Fotografie della fragilità
Un cimitero di auto, alcuni relitti di barche lasciate sul greto del fiume, un aereo fermo sulla pista, sono fra i soggetti ritratti da Wim Wenders, pubblicati in Early Works: 1964-1984 (Lazy Dog, 2024), ed esposti al festival internazionale Grenze Arsenali Fotografici in corso a Verona. Sono i resti che nessuno ha avuto la pietà o il tempo di seppellire, avanzi di una quotidianità fatta di luoghi deserti e inospitali. A Pittsburgh, la vetrina di un pittore dipinta con due riquadri, simili a due tele, e lo schermo bianco di un drive-in a Marfa, accentuano il senso di vuoto, ma al contempo sono superfici dove proiettare le proprie visioni.
Verzicht, in italiano rinuncia, è il titolo del festival, la cornice concettuale entro cui sono raggruppate diciassette mostre. Fare un passo indietro. Fare un passo laterale davanti a ciò che non si capisce (…). Elogio della fragilità. Conta ciò che è perdente. Contro l’arrivismo, il superomismo. Contro la lotta, l’istinto e la competizione, scrivono i curatori. Eppure si ha la percezione che la rinuncia, intesa come negazione dell’agire e del fare, non sia il filo che lega i vari autori.
Nelle parole dei curatori, c’è un aspetto che invece unisce le immagini esposte, l’elogio della fragilità. L’etimologia della parola, che riconduce al latino frangere, andare in frantumi, indica la perdita di unità, qualcosa in procinto di rompersi, sgretolarsi, smarrirsi, che la fotografia, come un collante, tiene unito. Gli attori malati di mente ritratti da Francesca Dusini sul set di Švejk, il viaggio, Torno indietro un attimo, che Antonio Rovaldi compie sulle sponde del fiume Adige, la fragilità dei ragazzi di Cuba colti da Rolando Cabrera in Modus vivendi, le inquietudini dell’adolescenza in Crisalidi di Ilaria Sagaria. Una fotografia come atto di pietas e di sympatheia, possibilità di ristabilire equilibri e lenire malesseri. Non c’è alcuna garanzia di guarigione, ma resta l’attenzione, la cura, la vicinanza. Poiché l’altra faccia della fragilità è la dignità. Quella di Serena Radicioli in attesa del padre (Non sei più tornato), di Martina Havlová alla ricerca della bisnonna attraverso le pagine di un diario (tajina), dei giovani migranti di Florence Cuschieri (La ronde des hirondelles), e delle pietre che Emilia Martin raccoglie e studia (I saw a tree bearing stones in the place of apples and pears).
Non sei più tornato potrebbero essere le parole di una ragazzina in accappatoio, ritratta mentre guarda verso la strada, aspettando nel buio il padre che non arriverà. La sera del 29 ottobre 2012 due gruppi criminali si diedero appuntamento per un regolamento di conti finito male, probabilmente dovuto a un debito, riporta la prima pagina di un quotidiano. Da qui ha inizio il lavoro di Serena Radicioli (1997), che si snoda tra passato e presente, tra gli affetti delle memorie famigliari e la freddezza degli archivi pubblici. Fotografie e lettere private sono esposte con le foto dei giornali ed i frame tratti dalle riprese delle telecamere di sorveglianza. Si vedono dei guantoni, un’auto sportiva e suo padre da ragazzo con un’aria sfrontata e compiaciuta. La fotografa fa ordine nella storia del genitore per dare forma alla propria esistenza. Elabora un lutto. Le due vite si fondono, dove è mancata la parola del padre, sono giunte le fotografie della figlia. Raccontare è dare una misura alle cose, invertire il corso degli eventi, sostituirsi al padre nel restituirgli una nuova vita. La fotografia, in un ribaltamento semantico, non è più quella segnaletica che certifica il marchio di un’infamia, ma infrange la reclusione dell’oblio. La memoria è un’esperienza “del cuore” prima che della ragione. Ricordare è intrepretare il passato, cercare di ricrearlo in contorni visibili e spesso trasformare le immagini nei simboli di ciò che desideriamo ricordare. Eppure la Radicioli non nobilita la figura paterna, ma se ne distacca, a un padre tanto ingombrante non concede alcuna redenzione. E nulla può concedergli, perché solo partendo da una lucida visione della sua storia, può rivendicare la propria irriducibile diversità.
Anche Martina Havlová (1994) va in cerca delle proprie radici. Il ritrovamento di un diario è la scintilla che le fa ricordare la bisnonna Marie Sálková. Dal 1921 al 1954, una donna che avrebbe potuto essere la sua antenata, fra le tante citazioni sulla maternità, annota una riflessione sul rapporto con i propri figli, Marta in procinto di nascere, e Josef omonimo del padre della Havlová. Il 27 luglio 2021, cent’anni dopo l’inizio del diario, la fotografa decide di aggiungere anche i suoi pensieri, e si fa raccontare dal padre l’infanzia felice trascorsa con Marie. Il suo progetto tajina, che in ceco significa “paesaggio contenente un attributo”, secondo la radice taj, un mistero, prova a raccontare la storia di questo ritrovamento. Le immagini sono frammenti che non danno l’impressione di una totalità, ma un insieme di note che cerca di restituire la complessità di una sinfonia. Frammenti di spazio, il cielo azzurro dell’affresco in una chiesa, la tenda gonfia di vento in una stanza, il diario aperto sul pavimento, si alternano a frammenti di tempo, l’istante in cui le nuvole cariche d’acqua precedono lo scoppio di un temporale e la lenta sedimentazione delle pietre lungo le ere geologiche. Fotografie che mostrano come il tempo e lo spazio subiscano una mutazione, che ne sconvolge l’aspetto senza mutarne la sostanza. Martina, Maria, e la sconosciuta redattrice del diario potrebbero essere la stessa persona.
