Città in crisi
Il titolo che mi è stato assegnato per questo incontro è “Città in crisi”. È un tema incredibilmente vasto e complicato, sul quale è molto difficile dire cose sensate e non troppo ovvie.
Ma intanto, il titolo stesso è già discutibile: le città sono davvero in crisi? Ci sono molti studiosi e cosiddetti esperti che non lo pensano affatto. Per esempio c'è un economista di Harvard, Edward Glaeser, che ha scritto un libro, tradotto in italiano da Garzanti, che si intitola addirittura Il trionfo della città: per lui le città contemporanee, anche le megalopoli più allucinanti, rappresentano una fase di splendore ineguagliato nella storia urbana, e i dati che le riguardano in materia di consumi, scambi commerciali, crescita economica e urbanistica, valore finanziario, sarebbero dimostrazioni “oggettive” del loro stato di salute e del grado di benessere dei loro cittadini.
Ci sono anche un sacco di architetti entusiasti della città contemporanea. Fuksas, uno degli architetti più amati dai media italiani (è l'erede della rubrica di architettura de “L'Espresso” che fu di Bruno Zevi per decenni) ha ripetuto per anni che a lui interessavano ormai solo le metropoli dai 10 milioni di abitanti in su, definendo la loro aura con la formula del “caos sublime”. Rem Koohlaas, forse l'architetto più potente e celebrato al mondo, che pure è un pensatore molto più sottile e, diciamolo pure, meno becero di Fuksas (ma forse ancora più sadico), ha fatto per decenni l'apologia della “bigness” architettonica e urbana, e della congestione come fattore vitale delle metropoli, da Lagos a New York.
Koohlaas è troppo scaltro per non accorgersi che le sue posizioni, in uno scenario ambientale apocalittico come quello contemporaneo, sono divenute via via sempre più impresentabili e in questi ultimi anni le sta un po' temperando con una specie di ecologismo cinico, ma nel frattempo sono cresciute alla sua scuola generazioni di nuovi architetti che sognano di estendere la megalopoli e il suo junk-space (spazio-pattume) anche laddove non è ancora arrivato.
Ma anche i sostenitori delle famigerate “smart cities”, che negli ultimi anni hanno monopolizzato il discorso sulla città su media e rotocalchi, non ritengono che le città siano realmente in crisi, ma piuttosto che abbiano alcuni difetti, ovviabili con l'aggiunta di dosi ulteriori di tecnologie informatiche e di automazione: secondo loro le città contemporanee sono regolate e gestite da computer, smart phone, tablet ecc.. in misura ancora non sufficiente, e da questa arretratezza discendono tutti i loro malfunzionamenti e sprechi. È in sostanza quella che Gunther Anders chiamava “vergogna prometeica” – il senso di colpa per non esserci ancora trasformati del tutto in macchine – applicata alla città.
Io sono invece d'accordissimo con l'assunto contenuto nel titolo: le città sono in crisi. Ed è stato d'accordo con esso un filone variegato di studiosi e critici della città moderna che va da Louis Mumford a Paul Virilio, passando per un nucleo di pensatori – Illich, Paul Goodman, Debord,...– che mezzo secolo fa si muovevano tra visione apocalittica e proposta pratica e che oggi ci è particolarmente necessario.
Rimando alle loro ben note riflessioni – spesso lungimiranti e quindi oggi straordinariamente attuali – per una valutazione puntuale e articolata della dimensione profonda della crisi della città e della cultura urbana e mi limito qui ad alcuni spunti e abbozzi più episodici e frammentati.
Faccio due esempi brutali, schematici:
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una città che sostituisce i mercati con i centri commerciali, le piazze con i parcheggi e gli svincoli, le case in cui d'estate si può vivere bene socchiudendo le persiane con edifici in cui si può vivere solo con l'aria condizionata, è una città in crisi.
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le città consumano una parte enorme dell'energia complessiva e producono la parte principale delle cause di alterazione del clima. Gli esperti discutono se esse consumano il triplo o il decuplo di ciò che il pianeta potrebbe tollerare. È comunque evidente che questo modello urbano è incompatibile con la continuità della vita sul pianeta e che è un modello iniquo, non equo, in quanto assolutamente non estensibile a tutti senza conseguenze irreparabili. Questo modello urbano è in crisi radicale.
Facendo un discorso molto schematico, possiamo dire che oggi si confrontano due tendenze, almeno alle nostre latitudini e nei paesi sovrasviluppati, che sembrano lasciare veramente poco spazio ad ogni possibile alternativa. Al livello “alto”, quello dove si muovono istituzioni, finanza, centri di potere, università, media, grande proprietà immobiliare, ecc. il modello prevalente è quello dell'urbanistica dello “show” e della competizione, della città-evento che attraverso l'architettura astratta dello spettacolo e dell'intrattenimento promuove il proprio marketing urbano. È, o vorrebbe essere, il modello della città dell'eccellenza.
