Istruzioni per l'uso / Il metodo Aristotele
«Le parole “felice” e “felicità” – happy e happiness – vanno alla grande», scrive nell'incipit di questo suo stimolante e intelligente saggio Edith Hall, studiosa del pensiero classico e docente al King's College di Londra (Edith Hall, Il metodo Aristotele. Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita, tr. di Duccio Sacchi. Torino, Einaudi, 2019. Ed. orig. Aristotle's Way. How ancient wisdom can change your life, London, The Bodley Head, 2018). Vanno così alla grande che c'è chi chiede a gran voce – aggiungo – di inserire il «diritto alla felicità» nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Lo sostiene tra gli altri una associazione di epicureisti (non di epicurei), gli Amici della filosofia di Epicuro, i quali propongono una petizione in quel senso (per aderire cliccare qui), ricollegandosi al precedente della decisione del Congresso degli Stati Uniti che il 4 luglio 1776 ratificò il testo della Dichiarazione di Indipendenza steso da Thomas Jefferson (peraltro schiavista e misogino al par di Aristotele), che conteneva gli inalienabili diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità (o Pursuit of happiness, non per donne e schiavi).
Che cos'è la felicità?
La felicità può essere letta come uno stato d'animo, una condizione di soddisfazione piena, il momento in cui un evento fausto supera, riempiendo completamente l'animo, la presenza di dolori e preoccupazioni (cfr. Felicità, Doppiozero 25-7-2016). Una felicità soggettiva quindi, della quale Aristotele fu il primo a occuparsi, e che si presenta nei termini di autorealizzazione e di scoperta di significato nonché di esercizio di sentimenti positivi (se iniziate a sorridere a ogni bambino che incontrate, questo comportamento diventerà un habitus e darà una piccola gioia a voi e al bambino). Non dunque la felicità che viene attribuita al benessere oggettivo (e misurata oggi in stato di salute e di longevità, costanza di affetti familiari e amicali, soddisfazione lavorativa, presenza di ricchezza e mancanza di inquinamento...) sul quale vengono stilati i rapporti odierni sulla e della felicità in vari paesi e città, nei quali l'Italia si attesta al 50° posto circa.
L'applicazione delle idee di Aristotele può rendere in effetti più felici – afferma la presumibilmente felice autrice – purché si decida di diventarlo, cosa che dipende unicamente dalla nostra responsabilità. La ricetta di Aristotele per la felicità (quella che dove sia nessun lo sa) prevede infatti il legame tra felicità e azioni virtuose; ma non per ottenere fama, onori e riconoscimento (che comunque un po' felici fanno, ammettiamolo), bensì per essere buoni, per diventare brave persone, cosa non particolarmente difficile, secondo Aristotele, in quanto il buono è semplice, è il male a essere contorto e complicato (per illustrare il principio Hall sagacemente ricorda le famiglie di Anna Karenina di Tolstoj: quelle felici lo sono tutte allo stesso modo, quelle infelici ognuna a modo suo). Alla felicità è dedicato il primo capitolo del libro: una felicità attraente per atei e agnostici ma di fatto compatibile con tutte le religioni grazie all'enfasi posta sulla responsabilità individuale. Il volume presenta però più estesamente l'etica aristotelica in generale (non l'aristotelismo) in linguaggio contemporaneo, applicando gli insegnamenti dello stagirita (Aristotele nacque nel 384 a Stagira, in un dito della penisola Calcidica, dove anche morì) a svariati casi della vita reale. Al pari di Martha C. Nussbaum, una delle più influenti menti filosofiche contemporanee, anche Edith Hall si dichiara «aristotelica» e questo benché ogni tentativo di recuperare la filosofia di Aristotele da parte di una donna non possa non fare i conti con i suoi pregiudizi contro le donne e il loro debole cervello, soprattutto per la terribile influenza che essi esercitarono nei secoli a venire e fino ai nostri giorni.
