I Purissimi grillini non sono la cura
Niente di nuovo, sotto il cielo che sta sulla testa dei cittadini italiani. Anzi, qualcosa di arciitaliano, come la nostalgia di un’era di purezza (sì, ma quale?), il vittimismo che diviene identità politica, il complotto come entità superiore, che tutto determina senza nemmeno il bisogno di essere dimostrato. È il grillismo, signore e signori, che è nipote di una storia lunga, di riflessi linguistici e di mentalità che affondano le radici in una storia iniziata ben prima che Grillo fosse, ben prima – addirittura – che ci fosse la nostra Repubblica frutto dell’antifascismo e della vittoria sovietico-americana. È dentro a questa chiave interpretativa del fenomeno politico di questi anni, naturalmente il Movimento 5 Stelle, che si muove lo storico sociale delle idee David Bidussa, col suo ebook I Purissimi (1,99 euro, nei primi posti delle classifiche di Amazon), tutto dedicato a Grillo e ai grillini, e alla genealogie politiche da cui discendono. Il movimento guidato da Beppe Grillo e GianRoberto Casaleggio non è più guardato con la lente dell’entomologo che ne studia il saltellare tra rete e parlamento, ma con lo sguardo dell’antropologo politico che prima di tutto ha un dovere di critica: prendere sul serio le autodefinizioni per giudicarne con chiarezza la veridicità o meno. E insomma, sembra chiedersi Bidussa fin dalle prime pagine, Grillo e il movimento da lui fondato, atteso alla prova del nove delle elezioni europee del 25 maggio, è qualcosa di davvero nuovo nella nostra storia oppure no? La risposta di Bidussa è che no, di nuovo dalle parti delle 5 Stelle non c'è molto.
Perché non è certo nuovo il racconto – anzi: l’autonarrazione – fondato su un «linguaggio antisistema», sulla «esaltazione del giovanilismo come categoria attiva e risolutiva della politica» e forte de «la sensazione di avere il vento della storia in poppa». Non è nuova, «soprattutto l’idea di essere qualcosa di diverso da “quelli lì”, da quelli del “Palazzo”», spiega con grande precisione Bidussa. È ancora più chiaro, nelle radici antiche da cui fiorisce, è quando spiega che quel dna culturale porta con sé «il solito pret-à-porter del complottismo», ossia «un’interpretazione paranoica della realtà (….) indicativo di un’intera impalcatura mentale» che genera la condizione bipolare (o schizofrenica) in cui convivono «angoscia e sollievo». Angoscia perché saremmo prigionieri di forze oscure, sollievo perché nulla è incomprensibile, e tutto ha una spiegazione tragica nella volontà del potere di pochi, che ovviamente sono altri da noi.
Bidussa torna così sui passi, importantissimi, che da studioso muoveva ormai una quindicina di anni fa, quando nel Mito del bravo italiano scopriva la tendenza lunga che il nostro popolo coltiva con costanza che meriterebbe miglior causa: la tendenza, cioè, ad autoassolversi, e anzi a commiserarsi pensandosi sempre come vittime e mai come carnefici, anche se messi di fronte a prove schiaccianti. Quella tendenza, per smettere con la filosofia e tornare alla storia, che prima portò un popolo a invocare il fascismo contro una élite misteriosa che complottava contro di lui, e poi a considerarsi vittima di una dittatura sanguinaria che aveva evidentemente complottato per sé, e contro quel “povero” popolo.
Quella stessa tendenza che, tanti anni dopo, portò un paese (quasi) al completo ad applaudire chi lanciava monetine alla politica, per poi trovarsi vent’anni dopo a trovarsi invecchiato mentre scopriva che chi si era promesso nuovo, giovane, diverso, non era altro che simile, già vecchio ed uguale, e in fondo lo era sempre stato. Maledetti questi approfittatori senza scrupoli, o questo popolo credulone e privo di coscienza critica, di cultura, di memoria? Entrambi, sicuramente, ma – chiosando Bidussa, ed anzi rilanciando la palla nel campo del nostro maestro – non solo loro. Perché nel prezioso lavoro di Bidussa, in questo viaggio tra “i purissimi” che ci lascia senza scampo e con l’amaro in bocca a sentire il nostro sapore, manca forse qualcuno sul banco degli imputati. Mancano le élite italiane, quelle dei Padroni del Vapore di Ernesto Rossi, non il popolino che credette a questo o a quell’imbroglione, ma gli intellettuali, i banchieri, gli imprenditori e le loro associazioni, pronti ad alzare il sopracciglio fino a un minuto prima, e poi ad abbassarlo mezz'ora dopo le assortite marce su Roma, per sedersi a trattare il meglio per sé, in cambio di tutto quel che serviva.
Manca forse un passaggio alla storia recente del paese, non solo quello del decennio berlusconiano (la definizione di ventennio è impropria per il calendario del potere, e troppo furba per non sembrare propaganda), ma quella dei decenni precedenti. In cui, mentre la politica si scioglieva per le monetine che si prendeva in faccia e per quelle che aveva rubato, covavano i prodromi dell’inadeguatezza manifesta di un sistema economico e finanziario. Con interi pezzi di industria che finivano nelle mani o di figli inetti o di padroni stranieri. Con i grandi scandali finanziari che venivano venduti dagli sportelli delle banche per diventare socializzazione delle perdite: che di Cirio e di Parmalat dovevano godere anche le vecchiette sprovvedute, mica solo i Tanzi, i Cragnotti e i loro grandi protettori. Con importanti patrimoni italiani che finivano lontano da ogni vera logica di mercato in mani incapaci – fermiamoci qui – di evitare che alcune grandi aziende con potenziale internazionale si trovassero a dover faticosamente sopravvivere nei decenni a venire, ed è la storia di Telecom, o di Olivetti, e di un intero sistema industriali che non prendeva sul serio il bisogno di innovazioni, di nuovi sistemi economici e di una diversa sostenibilità.
Fuori da quei cancelli, nel silenzio distratto, complice o partecipe, dell’informazione italiana, c’era Beppe Grillo, che non perde occasione per rivendicarlo. Che già urlava al complotto, che già si vendeva come l’unico e il nuovo. Ma chi doveva spiegare le responsabilità e le ragioni, chi doveva prendersi la responsabilità di difendere la complessità e di indicare la colpa, invece, dov’era? E dov’è, dopo che tutta questa purezza è passata sotto ai ponti?
@jacopotondelli