Un ossimoro in Lambretta / Il Manganelli in fuga di Patrizia Carrano
Manganelli è stato uno tra i più prolifici autori di pubblicazioni postume, e non ci dovrebbero essere sorprese a tal proposito, viste le sue aderenze con le ombre e gli averni, ma certo la sua mancanza a sedici anni dalla morte si fa sentire. Dunque si accoglie subito bene il “librino leggero (centotrenta grammi appena)”, Un ossimoro in Lambretta, che Patrizia Carrano ha scritto per la nuova ItaloSvevo (numero 3) con il pudore della distanza temporale. Si tratta infatti di un racconto di chi ha frequentato assiduamente il Manga nei suoi ultimi quindici anni di vita, senza essersi fatta subito avanti come amica dell'illustre estinto, tra la folla che “sgomita in prima fila” ai funerali. Ciò è giustamente rivendicato, come la possibilità di qualche racconto “minimale, episodico, ininfluente, ma anche insospettabile e rivelatore”. Potrebbe essere quello di un Manganelli portato in Cinquecento al mare, o accompagnato al cinema a vedere certi stranianti cult adolescenziali anni Ottanta (Piramide di paura, Ritorno al futuro).
Il rapporto tra i due appare assolutamente casuale, improbabile e gratuito, ma anche di affettuoso ascolto (“lei non vuole sapere nulla che lui non voglia dirle”), talvolta involontariamente pedagogico. Carrano ha il merito, pur essendo scrittrice a sua volta, di eclissare il più possibile se stessa dalla ribalta, magari solo un po' assorbendo certi tratti stilistici, quali (spesso) l'elenco o la ricchezza d'aggettivazione: non è semplice non manganellizzarsi scrivendo di Manganelli. Tornando ai piccoli accadimenti rivelatori, è quello d'inizio libro, ovvero un periplo in autobus dal proprio domicilio in via Chinotto 8 interno 8, da capolinea a capolinea senza mai scendere, ad essere il più efficace spunto per un ritratto fisico e psicologico del grande scrittore: “L'uomo potrebbe essere il perfetto protagonista di un romanzo di Simenon: un borghese d'antan le cui pacate abitudini nascondono sussulti, grovigli, inauditi abissi”.
E di queste angosce essudate dai libri e dalle carte, da cartelline e scartafacci, che ingombrano l'appartamento dell'autore, della riservatezza patologica e della ritrosia al mondo, si rende abbondante testimonianza; compresi gli accenni alla psicoanalisi, al rapporto decisivo con la madre, e al più raccontato non-rapporto con Fellini, che vedeva Carrano in veste di mediatrice. Decisiva per uscire dalle contraddizioni stringenti che lo rendono un ossimoro vivente, dalle pressioni infine insostenibili, è allora la fuga: dai riti editoriali e dalle cene romane, dalle collaborazioni a grandi giornali e dall'università; anche ai vincoli matrimoniali e amorosi con la Merini, trentenne con una Lambretta da Milano a Roma, in un viaggio forse reale, forse mitico e inventato. Secondo l'idea che la menzogna è una moltiplicazione del possibile e quindi della vita, e che la vita finisca nei libri, nella propria inesausta “autobiografia senza io”.
Insomma per i lettori che hanno amato Manganelli, o il sarchiapone come lo aveva ribattezzato Carrano per il profilo da formichiere o tasso o armadillo, “creatura squisitamente metafisica, che esiste unicamente attraverso le parole di chi lo descrive”, un agile strumento di conoscenza personale, di divertimento e di malinconia. Un'ultima segnalazione per chi volesse leggere in qualche ora l'operina, magari in viaggio: dato che le pagine sono da tagliare, come in un regalo o imeneo, si tenga sotto mano un coltellino svizzero, una lametta arrugginita da tenere al collo, un'affilata unghia del mignolo appositamente fatta crescere.