Potenzialità e comunicazione
Dopo aver trattato della felicità il volume si snoda con scrittura felice tra concetti genuinamente aristotelici e di tipo ontologico quali potenziale (la capacità di far diventare reale l'essere in funzione del suo scopo naturale), e concetti generalmente etico-filosofici (decisioni, conoscenza di sé, intenzione, amore, piacere, mortalità) o filosofico-etico-politici (comunicazione, comunità) per un totale di dieci concetti corrispondenti ad altrettanti capitoli. La felice (questo è proprio un bel libro) scrittura di Hall riesce a presentare in maniera facile passaggi ardui, come quello dalla potenza all'atto applicato qui ai casi della vita di ognuno in cui ci viene chiesto di individuare il nostro personale potenziale. Cogliere la propria forza (dỳnamis in greco) di far bene qualcosa, comprendere quali siano i talenti naturali peculiari e trovare le giuste circostanze per il loro sviluppo è una capacità utilissima, anzi un grandissimo dono, il più grande che ci sia per le persone giovani che oggi si trovano davanti a tantissime, forse troppe, offerte di scelta per il loro futuro.
Persino i tre libri della Retorica di Aristotele vengono proposti da Hall come un efficace corso di comunicazione tra l'emittente del messaggio, il ricevente e il medium che lo trasmette. Per esempio, con la spiegazione del fenomeno del calo della capacità di concentrazione dell'uditorio (già studiato da Aristotele); dato che quest'ultima si affievolisce per tutti tra i 5 e i 25 minuti (per gli ascoltatori più coriacei), allo scopo di riconquistarla – prendetene atto voi opinionisti, docenti e oratori in genere – niente di meglio che fornire intorno al 17° minuto un tipo diverso di informazione, una battuta, una divagazione; in una lezione di 50 minuti, ripeterlo anche verso il 35° minuto. E dove mettiamo l'analisi, sempre aristotelica, della forza di persuasione e dell'efficacia didattica, oggi come allora, di analogie e metafore, buone anche per il loro ruolo cognitivo, specialmente se nuove e dirompenti e non stantie (basta con il volgare «mettere le mani nelle tasche degli italiani», ma vi siete dimenticati che l'ha messa in auge Silvio Berlusconi?).
Intenzione
Come agire poi, in base agli insegnamenti di Aristotele, di fronte a situazioni difficili nelle quali occorre prendere una scelta? Una buona giustificazione la fornisce il peso dato dall'intenzione dell'azione, sul quale si soffermò Teofrasto, discepolo di Aristotele. Ma lo spunto proveniva pur sempre dal Maestro e dall'enfasi da lui data a tale principio: «lodiamo e biasimiamo tutti gli uomini guardando alla scelta più che alle opere». Essa portava e porta a concentrarsi non tanto sull'esito positivo di una azione (sganciare l'atomica su Hiroshima e far cessare le operazioni belliche) ma sulla sua intenzione (la decisione di Truman era mirata a interrompere le sofferenze di militari e civili o a testare le nuove tecnologie militari e impaurire l'URSS?). Affrontiamo qui una delle zone grigie della filosofia morale, di cui ci siamo occupati qui di recente a proposito della Schadenfreude: il problema della liceità di alcuni mezzi per raggiungere determinati fini. Alcuni lo risolvono disinvoltamente con la Dottrina del Duplice Effetto, che consiste nell'intervenire in maniera anche brutale per raggiungere il fine desiderato (far terminare rapidamente il conflitto mondiale sganciando la bomba) nonostante alcuni effetti collaterali (la strage di civili). Ma questo, direbbe Aristotele cui qui pienamente ci associamo, fa saltare regole astratte profonde e universali, come «non far male intenzionalmente a innocenti», quali erano gli abitanti di Hiroshima.
Prossimi e vicini
Faro all'interno di questi e simili dibattiti morali, sempre Aristotele, a detta di Edith Hall. Eppure vi sono posizioni, che pure Hall evoca e loda, che non risultano convincenti: una di queste, per concludere, è l'idea che Aristotele condivide con Cicerone e con primanostristi e sovranisti di ogni epoca e paese, la quale sostiene che il danno prodotto a un amico è più grave dello stesso danno prodotto a un semplice concittadino, o che negare aiuto a un fratello sia più grave che negarlo a un estraneo. Ma rubare a un fratello o a uno sconosciuto e lasciar affogare, senza tender loro la mano, un fratello o uno sconosciuto è, per altre etiche, quelle individualiste e universaliste nelle quali ci riconosciamo, altrettanto grave.