andava a mangiare anche Lenin. Zurigo era naturalmente una città di rifugiati che si riparavano dalla guerra e ospitava una quantità di personaggi di ogni sorta: c’era anche Joyce, che sta scrivendo l’Ulisse, c’erano i pacifisti raccolti intorno a Romain Rolland, che riceve il premio Nobel proprio quell’anno.
L’iniziativa del Cabaret è di Hugo Ball, un giovane attore-musicista-letterato-studioso, insieme alla compagna Emmy Hennings, cantante e attrice. Il 2 febbraio Ball pubblica su un giornale di Zurigo l’annuncio dell’apertura con l’invito ai “giovani artisti, di tutte le tendenze, a raggiungerci con suggerimenti e proposte”. Il pomeriggio dell’inaugurazione, mentre stanno ancora allestendo il locale, si presentano Tristan Tzara e Marcel Janco, due rumeni, che vengono ingaggiati subito per la sera stessa. C’è poi Jean Arp, un artista già attivo da qualche anno, con conoscenze dirette del mondo parigino, e nel fine settimana giunge Richard Huelsenbeck, che Ball aveva già conosciuto a Monaco qualche anno prima negli ambienti del Cavaliere Azzurro. “Siamo cinque amici – scrive Ball nel suo diario pubblicato nel 1927 con il titolo La fuga dal tempo – e la cosa strana è che non siamo mai d’accordo completamente e allo stesso momento, sebbene ci leghi la stessa convinzione sulle cose essenziali”. Basta un niente, continua, perché Arp, che prima s’intendeva con Huelsenbeck, ora si allei con Janco contro di lui, quindi Huelsenbeck e Tzara, prima distanti, si accordano contro Arp e via dicendo.
Janco, Cabaret Voltaire
Il nome del Cabaret è un omaggio, un riferimento all’autore del Candide, una delle più sagaci e impietose denunce della stupidità umana. Sempre nel diario di Ball c’è una dichiarazione sintetica che suona proprio: “Gli ideali artistici e culturali come programma di un varietà: ecco la nostra maniera di presentare Candide in contrasto con i nostri tempi”.
Le serate del Cabaret diventano il laboratorio delle sperimentazioni più radicali del momento, raccolta prima, sviluppo ben presto delle forme più avanzate in campo artistico, anticipazione in diversi ambiti che troveranno solo diversi decenni dopo una formulazione riconosciuta.
Il Cabaret dura cinque mesi in tutto. L’idea di com’era e dell’atmosfera delle serate che vi si svolgevano la dà un’unica immagine, un quadro di Janco peraltro scomparso, in cui si vede una sala con alle pareti quadri e manifesti, un palcoscenico stipato di personaggi vari che si agitano, alcuni con maschere, e gente seduta a tavolini che assiste e interloquisce.
Le serate sono dapprima la presentazione di un misto di testi, prose e poesie, e di esecuzioni musicali, musica impegnativa ma anche canzoni appunto da cabaret. Vi si presenta il meglio della letteratura e della musica del momento. Alcune serate sono tematiche, la serata russa, quella francese. Poi via via l’atmosfera si scalda, la provocazione ottiene i suoi effetti, Tzara è un grande promotore e si dà subito da fare. Si pubblica il numero unico della rivista omonima, nasce il nome Dada per dare una denominazione con cui presentare quello che viene già sentito come un “movimento”. Anche la storia della nascita del nome Dada diventa una leggenda, sia per l’origine sia per l’attribuzione. Ball la racconta attribuendola a sé – Tzara e Huelsenbeck faranno altrettanto – ma le circostanze sono quelle giuste: “Tzara ci tormenta a causa della rivista. La mia proposta di metterle come titolo «Dada» viene accettata. [...] In rumeno da-da significa ‘sì-sì’, in francese ‘cavallo a dondolo’. Per i tedeschi è un segno di sciocca ingenuità e di attaccamento, felice di procreare, alla carrozzina dei bambini”. La spiegazione del nome è significativa: nel “sì-sì” c’è l’atmosfera di collaborazione ma anche l’ironico rovesciamento del carattere più marcato di Dada, sua chiave interpretativa che sarà la più diffusa e insieme critica che le sarà più rinfacciata dai nemici, cioè il “no-no” del nichilismo e della rivolta contro tutto. Anche qui la definizione sintetica più famosa è ancora di Ball e figura ancora nel suo diario: “Un gioco da pazzi uscito dal nulla”, che è tradotto anche con “una farsa del nulla”, con duplice significato di farsa su un tutto che viene denunciato come nulla e rivolta del nulla contro le pretese del tutto. Nei rimandi al cavallo a dondolo e all’ingenuità c’è poi quel misto effettivo di serietà di intenti e atteggiamento misto a infantilismo e senso dell’urgenza di fare che caratterizzò le serate.
