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Volti nella città / Sogno rovesciato. Un italiano a Parigi
Oltre un mese fa, domenica 15 marzo, si svolgeva in Francia il primo turno delle elezioni municipali. Io ero alla finestra. Non in senso figurato: ero affacciato alla finestra del mio appartamento da cui si vede l’ingresso della palestra trasformata, per l’occasione, in uno dei seggi del mio arrondissement. Impotente, assistevo a uno spettacolo della più grande inutilità, in quanto mi era chiaro che la Francia – come l’Italia – sarebbe entrata presto in quarantena.
A dir il vero, in quarantena io già c’ero. Di auto- (e quindi un po’ pseudo-) quarantena si trattava, rientrando da un doppio soggiorno a Venezia e a Milano. Allora (un mese fa, ma nel nostro sentire in un’altra era geologica) chi rientrava a Parigi da quelle zone doveva isolarsi per due settimane. Chissà come nel XXI secolo le quarantene durano quindici giorni! A parte questa indicazione non obbligatoria, alla Francia non sembrava preoccupare molto la vicinanza geografica con l’Italia.
Quei giorni di auto-isolamento mi impensierivano, perché nei due mesi successivi avevo fissato (prima che saltasse tutto, ovviamente) diversi impegni in Italia, all’incirca ogni due settimane. Avevo calcolato che, se dovevo chiudermi in casa ogni volta che tornavo dall’Italia, sarei uscito a metà luglio. Finché il confinement per chi rientrava da quelle zone è stato tolto. Una buona notizia? Al contrario, voleva dire che il virus era troppo diffuso per discriminarci.
Insomma, si sapeva benissimo che l’Hexagone non sarebbe rimasto immune. Eppure le misure cautelari erano vaghissime: gestes barrières come starnutire nel gomito e lavarsi spesso le mani. Le mascherine? Inutili dicevano i politici, soprattutto perché non si trovavano più in commercio. La solita menzogna in salsa francese, che tratta i cittadini con paternalismo. Dopo la catastrofe di Chernobyl nel 1986, i telegiornali di Stato – cioè di un Paese con un arsenale nucleare pieno di crepe e arcani – rassicuravano che la Francia, rispetto agli altri paesi europei, non era stata contaminata dalla nube tossica grazie all’anticiclone…
Quella domenica 15 marzo dalla mia finestra osservavo l’andirivieni di persone al seggio, i capannelli davanti l’ingresso, i passanti che leggevano i manifesti all’aperto. Uno spettacolo penoso; ero frustato e confuso, certissimo come ero che il secondo turno delle elezioni previsto per la domenica successiva non si sarebbe tenuto. Il giorno dopo il Presidente della Repubblica ha annunciato misure restrittive, parlando a più riprese di guerra pur non pronunciando mai la parola confinement, lasciando l’onore al ministro dell’Interno.
Le cose sono andate esattamente così: domenica eravamo invitati a votare, con l’idea di tornarci la settimana successiva; lunedì ci risvegliamo in guerra! Il confinement comincia tuttavia martedì, c’è ancora il tempo per un’ultima capatina ai caffè prima che scatti il coprifuoco. Il faut en profiter, allez!: così recitavano i messaggi che mi inviavano gli amici, gli stessi che mi avevano già redarguito per non aver votato. Insomma, non si era ancora realizzata la gravità della situazione. Ma nel giro di pochissimi giorni, le restrizioni si sono inasprite: nell’autocertificazione è obbligatorio indicare non solo la data ma anche l’ora di uscita. Ho sessanta minuti al giorno, l’ora d’aria del carcerato.
Quando scendo per fare la spesa, passo davanti la palestra/ex-seggio sbarrati. Nessuno ha pensato a rimuovere le strutture metalliche provvisorie – le cosiddette plance – che riempiono le città per la propaganda elettorale. Così prima di rincasare con le buste della spesa in mano, in attesa che scada il sessantesimo minuto, mi fermo a guardare le affiche e mi chiedo cosa ci trovo di tanto interessante.
