Uliano Lucas. Quando la realtà è dolce
Una giovane donna, con la testa reclinata e una mano alla base del collo, sorride compiaciuta. Siede a un tavolino. Ha gli occhi chiusi, incurante del fotografo che le punta contro l’obiettivo. La sua allegria è sincera, sospesa tra una risata euforica e la sicurezza di chi sa come porsi in maniera immediata e senza ripensamenti. È una foto realizzata da Uliano Lucas al bar Il posto delle fragole nell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. Il ritratto va ben oltre ciò che rappresenta. In quella posa ritrovo una modalità di rappresentazione che attraversa alcune delle mie foto più intense: l’uomo a confronto con il proprio mondo interiore, in un momento di grazia e di abbandono.
Un’altra donna guarda nell’obiettivo. Anche lei sorride. È in piedi nella foresta, appoggiata a un albero, imbraccia un vecchio Sten. Colpiscono i suoi folti capelli neri, l’espressione innocente del viso e il fucile stretto sotto il braccio, puntato al fotografo. Si chiamava Dominga. Aveva sedici anni ed era una partigiana della Guinea-Bissau (…). Questa foto è diventata un emblema: di un’Africa nuova e del suo futuro, della giovinezza e dei suoi sogni, delle donne e della loro indipendenza, forse semplicemente della speranza. Sono doppi di Uliano Lucas. L’una, emblema della disinvoltura e di un’assoluta padronanza di sé; l’altra, personificazione del coraggio e dello spirito rivoluzionario. Sono pubblicate nel volume autobiografico A passo lento nella realtà, scritto con la figlia Tatiana Agliani (Mimesis, 2024) dove Lucas racconta la sua esperienza di fotoreporter, la formazione nell’ambiente di Brera e del bar Giamaica a Milano e la scelta di essere freelance. Il libro ripercorre le trasformazioni sociali e culturali dagli anni del boom sino ad oggi: l’immigrazione in Italia e all’estero, la decolonizzazione dell’Africa e le guerre di liberazione, la contestazione studentesca, gli anni del terrorismo, la dissoluzione della ex Jugoslavia, i manicomi, i cambiamenti nel mondo del lavoro.
Il suo essere indipendente e la scelta di non lavorare stabilmente per alcun giornale, fungono da contrappeso ai rischi di mistificazione insiti in ogni racconto autobiografico, sono la conferma di una granitica coerenza che estende la sua influenza anche sulla narrazione. La parola è importante quanto la fotografia. Una moderna forma di parresìa, un dire tutto e un dire il vero che procede “a passo lento”, trattiene a sé il lettore, come il bambino che ascolta una favola. E come tutte le favole, suggerisce una morale. Fotografare significa essere direttamente innestati nella vita, nutrirsi di ciò che si vede, sentire il sapore delle cose. Significa percepirne la sapidità, discernerne il senso. “La verità è dolce”, si legge sul muro in una sua fotografia. E verità non è solo un’informazione esatta, ma un prendere posizione per quello che si afferma, un esserci in ciò che si fotografa. È adesione, coinvolgimento, immersione. Il reportage è una scelta di partecipazione politica e il fotoreporter è parte del movimento. Si scopre che i poveri e gli ultimi sono stati rappresentati poco e male, che c’è bisogno di un nuovo modo di intendere l’informazione, di “controinformare”, di decostruire i cliché della rappresentazione. Se non ti piacciono le notizie che leggi sui giornali, esci per strada e fai le notizie, si leggeva sui muri. Lucas assorbe questi incitamenti, le sue immagini sono simboliche, non nell’accezione di un significato universale, ma seguendo l’etimo, nel senso di qualcosa che mette insieme e fa coincidere, un segno di riconoscimento costituito dalle due metà di un oggetto che due persone esibiscono per riconoscersi, un riconoscimento tra le due metà di una verità da afferrare.
Lucas ha consegnato al lettore, insieme a un pezzo della sua storia, anche un pezzo di Storia: il trasbordo degli emigranti al confine italo-svizzero, i tre ragazzi che corrono in piazzale Accursio, l’assalto all’Università Statale occupata dagli studenti, l’assemblea sindacale degli operai della Pirelli, le persone che corrono per prendere il tram nella periferia milanese, l’emigrante del Sud, figlio di un’Italia contadina, con il grattacielo Pirelli sullo sfondo.
Anche la tecnica non è più un mero espediente. Lucas lavora sulla luce naturale, sui forti contrasti della stampa, usa apparecchi 35mm e obiettivi grandangolari, tenendo spesso la macchina leggermente fuori asse per non isolare il fotogramma, per restituire la concitazione del momento. La profondità di campo del grandangolo è profondità della dimensione umana, è restituire all’individuo la pienezza dell’esistenza. Le sue fotografie non si sono mai esaurite in una semplice posa, ho sempre creduto che il tempo di una foto non fosse quello dell’istante catturato nello scatto, della pubblicazione sul giornale, ma quello lungo della storia, (…) che sedimenti nel tempo “pieno di attualità” del presente. Essere in ciò che si fotografa, significa anche porsi faccia a faccia con ciò che si guarda, scostare il velo delle apparenze, dire “il re è nudo”.Lucas non ha mai creduto nel mito della fabbrica. Come nelle foto degli operai di Carla Cerati e di Paola Agosti, non vi è alcuna forma di compiacimento, di concessione agiografica e glorificazione incondizionata del lavoro. La fabbrica è fatica e alienazione. I volti dei lavoratori sono seri, emergono con forza, e nonostante l'imponenza della fabbrica, l’aspetto umano prevale su quello del prodotto. Le acciaierie non sono fucine di Vulcano con fotogeniche colate di metallo incandescente, bensì luoghi neri e sudici, come nella foto delle Acciaierie Italsider a Taranto. “Il Vietnam è in fabbrica” vi è scritto sul muro di una foto fatta da Lucas a Sesto San Giovanni.
Ma per gli operai e le operaie vi è anche presa di coscienza politica del proprio ruolo e un forte senso di identità ed appartenenza. La classe operaia va in paradiso di Petri, oltre che aprire il decennio dei Settanta, riassumendo nella figura dell’operaio Lulù Massa le deformazioni del sistema tayloristico, è lo slogan di un cartello nel corteo degli operai dell’Alfa Romeo, che apre il libro di Lucas.
A passo lento nella realtà è un’autobiografia intellettuale, un grand récit scritto nel momento in cui le grandi narrazioni si sono dissolte. Ed è anche un racconto sulla fotografia di reportage. Si sta insieme per le strade, fuori dalle fabbriche, nelle piazze, gli studenti manifestano con gli operai, con le donne, con i ragazzi di leva in divisa. Per Lucas ogni fotografia è anche un’autobiografia. Cresciuto in una famiglia operaia, con un padre comunista, confinato e partigiano, fotografare significa decidere da che parte stare, per cosa lottare, a chi dare visibilità. Ma c’è un limite invalicabile: un reporter può raccontare il mondo attraverso i suoi occhi, non il contrario. Altrimenti diventa un artista.
E se Lucas, come Mario Dondero, Tano D’Amico, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, ritiene che la testimonianza sia un dovere, questo libro è il testimone che passa a ciascun lettore. Diceva William Eugen Smith: “Ogni volta che premo l’otturatore è un urlo di condanna, scagliato con la speranza che queste immagini possano sopravvivere negli anni, con la speranza che possano risuonare nel futuro come un’eco nella mente degli uomini, ed essere per loro avvertimento, memoria e conoscenza”.
In copertina, Uliano Lucas, Al bar Il posto delle fragole nell’ex ospedale psichiatrico, Trieste, 1988.