Leggendaria del Cabaret Voltaire è diventata proprio l’atmosfera, quella dei movimenti al loro nascere, ancora mista e confusa ma sostenuta dallo slancio e dalla sensazione netta di star facendo qualcosa che risponde alla situazione, che, al di là dell’incomprensione, solleva delle questioni. Questo “tormento” a trovare il nome più efficace è la spia di una difficile verità del senza nome. Ball, il più “serio” del gruppo, lo studioso dell’anarchia, di teologia, filosofia, storia, in piena rivolta scrive: “Non ci si può aspettare da noi che confondiamo l’eroismo con l’ottusità e la freddezza di cuore che ogni giorno si rivela più fatale. Un giorno si ammetterà che noi abbiamo reagito con gentilezza addirittura toccante”.
Le invenzioni che si susseguono sono passate alla storia, in parte sviluppo diretto degli esiti più avanzati dei movimenti artistici precedenti, dal Cubismo al Futurismo, dalla poesia francese e tedesca agli esperimenti paroliberisti futuristi e “transmentali” della poesia zaum russa, dalla musica di Debussy e di Stravinskij al “rumorismo” – “Ieri si son dati appuntamento tutti gli stili degli ultimi vent’anni”, scrive Ball –, in parte invenzioni originali e anticipazioni di ciò che verrà in seguito, performance o altro.
Quello che verrà identificato più propriamente come Dada verrà dopo, a Cabaret disciolto, quando Tzara prenderà in mano la situazione, la internazionalizzerà, farà una rivista e mostre con quel nome, scriverà manifesti e raccoglierà intorno ad essi un gruppo sempre più ampio.
Le interpretazioni di Dada si moltiplicheranno, proprio in ragione dell’originalità del fenomeno, della sua novità nel modo di intendere l’arte – non un altro movimento artistico ma un modo di vivere –; del modo di farla – non un’espressione né un’abilità ma un altro fare –; di pensare – non l’affermazione e la dimostrazione ma la necessaria presa in causa della contraddizione, della polisemia, della complessità, della casualità. Dopo l’interpretazione “decostruttiva”, l’uso attivo della contraddizione, del paradosso, dello svuotamento di senso per smontare le categorie e mostrarne il fondo metafisico – che allora significava in modo più lampante borghese e responsabile della guerra e del suo significato –, ora si avanza quella “traumatica”, di risposta appunto al trauma della crisi del pensiero e della bestialità della guerra, e di elaborazione del lutto, della perdita, che si manifesta attraverso la negazione ilare e melanconica insieme e la rivolta decisa ma scomposta. Altre ne succederanno, proprio perché lì è accaduto qualcosa di inaugurale nella sua stessa imprecisione.
L’avventura del Cabaret finisce con una “performance” dello stesso Ball diventata più di tutte leggendaria, quella del “magico vescovo”, un vero e proprio “requiem” che mentre celebrava la fine di quella piccola, breve “farsa” di pochi amici, che aveva a sua volta inteso essere la “messa funebre” di una società e di una cultura, inconsapevolmente celebrava anche quella della sua originaria “ingenuità” e “gentilezza”. Ball si presenta, anzi si fa trasportare al buio perché bloccato nei movimenti, vestito di un “abito” fatto di fogli avvolti intorno alle gambe, al busto, alle spalle e alla testa, come un vero e proprio celebrante di un rito, uno “sciamano”, e recita una “poesia senza parole”, di puri suoni. Mentre recita ha un ricordo che lo fa tornare a quando era “giovinetto, pallido e timoroso, per metà spaventato, per metà curioso”, non una regressione, forse più una visione, non quella del passato ma quella del presente come lo stava vivendo, forse la “verità” del Cabaret Voltaire.