Forse il fatto che questi manifesti elettorali parlano di un mondo che sembra appartenere a un altro secolo, sebbene risalgano al mese scorso. Mi ricordano quelle vecchie pubblicità alle fermate della metro nascoste sotto diversi strati che vengono portate alla luce durate i lavori di ristrutturazione. Una stratigrafia urbana in cui rispuntano fuori vecchie mappe della metro, scritte sui muri, logo con design vintage. Una geologia urbana nascosta non sotto la pietra ma sotto alcuni strati di cartone.
Leggo i programmi e le promesse dei partiti, gli slogan sulla “Francia che vogliamo”. Vedo le facce e i simboli, i manifesti strappati e le caricature di chi ha scritto sopra qualcosa o ha completato questi volti sorridenti e rassicuranti con baffi e barbe posticce, occhiaie, caccole, denti mancanti, cicatrici, falli e altri gesti iconoclasti. “In passato, questi gesti erano rivolti contro le immagini devozionali nelle chiese o contro le statue del sovrano”, annota Hans Belting in Facce. Una storia del volto (Carocci 2014, p. 224). Eppure, per quanto ritoccati in digitale prima e caricaturizzati e deturpati poi, restano volti umani. Nella face risuona del resto l’effacement.
Sono loro, mi dico, i silenti guardiani della città. Infatti gli unici volti umani che incrocio nel percorso al supermercato – un iter studiatissimo a tavolino per evitare i controlli della polizia – sono bardati e schivi. Come s’intercetta una sagoma venirci incontro, si attraversa il marciapiede; e il volto del cassiere del supermercato è triplicemente filtrato dalla mascherina, da una visiera che lo copre fino al collo e dalla superficie di plexiglas che circonda ermeticamente la cassa, in cui resta solo un buco per far passare la merce e uno più piccolo per il pagamento. Difficile cogliere le nostre espressioni, difficile entrare in empatia con lo sguardo.
Vivendo da solo, il suo è l’unico volto umano che incrociano i miei occhi da oltre un mese; gli altri sono pixel sullo schermo del telefono.
Ora, se i volti stampati sulle plance elettorali mi attirano è anche perché mi riportano agli ultimi giorni della campagna elettorale, quando cercavo inutilmente di prevenire i miei amici francesi di quanto sarebbe presto accaduto. E credo di parlare a nome degli italiani in Francia, che qui vivono ma hanno il cuore – anche una scaglia – in Italia. Una situazione schizofrenica inedita, in cui due Paesi europei parlavano lingue inconciliabili. In quei giorni già primaverili ricevevo i soliti inviti per opening, manifestazioni, festival, conferenze che si chiudevano più o meno tutti con lo stesso augurio: au plaisir de vous y retrouver nombreaux. A quel “numerosi” ero preso da un soprassalto, una parola che oggi – con le nostre vite atomizzate – fa paura solo a pronunciarla. E l’invito veniva da persone care, da persone che stimo, cui non riuscivo però a trasmettere la mia inquietudine. Passavo per un rabat-joie, cioè un guastafeste.
Quello che gli italiani in Francia hanno vissuto è un déjà vu troppo dilazionato. Quanto accadeva in Italia era l’avvenire della Francia. Vedevo (vedevamo) puntualmente succedersi qui in Francia gli stessi gesti, le stesse paure, le stesse politiche che in Italia; gli stessi riflessi come la corsa a fare incetta di pasta e carta igienica o l’esodo di chi può permetterselo verso le seconde case in campagna. Persino gli stessi meme, a volte tradotti dall’italiano. E persino, colmo dei colmi, lo stesso j’accuse contro quei Paesi che adesso non seguivano l’esempio del confinement della Francia!
Come se, al di là di un’Europa incapace di parlare con una sola voce, si riproducessero gli stessi riflessi psicologici e antropologici. Sì certo, qui si discuteva se considerare le enoteche negozi di prima necessità (negli Stati Uniti la domanda riguarda i rivenditori di armi); qui l’unico flash mob consiste nel battere le mani alla finestra dalle 20:00 alle 20:02 massimo (e per fortuna, aggiungo, perché sentire la Marsigliese tutto il giorno avrebbe avuto conseguenze sul mio equilibrio psichico). Ma identiche erano le restrizioni imposte e le reazioni.
