Modi del sentire / La solitudine del tampax positivo
Qualcuno, infine, me lo aveva gentilmente spiegato. In francese “tampon” è il tampax. Per riferirsi all’analisi del Covid-19 si usa soltanto la parola “test”: se faire tester, faire le test. A quel punto ho realizzato che da mesi stavo evocando un fantastico tampone vaginale-virale, senza che nessuno avesse avuto il coraggio di farmelo notare. Un grottesco tampòn, che sdrucciolava insieme al suo accento verso qualcosa di molto intimo.
C’è una solitudine tutta femminile dei giorni in cui il tampone si occupa della fuoriuscita del nostro sangue mestruale, della quale nessuno parla. Di quella solitudine mi sono ricordata quando è arrivato anche per me il giorno del tampax positivo. “Votre test est positif (année de naissance 1970). Si c’est votre premier test positif dans les 3 mois, isolez-vous”. Nell’anno del mio primo mezzo secolo, alle soglie della sospirata menopausa in cui manderò al diavolo tutti i tampax dell’universo, il mio cellulare mi ordina in modo educato ma fermo di isolarmi. Perché positiva al coronavirus, che dopo aver corteggiato il mondo intero come la morte con la fanciulla, è entrato anche dentro di me. Mescolandosi al mio sangue.
Non gli farò la guerra. Prima di tutto perché non abbiamo le armi per farlo: il virus è invisibile e sconosciuto. Come i vietcong nascosti nella foresta. Poi perché la malattia non è una guerra, come ci ha insegnato molti anni fa Susan Sontag, andando a stanare nelle pieghe metaforiche del nostro linguaggio la tenace e ridicola retorica virile della battaglia. Infine perché sono troppo stanca, come una vecchiarella di cento anni. Altro che fanciulla: forse il Covid funziona come quegli incantesimi, messi in scena nella nostra cultura milioni di volte con inalterato sadismo, che trasformano le belle e agili ragazze in vecchiacce orrende che a mala pena si reggono in piedi. In ogni caso, contro questo virus non resta che fare l’esperienza dell’essere inermi. Aspettare di vedere se peggiora e nel frattempo isolarsi per non nuocere agli altri. “Isolez-vous” e buona fortuna. Qualcuno farà la spesa per noi, lasciandocela sul pianerottolo di casa e salutandoci dalla finestra.
Sollievo: il mondo resterà lontano da me per un tempo indefinito. Angoscia: il mondo è rimasto lontano da me così tanto, per una parte considerevole di questi ultimi cinquant’anni, che spesso mi sono chiesta se esistesse ancora. Come una malinconica aliena che non riesca a muoversi se non di sghembo. Dentro un cubo di vetro che respinge ogni contatto. Il famoso contatto sociale, di cui in questi tempi i giornali denunciano un’esorbitante nostalgia collettiva. Lo vediamo per strada: i ragazzi non ce la fanno a restare isolati, devono assembrarsi. Altrimenti sarebbero degli alieni. Sono invece degli esseri umani, e l’essere umano pare che sia socievole. Come i miei compagni di scuola delle medie, che si lanciavano per aria il tampax messo per sicurezza nello zaino da mia madre, prima ancora che ne avessi bisogno. Erano molto socievoli, loro. Si divertivano come matti, avendo d’istinto capito che il tampax non era un pezzo di ovatta neutro: scottava e bruciava come uno strano oggetto di stigma sociale.
Ai primi dolori di pancia, mio padre minimizzò, spiegandomi che era un male “naturale”. Aveva ragione: peccato avesse dimenticato di dirmi quanto sarebbe stato complicato stabilire cosa fosse la natura e cosa la società. Lo avrei imparato da sola, più tardi, a forza di leggere e sgranare gli occhi non sul mondo ma sui libri. In un processo di svelamento tra i più conturbanti che si conoscano: l’inganno della natura, costruita dalla cultura intorno a noi, si scioglie come un igloo al sole. Lasciando spazio a un sentimento misto di sollievo e angoscia. Mi ricordo un giorno d’estate caldissimo, su una spiaggia del sud. Io, vestita con una gonnellina da tennis e una maglietta, guardo verso il mare. Assente, come al solito, dall’affollamento che si agitava e assembrava dietro di me. Finché non si stacca qualcuno, da quella massa di corpi socievoli. Una ragazza mi viene incontro con uno sguardo gentile ma serio, indicando la parte posteriore della mia candida gonnellina da tennis.
Sottovoce mi avverte che c’è una macchia di sangue. Ecco come la natura si è trasformata d’un tratto in cultura. Con il sole a picco su quella macchia rossa, che tutta la spiaggia sembrava guardare attraverso le lenti della ripugnanza e dello stupore. Non so perché il giorno del test positivo mi è venuto da ripensare a tutto questo. Il virus nel sangue, il mio sangue che ogni mese da quarant’anni a questa parte se ne è andato a spasso. Fuori di me. Tra poco smetterà di uscire, ma chi potrà mai dimenticarsi del complicato marchio di solitudine di cui era segno? E di cui nessuno parla, come fosse un tabù tribale. “Isolez-vous”: non assomiglia forse a un’ingiunzione più antica, quella che allontanava in qualche luogo segregato le donne durante il loro sanguinante ciclo? Noi non l’abbiamo subita, quell’ingiunzione, in maniera così esplicita e violenta. Ma tutte sappiamo fin da piccole quanto i tamponi siano oggetti problematici. Imbarazzanti. Perciò vanno nascosti: quelli nuovi e soprattutto quelli usati. Per non disturbare con la vista del nostro sangue i maschi, padri, fratelli, compagni o quel che siano.
