Speciale
febbraio - maggio 2020 / Covid 19. Diario minimo
Ero a Parma la mattina del 21 febbraio 2020 e tornavo a Milano la mattina presto. L’altoparlante ha annunciato che il treno in arrivo da Bologna non si sarebbe fermato nella stazione di Codogno. Non avevo mai sentito prima di allora che una stazione era stata chiusa ai viaggiatori in arrivo. Dopo poco è giunto il mio treno. Quando siamo passati per Codogno ho fatto in tempo a vedere il cartello che indicava la cittadina lombarda. Un cartello fantasma, come l’intera stazione. Arrivato in Centrale mi sono fermato a comprare il giornale e una ragazza in fila prima di me ha chiesto all’edicolante un biglietto per Codogno. Lui l’ha stampato e consegnato. La ragazza è corsa via di fretta. Sarà mai arrivata?
Le note che seguono sono una sorta di diario minimo di quanto è accaduto dopo quel 21 febbraio. Sono state pubblicate nel corso dei mesi seguenti su “la Repubblica” in una rubrica intitolata “Effetti personali”. Li ripubblico come personale memoria, quasi rasoterra, di questo periodo. Non troverete nulla di particolarmente nuovo o eclatante. Sono state il mio modo di stare in attesa del meglio.
Febbraio-maggio 2020
CARTA IGIENICA
Appena l’emergenza Coronavirus è stata dichiarata a Milano, a Chinatown è scomparsa la carta igienica dagli scaffali dei supermercati. La stessa cosa era capitata qualche settimana prima a Hong Kong, dove i negozi erano stati presi d’assalto e la Tp (toilet paper) sparita. Non l’acqua, non il cibo, non i generi di conforto, ma proprio i rotoli per i gabinetti. Nella città asiatica poi si era diffusa la voce che la malavita locale stava speculando su questo prodotto. Cosa che poi si è rivelata in parte vera. La ragione di questo accaparramento resta misteriosa, tuttavia pare condivisa da un altro paese orientale che ha alcuni tratti in comune con la Cina: il Giappone. Ogni volta che in quella nazione accade un disastro di grandi proporzioni, ad esempio l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, scatta il Tp Panic. Com’è possibile che proprio i rotoli di carta tengano il primo posto tra i beni per la sopravvivenza? La risposta non c’è. La carta igienica sarebbe stata inventata in Cina, anche se la prima ufficialmente registrata è la J. C. Gayetty’s Medicated Paper for the Water Closet in vendita in America nel 1857. Prima si usavano i fogli di giornale, ma l’inchiostro tipografico, le tracce di sbiancanti come il vetriolo, la calce viva e la potassa, tendevano a provocare o aggravare le emorroidi, come scrive Steven Connor nel suo libro Effetti personali (il Saggiatore), mentre le “medicazioni emollienti” del nuovo prodotto davano sollievo. Da quel momento la carta igienica è diventata un prodotto diffuso in tutto il mondo e ha conquistato paesi e popoli che in precedenza non vi facevano ricorso. La carta per i WC ha due vantaggi, se la si acquista in quantità enormi: costa poco e non deperisce. Si conserva a lungo e passata l’emergenza chi l’ha comprata la smaltisce pian piano. Nonostante tutto questo la spiegazione per la corsa compulsiva da parte dei cinesi che vivono in Italia non c’è. Neppure la psicoanalisi sembra venire in soccorso. Non bisogna dimenticare che lo scorso anno proprio a Pechino Bill Gates ha presentato un nuovo tipo di gabinetto privo di acqua corrente e alimentato da un pannello solare, per cui ha investito 200 milioni di dollari. La questione della defecazione non è infatti un problema da poco nei paesi che posseggono sistemi fognari poco efficienti. Una lunga storia che continua, carta igienica compresa.