Non ho vissuto bene questo déjà vu. Perché un déjà vu funziona quando si ha l’impressione di aver vissuto un episodio circoscritto nel tempo – che sia un gesto o una parola o una situazione. Diverso è vivere un déjà vu che si ripete giorno dopo giorno, implacabilmente, per più di una settimana, un ricordo del presente in cui l’uguale torna più uguale di prima. Una sorta di rêverie ma non un sogno, come preciserebbe Remo Bodei: “Mentre nel sognare si prende l’allucinazione per realtà”, in quello che Louis Dugas chiamava sogno rovesciato (rêve renversé) “si scambia invece la realtà per allucinazione, per qualcosa che stentiamo a credere pur avendola indubbiamente davanti ai nostri occhi” (Piramidi di tempo. Storia e teoria del déjà vu, Il Mulino 2006, p. 9).
Guardando i manifesti elettorali senza nessuno intorno, mi torna in mente un altro momento difficile, uno dei tanti vissuti a Parigi in questi ultimi anni, ovvero gli attacchi terroristici del 2015. Da quelli più dolorosi (Charlie Hebdo e Bataclan) a quelli che hanno avuto meno eco in Italia come, per citarne uno, quel ragazzo di Paris 8 che lavorava in una libreria, pedinato, accoltellato e ucciso in pieno giorno e in pieno centro storico.
Eravamo tutti traumatizzati. Per alcuni mesi quando andavo in un luogo chiuso come un caffè (cioè ogni giorno), un museo, un cinema, un teatro o un centro commerciale cercavo sempre l’uscita d’emergenza. Un nuovo tic dettato dalla fragilità, condizione con cui ognuno di noi doveva fare i conti.
Come reagire? La risposta martellante e univoca era: uscire e ancora uscire, non indietreggiare dal proprio stile di vita di un millimetro; rinchiudersi in casa voleva dire darla vinta al terrorismo. E così è stato: se la città si è militarizzata, con controlli all’ingresso di ogni luogo pubblico, i parigini non hanno rivisto al ribasso le loro abitudini. I caffè trasformati quella sera in luoghi di morte sono stati ristrutturati a tempo record, e le targhe alla memoria affisse in angoli defilati. Chi passa oggi distratto davanti quelle terrasses ignora cosa sia accaduto.
Che sia questa una delle motivazioni – in parte inconscia – del ritardo con cui si è reagito alla pandemia in Francia? Solo che adesso non ci sono nemici, non ci sono guerre, non ci sono rivendicazioni; c’è un virus invisibile trasmesso e trasmissibile dai nostri stessi corpi e la soluzione – temporanea ma inevitabile – è barricarsi in casa.
I volti dei manifesti elettorali, tetri come i necrologi affissi sulle mura dei paesi, rendono la città ancora più spettrale. Ci osservano da un luogo ormai scomparso che è difficile immaginare sia esistito fino a un mese fa. Riflesso di una politica – probabilmente di un mondo – legato ancora al XX secolo. Quei manifesti elettorali che nessuno ha portato via sono il segno, o l’icona, della città che non si voleva fermare. La città che, alla fine del XIX secolo, ha inventato la Colonna Morris per promuovere film e spettacoli nello spazio urbano e che oggi vede i volti della sua classe politica invecchiare sotto gli occhi di tutti. Face to face.
Belting ricorda che anche il volto di Mao, cui consacra un capitolo, era modificato col passare degli anni, “tanto che sembrava invecchiare in modo impercettibile con lui” (p. 287), per consolidare così l’identificazione tra Partito e popolo. Ma oggi viviamo all’epoca mediale dei volti anonimi e standardizzati: “A ben guardare, il successo delle faces dipende dal fatto che le conosciamo soltanto come immagini, ma le capiamo ancora anche come volti” (p. 230). Non siamo più abituati a vedere invecchiare così precocemente le immagini, soprattutto quelle in cui il potere politico si mette in mostra e ci mette la faccia. Ecco, a Parigi forse è in atto una silenziosa prosopopea – che è assieme volto e maschera – dove persone assenti o defunte tornano a parlare nel mondo dei vivi. Ma dicono qualcosa che non riesco ancora ad articolare.