Elio Grazioli
Hugo Ball
Cabaret Voltaire
Una serata:
30.3.1916
Ieri si son dati appuntamento tutti gli stili degli ultimi vent’anni. Huelsenbeck, Tzara e Janco hanno recitato un poème simultan. È una forma di contrappunto, in cui si recita, si canta e si fischia simultaneamente producendo un risultato allegro e pazzerello. È come se si trattasse di un organo drastico e testardo, attenuato da un accompagnamento di rumori (una rrrrr prolungata per vari minuti, colpi di spiriti, urlo di sirene e cose simili) che hanno una forza maggiore delle grida delle persone.
Il poème simultan tratta del valore della voce. L’organo umano rappresenta l’anima, l’individualità nel suo errare fra esseri demoniaci che l’accompagnano. I suoni fungono da fondale, da elemento inarticolato, fatale, definitivo. Il poema vuole rendere chiara l’implicazione dell’uomo nel processo di meccanizzazione. Con una peculiare sintesi esso mostra il contrasto della vox humana con un universo minaccioso, intrigante e distruttivo, il cui ritmo e processo rumoroso è ineluttabile.
Aforismi:
12.3.1916
Introdurre simmetrie e ritmi al posto dei princìpi. Contestare l’ordine mondiale e le azioni statali, trasformandole in un frammento di frase o in un colpo di pennello.
La trovata estraniante è la vita stessa. Dobbiamo essere nuovi e inventivi da cima a fondo. Poetiamo quotidianamente sulla vita trasformandola.
Quello che stiamo celebrando è una buffonata e insieme una messa funebre.
La parte più famosa:
12.6,1916
Quello che noi chiamiamo «Dada» è un gioco da pazzi uscito dal nulla, dove si trovano intrecciate tutte le questioni superiori; è un gesto da gladiatori; è un gioco con dei rimasugli sbrecciati; è una condanna a morte per la morale e la pienezza dei benpensanti.
Il dadaista ama lo straordinario, addirittura l’assurdo. Lui sa che la vita si afferma nella contraddizione e che il suo tempo più di ogni altro mira all’annientamento del generoso. Per ciò gli è gradita ogni sorta di maschera. Ogni sotterfugio dotato d’inganno. Quel che è diretto e primitivo gli appare nel bel mezzo dell’enorme innaturalezza come l’incredibilità stessa.
Siccome la bancarotta delle idee ha sfogliato l’immagine dell’uomo fin negli strati più profondi, escono fuori in forma patologica gli istinti e i pensieri occulti. E siccome non c’è forma di arte, di politica o di fede capace di arrestare questa rottura degli argini, quello che resta è solo lo scherzo e la posa sanguinaria.
Il dadaista si fida più dell’onestà degli eventi che dell’astuzia delle persone. Le persone per lui son facili da avere a poco prezzo, compresa la propria persona. Ha smesso di credere alla definizione delle cose partendo da un unico punto di vista ed è sempre più convinto pertanto del legame di tutte le cose fra di loro, convinto della complessività, tanto che soffre delle dissonanze fino all’autodisfacimento.
Il dadaista combatte contro l’agonia e il mortale traballamento del nostro tempo. Contrario ad ogni saggia circospezione, coltiva la curiosità di chi prova ancora una gioia divertita nell’aderire alla più dubbiosa forma della fronda. Egli sa che il mondo dei sistemi è andato in frantumi e che il tempo che preme per ricevere un pagamento in contanti ha aperto una svendita di merce avariata rappresentata dalle filosofie spogliate di sacralità. Dove per il rivendugliolo comincia il terrore e la coscienza sporca, là inizia per il dadaista una sonora risata e una tenera benevolenza.
È l’immagine che ci caratterizza. È nell’immagine che noi riusciamo ad afferrare. Di qualsiasi cosa – è notte – teniamo in mano la copia.