MANI
Quante volte ci laviamo le mani in questi giorni? Ho calcolato non meno di cinque o sei volte. Mi è venuto in mente Sigmund Freud e le sue riflessioni circa le ossessioni e le fobie, tra cui quella di lavarsi le mani molte volte al giorno come per un rito di purificazione da parte di soggetti afflitti da nevrosi di angoscia. Senza dubbio il coronavirus ha attivato in noi atteggiamenti fobici, per quanto il lavarsi le mani, a detta degli esperti, è una delle misure profilattiche migliori per non essere contagiati. Ora il continuo lavaggio delle mani però un effetto lo produce sulle nostre preziose estremità: le secca. Perciò via tutti, donne e uomini, a usare la crema per le mani. Questa è tra gli oggetti più ricercati in questi giorni, indispensabile anche per il fatto che siamo in inverno e le mani si screpolano già per via del freddo. Da dove vengono le creme per le mani? Dal mondo antico. Nella farmacopea egizia tra gli unguenti vari, come riportano i papiri, c’è anche la formula per la creazione di una efficace crema per la pelle e per le mani. La necessità di idratarle attraverso una pellicola che salvaguardi lo strato corneo è una costante di tutte le creme sia antiche che moderne. La loro base è costituita dai grassi che compongono una sorta di film superficiale che riduce la perdita d’acqua. Per questa ragione tutte le creme contengono già di loro acqua e poi oli vegetali come la mandorla o minerali come la paraffina, che è un derivato dalla raffinazione del petrolio, oppure prodotti sintetici come i trigliceridi. Tuttavia le sostanze umettanti più usate sono la glicerina e l’urea. La prima è anche una delle componenti più consuete di alcuni disinfettanti che si usano contro il temibile virus: la contengono in modo da non seccare troppo la pelle mentre la disinfettano. In realtà, per evitare di lavarsi sempre – metodo molto semplice ed efficace a cui ci hanno educati prima di metterci a tavola o toccare il cibo – basterebbe indossare dei guanti, come quando si lavano i piatti. Ma i guanti fanno molto massaia e operaio e, pur essendo un capo tecnico, non sono molto amati in genere dalle persone che non esercitano mestieri per cui sono indispensabili, dai carpentieri ai chirurghi. Inibiscono la cosa più immediata: toccare, palpare, accarezzare, sfiorare. I guanti sono ritenuti “innaturali”, eppure mai come oggi ci eviterebbero di screpolarci le mani con continui lavaggi che Covid-19 ci obbliga. Maledetto virus!
ALCOOL
Caro vecchio alcol o alcool, con due o, come si diceva una volta, sei tornato di moda? Quanti tipi di alcol esistono? Almeno sei o sette: metanolo, etanolo, propanolo, eccetera. Il metanolo è l’alcol della strage di bevitori diversi decenni fa, nel 1986, quando vennero immesse in commercio bottiglie di vino in cui era presente il metanolo usato per addizionare gli zuccheri. Ne aveva parlato all’epoca Primo Levi in un suo memorabile articolo. L’alcol di oggi è l’etanolo, quello che si usa, o si usava un tempo, per disinfettare, il liquido di colore rosso che era sempre presente nelle case. Poi era stato superato da altri prodotti disinfettanti dai nomi commerciali sempre diversi. Ma sempre di disinfettanti si trattava. L’etanolo ha la prerogativa di uccidere i microrganismi denaturando, per cui è noto come “alcol denaturato”, che si compra nei negozi, oltre che nelle farmacie: denatura le proteine dei microbi, come si diceva una volta, prima che imparassimo la distinzione tra batteri e virus; così dissolve i loro lipidi e li mette fuori gioco. Uccide batteri, funghi e virus, compreso quello della SARS e anche il coronavirus. Ma anche lui ha dei limiti: non ce la fa con le spore dei batteri. Come dire che non c’è un disinfettante a effetto totale. Un tempo non c’era casa che non avesse nell’armadietto dei medicinali un bel flacone rossiccio. Era un oggetto ritenuto pericoloso, perché oltre a disinfettare – le ferite o sbucciature che ci si procurava da ragazzi bruciavano – era anche infiammabile, per cui ci intimavano di stare attenti. L’attrazione del fuoco è incredibile per i ragazzini, come dimostrano tanti racconti che hanno per protagonisti bambini piromani. Le mamme lo tenevano perciò nel ripiano in alto e minacciavano terribili punizioni se lo avessimo usato per scopi diversi da quello per cui era stato acquistato. Poi è stato sostituito dall’acqua ossigenata o perossido di idrogeno, che non brucia e riempie di schiuma biancastra le ferite. Oggi al supermercato la commessa sparge con un panno l’alcol sul ripiano della cassa e lo ripulisce dopo il mio passaggio. Tornato di moda? Necessariamente sì, come anche l’acqua ossigenato o l’ipoclorito di sodio, nota come candeggina, quella del bucato. Così tutti a comprarlo nei negozi e a usarlo per disinfettare, ad esempio il cellulare o la tastiera del computer dove si annidano batteri, e dove speriamo non ci sia il terribile coronavirus. Se c’è lo uccidiamo senza pietà con la soluzione al 70%.