Le radici che Emilia Martin (1991) va cercando sono quelle ancestrali celate nelle pietre. Nel suo lavoro I saw a tree bearing stones in the place of apples and pears, si vedono rocce, massi, meteoriti. Per oltre due anni Martin raccoglie storie di pietre appartenenti al mito, al folklore, al rito, esaltandone il potere evocativo: non è forse questa la magia dei racconti? Sono portatori di verità, senza bisogno di affermare di essere la Verità. In Polonia, nella regione centrale da cui provengono i suoi antenati, ci sono tracce di enormi rocce neolitiche, che sembrano osservatori silenziosi e impassibili, ricorda la fotografa. La compattezza della pietra, paragonata alla fragilità della vita umana, l’ha resa simbolo dell’eternità, nella pietra sono racchiusi segreti che cerchiamo di trattenere: un bambino regge un masso, delle mani abbracciano una roccia, un piede sembra uscire o entrare in un crepaccio. Mistero cosmico e senso della trascendenza sono racchiusi in una pietra sospesa in aria, divinità che mette in relazione terra e cielo, come i meteoriti, oggetti di culto sin da tempi remoti. Pietra è ciò che resta dell’uomo quando lo sguardo di Medusa lo trasforma in sasso, ma contemporaneamente gli dona l’immortalità. Ed è con la pietra, lapis, che l’uomo può incidere il suo nome e lasciare traccia di sé. La pietra, menhir, kolossòs e monolite, è anche l’ossatura di queste immagini, l’impalcatura simbolica. La fotografa raccoglie le reliquie dal caos della terra, le ordina, le classifica, trasformandole in ready made, come si vede in una foto-mosaico, sillabario roccioso, forma della fotografia e firma della fotografa.
Fotografare non riguarda solo l’individuo, ma anche la collettività. Tra il 2017 e il 2018, la fotografa Florence Cuschieri (1993) viaggia regolarmente in autobus, attraversando il confine tra Clavière e Briançon, via percorsa anche dai migranti che dal Nordovest italiano si spostano in Francia. Ho osservato persone costrette a scendere dall'autobus dalla polizia di frontiera. Questi uomini, donne e bambini non avevano altra scelta che attraversare il confine a piedi, illegalmente. Un viaggio lungo circa 26 km, effettuato spesso in condizioni meteorologiche difficili, al riparo della notte. Così nasce La ronde des hirondelles. Mostrare questa fragilità non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. Il titolo evoca un’immagine poetica, quella delle rondini che migrano leggere verso posti caldi, ma anche il destino di chi è costretto a girare su se stesso, impossibilitato a cambiare la propria condizione. La fotografa percorre i boschi e la montagna, segue il fiume, si amalgama al paesaggio, diventa migrante. Raggiunge le persone che ha incontrato nei posti desolati in cui vivono, si immerge nella monotonia delle loro esistenze. A Briançon, situata in alta quota, Mohammed, Mustapha, Youcef, Ahmed, Ali, Khalid e Tierno, originari del Nord Africa e dell’Africa subsahariana, vivono emarginati, sospesi in un limbo di impotenza e immobilità. Nella sequenza di otto fotografie che mostra alcune scene di vita quotidiana, nessuno evade suonando il pianoforte abbandonato in una stanza, nessuno evade salendo i pioli della scala dimenticata fra un mucchio di lamiere. Salirvi è impossibile come immaginare di eseguire al piano una scala musicale. Essere in esilio significa esiliare la memoria, la lingua, il proprio equilibrio. Non esiste più una terra madre, non esistono più i luoghi dell’infanzia, i cari, gli amici. Eppure, al di là del provvisorio universo in cui viviamo, c’è chi, come la Cuschieri, pensa che il confine non sia solo uno steccato, ma una cucitura, una giuntura, un ponte.
Festival Grenze Arsenali Fotografici, direzione artistica e organizzativa di Simone Azzoni e Francesca Marra, Verona, fino al 15 ottobre 2024.
- Serena Radicioli, Non sei più tornato, a cura di Musa fotografia.
- Martina Havlová, tajina, a cura di Simone Azzoni e Francesca Marra.
- Emilia Martin, I saw a tree bearing stones in the place of apples and pears, a cura di Arianna Rinaldo.
- Florence Cuschieri, La ronde des hirondelles, a cura di Luce Lebart e Francesco Biasi.
L'immagine di copertina è La ronde des Hirondelles (The Swall ow’s round), ©Florence Cuschieri