La parola e l’immagine sono tutt’uno. Il pittore e il poeta sono la stessa cosa. Cristo è immagine e parola. La parola e l’immagine sono in croce.
C’era una setta gnostica i cui adepti erano tanto affascinati dall’immagine dell’infanzia di Gesù che si coricavano piagnucolando in una culla e si facevano allattare e fasciare dalle donne. I dadaisti sono simili bambini in fasce di una nuova epoca.
Ultima leggendaria “performance”:
23.6. 1916
Ho inventato un nuovo genere di versi: «versi senza parole», ovvero poesie di suoni in cui il bilanciamento delle vocali viene soppesato e distribuito secondo il valore della sequenza di attacco. I primi versi di questo tipo li ho letti stasera. Per lo scopo mi ero confezionato da solo un costume speciale. Le mie gambe stavano infilate in un tubo di cartone azzurro splendente a mo’ di colonna che mi arrivava fino ai fianchi di maniera che sembravo una sorta di obelisco. Sulle spalle, a copertura del tubo, portavo un enorme bavero tipo mantella ritagliato nel cartone che all’interno era rosso scarlatto e all’esterno dorato e che al collo era fissato in modo tale da poterlo muovere alzando i gomiti come fossero due ali. Si aggiungeva a questo un cappello da sciamani a forma d’imbuto, alto e striato di bianco e di blu.
Ai tre lati del palco avevo disposto tre leggii di fronte al pubblico con sopra appoggiato il mio manoscritto tutto sottolineato con la matita rossa e andavo qua e là, ora all’uno, ora all’altro leggio come per celebrare una cerimonia. Siccome Tzara sapeva dei miei preparativi, ci fu una vera e propria piccola prima. Tutti erano curiosi. Quindi, siccome non potevo muovermi, mi feci trasportare al buio sul palco e cominciai lentamente in tono celebrativo:
gadji beri bimba
glandridi lauli lonni cadori
gadjama bim beri glassala
glandridi glassala tuffm i zimbrabim
blassa galassasa tuffm i zimbrabim…
L’accentuazione diventava sempre più marcata e l’espressione si faceva più intensa grazie alla spiccata pronuncia delle consonanti. Mi accorsi abbastanza presto che i miei mezzi espressivi, se volevo restare serio (e lo volevo ad ogni costo) non sarebbero stati all’altezza della pompa magna della mia messa in scena. Fra il pubblico notavo Brupbacher, Jelmoli, Laban, la signora Wiegman. Temevo una brutta figura e mi raccolsi tutto. Avevo già eseguito sul leggio di destra Il canto di Labada alle nuvole e sul leggio di sinistra La carovana degli elefanti e mi diressi verso il leggio centrale battendo diligentemente le ali. La serie di vocali pesanti e il ritmo impacciato del passo elefantino mi avevano permesso un ultimo eccesso in crescendo. Ma come avrei potuto terminare? A questo punto notai come la mia voce, che non aveva altre possibilità, prendesse l’antica cadenza delle lamentazioni sacerdotali, cioè quello stile del canto di Chiesa che s’innalza lamentoso in tutte le chiese cattoliche dell’oriente e dell’occidente.
Non so cosa produsse in me quella musica, però cominciai a cantare la mia serie di vocali nello stile recitativo della Chiesa e tentai di restare serio, non solo, ma anche d’impormi la serietà. Per un momento mi parve come se da quella maschera cubista sorgesse un volto di giovinetto, pallido e timoroso, quel volto per metà spaventato, per metà curioso di un ragazzo di dieci anni che nelle messe funebri e nelle funzioni solenni nella chiesa della sua parrocchia, tremante e curioso, pendesse dalle labbra del suo sacerdote. A questo punto, come da me previsto, si è spenta la luce elettrica e io coperto di sudore sono stato portato giù dal podio nella botola come un magico vescovo.
Hugo Ball
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Questi brani sono tratti da: Hugo Ball, Cabaret Voltaire, tr. it. di Agnese Cornelio e Nino Muzzi, Castelvecchi 2016, pp. 96, € 12.50