VIDEOCHIAMATA
La videochiamata con il cellulare è diventata il modo con cui rompere la solitudine di queste giornate. Così anche gli anziani hanno imparato a vedere e farsi vedere da figli e nipoti. Il problema è come tenere la telecamera. Imitano i nipoti che tengono il cellulare vicino al viso e inquadrano la faccia con qualche taglio verso l’alto. Se il nonno e la nonna devono mostrarsi in coppia resta fuori quadro metà dell’uno e metà dell’altro. Quasi nessuno è munito della protesi telescopica, il selfie stick, che sarebbe assai utile per ritrarre la propria persona in modo adeguato. Alcuni avvicinano, forse per via della miopia, lo Smartphone al viso, così che sullo schermo dei nipoti si vedono solo gli occhi e il labbro superiore. Altri, non solo tra gli anziani, non riescono a scegliere tra la visione verticale e quella orizzontale, e gli interlocutori sono costretti a girare il loro cellulare per inseguire le diverse inquadrature. Ci sono poi quelli che appoggiano il cellulare a un sostegno, libro o altro oggetto, e si posizionano per entrare bene nel riquadro. Ma spesso si vede il soffitto e figli e nipoti sollecitano i nonni a rientrare nell’inquadratura. Insomma, la consegna a non uscire produce un’attività visiva nuova obbligando tutti a diventare esperti operatori video. Quando devono mostrare il piatto che stanno cucinando, o far vedere qualcosa della casa, invece di invertire la inquadratura usano lo schermo dello Smartphone come se fosse un occhio proteso verso ciò che vogliono ritrarre, mentre i loro figli e i nipoti, resi abili dalla attività dei selfie sanno come gestire adeguatamente il dispositivo elettronico. Alla fine tutti fanno della televisione usando lo Smartphone come se fosse una telecamera, perché tutto ora è live, parola che significa “dal vivo” ma anche “vissuto”, istante per istante, eppure sempre a distanza.
FAZZOLETTI
“No, i fazzoletti di carta non sono scomparsi, anche se ora ne vendiamo più del solito. Lo sa, col virus chi si soffia il naso, li usa spesso”, così mi dice un addetto al supermercato. Nei negozi dove si vendono i Kleenex e i Tempo, le due marche più diffuse, non sono spariti. Per strada si vede la gente che, invece di starnutire nel gomito in assenza di fazzoletto, come consiglia il Ministero della salute, usa i fazzolettini e poi li getta nei cestini; qualche volta anche per terra. Li fabbricano in diversi; quasi ogni brand della grande distribuzione ha le sue confezioni col proprio marchio. La prima a produrli è stata la Tempo nel 1920 in Germania, paese all’avanguardia tecnologica all’inizio del XX secolo, ma erano già in circolazione da prima. In Italia i fazzoletti usa-e-getta sono utilizzati soprattutto dai giovani, mentre il pubblico anziano ultrasessantenne utilizza ancora il tradizionale fazzoletto da tasca, che un tempo i genitori ricordavano ai propri figli prima di uscire di casa: “Hai il fazzoletto?”. Un oggetto che nasce lontano nel tempo, se già nel Duecento se ne parla in vari testi, in particolare a Venezia, dove era detto fazolus, parola che indica la faccia, la superficie che si deterge con questo ritaglio di tessuto già presente nella antica Roma. Per diventare uno strumento con cui spurgare il naso, bisogna probabilmente attendere il secolo successivo, quando lo usa il re inglese Riccardo II. Allo stesso re è attribuita l’invenzione del fazzoletto da taschino, con cui a volte, ma molto raramente, ci si può pulire anche l’organo dell’olfatto. Quale è più ecologico, il fazzoletto di cotone, che si conserva in tasca, e con cui ci si soffia il naso più volte, oppure quello di carta che si getta via? Probabile il primo, ma non è detto. Quanta acqua infatti serve per lavare il cotone? Ed è più igienico il secondo, dato che ci si libera dei bacilli gettandolo? Probabile, ma è pur sempre carta sbiancata con prodotti chimici. Produrla cosa comporta? E la si può riciclare? Nessuno sa bene calcolare i costi igienici e quelli ecologici di entrambi. Intanto cotone e carta continuano a convivere, perché nei giorni invernali del coronavirus non si può lasciare colare il naso anche se è un semplice raffreddore. In tram e in metropolitana la gente poi s’allontana, e anche chi usa il fazzoletto usa e getta lo ripone educatamente in tasca, come se fosse di cotone.