Al livello “basso” o “periferico”, quello dei territori reali, della piccola e media proprietà, degli uffici tecnici, delle agenzie immobiliari, delle televendite, il modello prevalente è quello di villettopoli, della cosiddetta “città diffusa”, dell'architettura finto-antica, della serie classica villetta a schiera-capannone-rondò-villetta..., quello che qualcuno aveva chiamato, non senza entusiasmo, la “città infinita”, giusto poco prima che finisse, sotto i colpi della crisi economica. È la città dell'indecenza.
I due modelli sono meno opposti e impermeabili di quanto sembri: oltre a mescolarsi indissolubilmente nel territorio, a costruire il paesaggio caratteristico del nostro tempo, vi sono molteplici livelli di scambio. Per esempio: il modello “basso” tende all'imitazione delle perfomance formali del modello “alto”, con le concessionarie automobilistiche suburbane che scimmiottano l'architettura-spettacolo dei grandi musei landmark metropolitani; la burocrazia urbanistica e l'accanimento normativo avvolgono i due livelli in un unica matassa inestricabile, alla quale è consustanziale un sempre latente ricorso alla semi-legalità o all'abusivismo; i grandi operatori immobiliari suonano spesso su entrambe le tastiere, a seconda dei casi e delle stagioni: Ligresti ha fatto progettare milioni di metri cubi da geometri da strapazzo ma ha subito ingaggiato le vedette dell'architettura-spettacolo internazionale quando la speculazione ha cominciato a chiamarsi real estate; mentre i Caltagirone, anche in tempi in cui il mercato sembrava richiedere design eccellente, hanno continuato a smerciare benissimo la tradizionale edilizia trash.
Il modello dell'eccellenza, che insegue la dimensione dello straordinario, dell'astratto e del finanziario, e quello dell'indecenza, che si fonda su un immaginario domestico e produttivo svaccato e abbrutito, colonizzato dalla televisione, sembrano occupare oggi tutto lo spazio disponibile. Non c'è più nessuno spazio per la città e l'architettura della decenza. Il buco nero, il rimosso, ciò che non è fruttifero, è una dimensione decente del non-straordinario, dell'ordinario, del minore, del quotidiano.
La capacità di costruire, abitare, manutenere un'architettura minore seria, umile, viva, cordiale, è stata in ogni tempo alla base della cultura che ha realizzato il meraviglioso caleidoscopio dell'habitat umano, delle città e dei territori fino alle soglie della modernità. I monumenti, le cattedrali, gli edifici del potere hanno sempre costruito i punti speciali delle città, ma il loro tessuto connettivo era prodotto dalla stratificazione delle architetture minori: dall'incontro tra vita quotidiana e architettura nascevano i luoghi.
Oggi il modello dell'eccellenza sradica la dimensione del quotidiano e dell'ordinario, mentre quello dell'indecenza la abbrutisce nella sottocultura televisiva. Qualcosa di molto simile sta accadendo per esempio nei trasporti, nelle politiche ferroviarie, dove stiamo arrivando ad un vero e proprio fascismo trasportistico: si sviluppano le linee di comunicazione eccellenti tra i grandi centri, con investimenti colossali, grandi opere, costi dei biglietti altissimi che selezionano una elite di viaggiatori; e dall'altra parte la rete diffusa dei treni, quella che collega i centri minori, le province, le “periferie”, quella che utilizzerebbero tutti i giorni i pendolari al posto dell'automobile, è abbandonata a sé stessa, è al tracollo: treni cancellati, ritardi cronici, stazioni abbandonate, biglietterie chiuse.
Anche qui troviamo la stessa alternativa tra eccellenza e indecenza. Questa sparizione di una dimensione quotidiana degna, cancella lo spazio minuto nel quale gli uomini e le donne ogni giorno decidono della propria vita e compiono scelte personali, non completamente riassorbite nei binomi produttore-consumatore, fornitore di servizi-utente. Su questo obiettivo di restringere gli spazi di scelta personale quotidiana non del tutto omologati ai circuiti della merce, sembrano convergere la gran parte delle istituzioni, dei poteri, delle culture maggioritarie, anche di sinistra.
Bisogna ripartire dalla ricerca di una forma decente di architettura minore contemporanea, di una architettura per la vita quotidiana decente, dalla città di tutti i giorni.
E ci può essere molto utile il lavoro di chi ha indagato e riflettuto sulla dimensione del quotidiano, su questa idea del quotidiano come spazio di libertà e come campo in cui gli esseri umani prendono le decisioni personali, quindi nei suoi risvolti non solo urbanistici ma anche etici, religiosi, esistenziali, politici: da Henri Lefebvre ai situazionisti, da Etty Hillesum a Georges Perec e al suo infra-ordinario, da Illich a Panikkar a Paul Goodman, a tanti altri.
È un terreno di resistenza, e bisogna affrontarlo con la consapevolezza che non si tratta di far rientrare questo tema del minore, del quotidiano, del decente, dei luoghi ancora umani, all'interno dei circuiti della merce e della comunicazione, altrimenti si finisce per fare quello che ha fatto Slow Food con il cibo: estendere, anziché arginare, la mercificazione.
Questo articolo è contenuto nell'ultimo numero de Gli Asini