Il tampone positivo, invece, non si può nascondere: è un piccolo marchio che va dichiarato. Con chi sei stata, cosa hai fatto. Va bene, mi ritirerò dal mondo e starò chiusa in casa. Non sarà così grave, per quanto di alieno ancora sopravvive in me. Sono diventata più socievole, dopo i quarant’anni, andando a vivere in una città che mi era del tutto estranea. L’estraneità geografica mi ha spinta a prendere una forma diversa. Si tratta, forse, dello spirito di adattamento che attraversa ogni essere animato di questo mondo: come l’acqua che, finché scorre dentro lo stretto alveo di un fiume, dà forma e consistenza a quel fiume. Mentre quando sbocca nel largo bacino di un lago, diventa un lago. Qui c’è un lago che sembra un mare. E anche se gli abitanti di questa città, dove mi sono trasferita, sono austeri e poco inclini alla socievolezza mediterranea, quella finzione di mare mi ha insegnato qualcosa.
Il Rodano scende dalle montagne della Svizzera profonda, formando un’ampia valle che finisce nel lago Lemano. Quindi, dopo aver fatto finta di non essere più un fiume ma un lago, che a sua volta fa finta di non essere un lago ma addirittura il mare, quella stessa acqua torna a essere un fiume uscendo dall’altra parte. Per proseguire la sua discesa in Francia, fino a trasformarsi davvero nel mare, quando raggiunge il Mediterraneo. Dopo aver preso per molti anni la forma tormentata e solitaria di un fiume che va per la sua strada, adesso conosco anche la calma del lago, che sembra fermo, e invece scorre anche lui. Come un elastico Barbapapà sono finalmente diventata più larga e in questa larghezza c’entrano più persone di prima. Da piccoli si impara la legge della lunghezza: ci si allunga come Alice in maniera magica e tumultuosa. Poi viene il tempo di capire come aprirsi, allargandosi. Il tempo del lago.
Che può essere anche un’astuta finzione da parte del fiume, prima di tornare a essere fiume. Una parentesi immaginaria.
Nei giorni di solitudine del tampax positivo, non mi manca la gente. Ma il lago. Per colmare tale pungente nostalgia, ho chiamato una stanza così: il lago. Apro la porta e vado al lago. Nella mia città di origine avevo battezzato una stanza della casa, rimasta a lungo vuota, la stanza delle possibilità. Adesso quella stanza torna a materializzarsi nella possibilità di un lago: si prende dell’acqua, dentro la mente che deve essere ben sgombra, e la si fa scorrere lungo il resto del corpo. Tutto scorre, come questo tempo immobile. Tutto fluisce, come il sangue che pulsa e esce ogni mese da quarant’anni. Preciso come un orologio. Fino a quando non si sente il suono delle onde che ci culla e non si vede il faro dei bagni di Pâquis che ci fa l’occhiolino da lontano. Allora si può uscire dalla stanza e richiudere la possibilità del lago dietro di noi. Ecco una ricetta facile, per riempire il tempo vuoto di queste giornate che sembrano tutte uguali. Tutte domeniche senza fine.
Lunghe e lente giornate trascorse assistendo alla elaborata vita sociale di una coppia di scoiattoli, che abitano sugli alberi davanti alla mia finestra. Si inseguono di ramo in ramo, forse giocano. Oppure litigano. Cercano cibo, riparo. Stanno insieme. Mentre in sottofondo si alza la colonna sonora delle cornacchie, che riempiono la città del loro lugubre verso. Mescolandosi al suono angosciante delle ambulanze: un suono immateriale che diffonde un allarme concreto. Ma in fondo impalpabile. Come il virus nascosto dentro di noi. La sirena deambula dentro la città, seminando un sentimento di allarme nei suoi abitanti, fino a perdersi. In attesa della prossima, che non tarderà ad arrivare. In questo paese, che non è grande ma famoso per essere ben organizzato, non so quante ambulanze ci siano. Ma conosco il numero esatto delle sirene di allarme distribuite sul territorio nazionale. In un giorno stabilito dell’anno, alle ore 13.30 spaccate di ogni primo mercoledì di febbraio, le settemilaottocento sirene emettono un segnale di allarme generale. Un suono modulato e regolare della durata di un minuto, che deve raggiungere nello stesso, preciso istante le orecchie di tutti gli abitanti del paese. Anche i più lontani e imboscati. Soli o accompagnati che siano.
A partire dalle ore 14.15, le sirene che si trovano nelle regioni a valle degli sbarramenti idrici emettono, invece, il segnale di allarme che riguarda l’acqua: dodici suoni continui e gravi in sequenze di 20 secondi a intervalli di 10 secondi. Perché si sappia che il mondo può crollare da un momento all’altro. Le grandi dighe rompersi e l’acqua rovesciarsi dappertutto, trascinandoci via. Fino magari a sommergere l’intera valle del Rodano, insieme alle zone comprese tra le montagne e il bacino del lago Lemano, come avveniva una quantità inverosimile di anni fa. Il giorno del tampax positivo si sta allontanando. Ne torneranno altri, forse. Torneremo a isolarci e torneremo a rimescolarci. Depositati sulla massiccia incudine della socialità, come siamo fin dalla nascita, con il martello della solitudine che ci batte e ci forgia.