NECROLOGI
Nei giorni più terribili dello scatenamento del Covid-19 a Bergamo e in Val Seriana, nel quotidiano locale, “L’Eco di Bergamo”, i necrologi sono passati da due a dieci pagine. Non c’era altro modo per manifestare il proprio cordoglio per la scomparsa di parenti e amici che quel saluto sulle pagine del giornale. Niente cerimonia funebre, niente sepoltura. Il necrologio è letteralmente l’elogio di un morto; può essere un articolo, oppure l’annuncio a pagamento della scomparsa d’una persona, entrambi presenti su un quotidiano. Nei giornali locali il secondo è un genere molto letto, perché finisce per informare, seppure con la sua laconicità, di eventi luttuosi che possono interessare la comunità locale. Le origini del necrologio sono molto antiche, poiché la parola viene dal greco, per quanto poi legata a un’espressione cristiana, quella del “martirologio”, ovvero elogio del martire. I defunti sono sempre stati celebrati oralmente e per iscritto, ma è con la nascita dei giornali a partire dall’Ottocento, che comincia il necrologio modernamente inteso. Un annuncio, ma anche un messaggio, a volte rivolto agli stessi defunti, più spesso ai vivi. Il necrologio è infatti un messaggio che contiene aspetti personali e persino intimi: manifesta il legame con chi è scomparso. Un estremo messaggio. Sembra che sia stato John Thadeus Delane, editore del Times di Londra, a creare nell’Ottocento la forma attuale del necrologio con la fotografia del defunto. Un grande successo commerciale. Secondo l’antropologo Géza Róheim, allievo di Freud, sarebbero l’ultima difesa contro l’angoscia, un modo “per rinvigorire l’Io contro la perdita dell’oggetto amato”. Una interpretazione probabilmente giusta, dato che il necrologio è una di quelle scritture ultime in cui si compendia il nostro modo di rapportarci sia con la morte che con la vita stessa: vita passata, presente e futura.
SCALE
“La palestra è chiusa, lo stesso il parco, dove andavo a correre nei giorni scorsi. Allontanarsi da casa non è più possibile, perciò non mi resta che la discesa delle scale di casa”. Così le scale sono diventate una risorsa. Non gli ascensori, dove ora non si può salire in più di una persona per volta, bensì le scale: due, tre, quattro, cinque o più piani da fare passo dopo passo varie volte al giorno. Le vecchie scale di casa sono diventate un mezzo per mantenersi in forma in questo periodo di segregazione forzata a causa del virus. Un tempo le scale erano l’oggetto architettonico più importante degli edifici, insieme alla facciata. Imponenti, eleganti, maestose erano l’elemento intorno a cui ruotava tutta la casa, che si trattasse di una residenza patrizia o di un edificio pubblico. Il loro scopo era collegare il basso con l’alto, una funzione non solo pratica, ma anche simbolica, perché i simboli in architettura hanno un ruolo importante. Poi pian piano hanno cominciato a perdere di importanza, a stringersi, a ridursi, a diventare solo una struttura pratica priva di qualsiasi simbolismo. Il Movimento Moderno in architettura, a partire dai nipotini di Le Corbusier, le ha ridotte a un accessorio; quindi la diffusione dell’ascensore per salire ai piani alti le ha ancor di più declassate. Eppure fino a sessanta e settanta anni fa erano decorate con corrimano di legno, ringhiere di metallo ornate con motivi geometrici o floreali, e gradini di marmo o serizzo, perché non solo il piede vuole la sua parte, ma anche l’occhio e persino il tatto. Salendo e scendendo le scale per fare quel po’ di esercizio fisico che oggi serve per tenersi in forma, abbiamo riscoperto le scale di casa che chi abita al di sopra del secondo piano conosce ben poco preferendo la pulsantiera dell’ascensore. Perciò tante scale sono apparse a chi ha cominciato a percorrerle su e giù, modeste, realizzate con materiali dozzinali o addirittura scarsi, mal tenute nonostante la pulizia settimanale. Inoltre scale più vecchie, dell’inizio del XX secolo, o addirittura della fine del XIX, sono state nel passato tagliate per far passare l’ascensore riducendo scalini e pianerottoli, segando corrimano e balaustre. Senza gli ascensori non esisterebbero i grattacieli; lì ci sono ben poche scale. In questi giorni di autoreclusione mi sono chiesto: come faranno quelli che non possiedono le scale? Beati coloro che salgono e scendono a piedi, di loro sarà il Regno dei Cieli.
CORVI
I corvi hanno fame. Calano dai tetti o dalle antenne dove stanno appollaiati e cercano nei cestini della spazzatura che ora sono vuoti. Nessuno in giro, perciò niente rifiuti da becchettare o con cui pasteggiare in città. Anche nelle campagne i corvidi – cornacchie, corvi, taccole, cornacchie grigie – si dirigono verso i sacchetti della spazzatura lasciati sulla strada per il passaggio degli addetti al ritiro. Ho visto un bell’esemplare i Corvus frugilegus intento a strappare un grosso sacchetto trasparente di plastica. Appena mi sono avvicinato è volato via. Ora un amico mi dice che in città sul suo balcone pieno di piante ornamentali invece dei merli arrivano loro, che prima stavano ben lontani. Il nutrimento scarseggia. I contenitori per l’immondizia prima straripavano di coni gelato, avanzi di pizze, scarti di merendine e altri resti, cibarie preziose per questi volatili neri e grigi resi famosi da un film di Alfred Hitchcock, Gli uccelli, e su cui circolano varie leggende metropolitane. Da alcuni decenni i corvidi hanno lasciato l’habitat naturale nelle campagne irrigue o nei pressi dei corsi d’acqua per risiedere come molti altri animali nelle città e nelle metropoli, dove è più facile approvvigionarsi. Animale intelligente come pochi il corvo – in particolare il corvo reale – è il protagonista di vari libri usciti da poco opera di etologi e ora anche di un custode di corvi che li cura nella celebre Torre di Londra (si veda il libro Il signore dei corvi di Christopher Skaife, edito da Guanda editore): la leggenda dice che, se vanno via da lì finisce la monarchia. I meno nobili corvi visti affamati in questi giorni alla ricerca del cibo potrebbero forse ritornare ai loro siti abituali e nutrirsi d’insetti, semi, cereali e ghiande. Dieta più sana delle schifezze che trovavano sino a ieri nelle nostre pattumiere.
KM ZERO
Km 0 al Km 0,5? Sto parlando delle vacanze estive che inizieranno per forza con i primi caldi, in giugno o poco oltre. Km 0,5 significa località vicine, sufficientemente prossime. Sarà la riscoperta dei centri montani e balneari situati a non grande distanza dall’abitazione di residenza, in passato snobbati. Poiché l’Italia è attraversata da due catene montuose che l’innervano, Alpi e Appennini, non c’è quasi regione che non abbia alle proprie spalle siti in cui trovare refrigerio: prati, boschi, sentieri. L’Italia offre molto, dalle Prealpi alle colline che precedono gli Appennini. Naturalmente tutti a debita distanza. Per chi non ama la montagna, dove il distanziamento sembra più facile, si tratterà di trovare località di mare meno affollate, posti dove poter stendere la propria sdraio o l’asciugamano lontano dai propri simili. Sarà meno facile, ma le coste italiane, dal Mar Ligure sino all’Adriatico sono molto lunghe e qualche angolino dove fare il bagno non sarà impossibile trovarlo. Certo il problema rimane nei luoghi più ambiti e frequentati, ma c’è anche la soluzione del canotto, gommone o altra imbarcazione da mettere in acqua nel posto giusto. A remi o a vela o a motore i mari sono percorribili e ampi, e qualcosa di solitario si trova sempre, basta non concentrarsi tutti nel medesimo tratto di costa o di mare. Sarà l’estate dei brevi tragitti, non più le vacanze esotiche in paradisi lontani, dalle Maldive agli atolli del Pacifico. Già qualcuno ha cominciato a cercare affitti estivi entro i confini della propria regione, mentre chi possiede una seconda casa progetta di trasferircisi al più presto con bambini e ragazzi che, dopo due mesi di segregazione forzosa in città, non vedono l’ora di correre all’aperto. È l’autarchia vacanziera, e la ricerca del luogo intermedio. Ora, lo sappiano, tutto è diventato intermedio. Ma visto il virus, è bene così.
FERRAMENTA
Se non ci fossero state le ferramenta non avrei saputo come fare. Appena isolata Codogno, dove pensate che abbia trovato le mascherine? Dal ferramenta. E i guanti usa-e-getta? Dal ferramenta. E il mio medico dove credete abbia trovato la visiera per proteggere il suo volto dal contagio? Dal ferramenta. Una di quelle visiere trasparenti con il copricapo che si usano insieme al decespugliatore per tagliare l’erba. Lì ha trovato anche la tuta per coprirsi e difendersi dal virus. Tutto materiale fai-da-te con cui ha potuto continuare il suo lavoro di medico di base. La parola “ferramenta” è ottocentesca ed è stata usata da Ugo Foscolo, l’autore di I sepolcri, nel 1807 per indicare il negozio in cui si vendono strumenti di ferro. Chiuse le ferramenta – sostantivo femminile secondo il dizionario – molte attività oggi non sono praticabili. Dove comprare altrimenti chiodi, martello, pinze, cacciaviti, ma anche la vernice per dipingere i muri di casa, i mobili e gli oggetti? Vero che i grandi magazzini e i supermercati sono forniti di queste attrezzature, ma volete confrontarle con la disponibilità di scelta che offre il ferramenta, inteso come il venditore maschio, anche se a volte è una donna, sua moglie? Sono tra i negozi più affascinanti che esistono, dove sono presenti merci molto diverse tra loro: dalle attrezzature per l’idraulica a quelle per il giardinaggio, dalle pentole per la cucina alle scarpe per uso tecnico, dalla viteria alle scale. Non si finisce mai di scoprire cosa si trova in vendita in questo tipo di negozi. In Italia non c’è paese o frazione che non possieda un ferramenta, oggi altrettanto importante di una farmacia, di un alimentari e di un fruttivendolo. Vero che coi farmaci ci si cura e con il pane e la verdura ci si nutre, ma vi assicuro che anche le ferramenta rientrano tra le rivendite di beni essenziali. Per favore riapritele!
METRO
Quello della sarta, del muratore e del fabbro; quello di legno, di metallo e di plastica; quello ripiegabile, quello avvolgibile e quello arrotolabile. Il metro è diventato uno strumento indispensabile di misurazione in questi ultimi mesi dopo essere stato per 228 anni un silenzioso servitore di milioni di persone. Jean-Baptiste-Joseph Delambre e Pierre-François-André Méchain, di professione astronomi, non pensavano certo alla distanza salvifica di un metro quando nel giugno del 1792, nel bel mezzo della Rivoluzione francese, si diressero uno a nord e l’altro a sud su incarico della Assemblea Nazionale per misurare l’arco di meridiano con cui avrebbero poi stabilito la nuova unità di misura universale. Lo scopo era quello di mettere fine al disordine che vigeva in Francia e in Europa riguardo alle varie misure. Furono loro a fissare in un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’Equatore, la nuova unità di misura che “sarebbe stata patrimonio di tutti gli esseri umani”. La storia di quella spedizione attesta che occorsero sette anni ai due per viaggiare con i loro strumenti lungo il mediano che si estendeva da Dunkerque a Barcellona in mezzo a contadini superstiziosi e la diffidenza dell’Assemblea nazionale. Commettono persino un errore, o almeno così accade a Méchain. Se ne accorge e il conseguente senso di colpa lo porta alla follia e poi alla morte. Anni fa, in un libro intitolato La misura di tutte le cose, un professore americano, Ken Alder, ha raccontato la storia di questo semplice strumento cui affidiamo oggi la nostra salvezza rispetto a un organismo invisibile e pernicioso che ha provocato tanti morti in Italia e nel mondo. Il sistema metrico decimale contro il Coronavirus: una sfida che non possiamo perdere. Il nostro grazie ai due astronomi e alla Rivoluzione, che ci ha fornito lo strumento per starne alla larga. Basta solo un metro.
Questi brevi testi sono stati pubblicati per la prima volta su "la Repubblica" che ringraziamo per averci autorizzati a riprodurli
È possibile scaricare gratuitamente il nostro ebook I tempi del virus.