Francesco Pecoraro. La vita in tempo di pace

12 Novembre 2013

Di Ivo Brandani, sessantotto anni, ingegnere, protagonista della Vita in tempo di pace (Ponte Alle Grazie 2013) sapevamo già molto e da molto tempo: dalla raccolta di sette racconti Dove credi di andare (Mondadori 2007) e dai pezzi saggio-narrativi di Questa e altre preistorie (Le Lettere 2008). Due opere costruite con mezzi diversi e che tuttavia partono dagli stessi materiali potremmo dire avantestuali (scartafacci) pubblicati per molti anni da Francesco Pecoraro nel suo retrobottega, il blog personale.

 

La storia di Ivo Brandani si consuma nel tempo di una giornata, il 29 maggio 2015: siamo nel non-luogo dell'aeroporto di Sharm el-Sheik, ben lontano dalla Dublino di inizio Novecento; Brandani qui attende il compiersi del destino, salire sull'aereo che lo riporta in Italia. Il suo compito in Egitto è progettare una fittizia barriera corallina di Sharm el-Sheik che sostituisca quella vera, ormai morta.

 

 

La giornata è spezzata in inserti, catalogati ciascuno con un orario preciso; tra questi si incuneano sette nuclei narrativi di diversa lunghezza, sembrerebbero romanzi incompiuti. C'è un ordine preciso nella narrazione degli episodi, che risalgono fino all'infanzia. Il pensiero va alla Coscienza di Zeno, il cui tempo però era un “tempo malato”, il tempo dell'inconscio. Zeno immaginava una «catastrofe inaudita» provocata da un grande ordigno posto al centro della terra. Ivo Brandani parla spesso di «inaudito», ma qui l'ordigno è già esploso. Nel tempo di pace rimane la debole traccia della grande Buca di Bomba, che ricorda un'epoca in cui l'uomo attraverso la guerra arrivava a conoscere sé stesso; Ivo bambino inciampa e cade nella buca lasciata dalla bomba, disobbedendo “involontariamente” al divieto del padre: «tu non ci cadere dentro».

 

Il capitolo “Ponte e porta” mostra il motore da cui parte il romanzo: è il titolo di un intervento di Simmel raccolto nel suo volume Saggi di estetica, di cui già Pecoraro parlava in Questa e altre preistorie. L'attività di collegamento/separazione coincide con il pensare, dice Ivo: «non facciamo che smontare e rimontare continuamente finché non vi troviamo un senso» (p. 282). Questo pensiero lo coglie di fronte alla visione di un ponte durante un viaggio in Scozia: il Rail Bridge è la dimostrazione della sintesi degli opposti, «un dispositivo che definisce la soluzione di una tensione secolare» (p. 290).

 

Il ponte cambia il modo di pensare di Ivo, diventa la scommessa di poter costruire un mondo ordinato. Ma nel frattempo c'è il '68, cioè un'altra storia ancora, che Pecoraro racconta senza sconti sebbene con qualche tenerezza. Ivo partecipa ma si dissocia, cioè non partecipa mai veramente: è come sempre dimidiato.

 

Il mondo di Pecoraro è un mondo Piazza-Mazzini-centrico (lo racconta in “Forma urbis & forma mentis” delle Preistorie), cioè la sfida (impossibile) al labirinto: fuori dal quartiere romano in cui è nato non c'è vita ma caos, ossia abbandono di Rinascimento. Quella piazza, qui mai esplicitamente nominata, è il luogo dell'infanzia di Ivo, perduto con il passare degli anni, con la morte di Madre e di Padre, con la vendita della casa di famiglia e la conseguente perdita degli oggetti quotidiani di un tempo.

 

 

L'acqua è invece l'attaccamento alla vita, il mistero: in Dove credi di andare c'era il tentativo della fuga verso l'Idea del Mare («lasciare tutto per vivere al mare», l'isola greca); nelle Preistorie c'era l'intuizione dell'acqua come vita, la «Soluzione-Madre». In Ivo c'è uno struggente, potente e inaudito Senso del Mare, che è prima, inconsapevolmente, il senso delle estati della giovinezza, e poi il Senso ritrovato nell'isola greca. È sopra il mare, infine, sull'aereo che lo riporta in Italia, che si compie il destino: Ivo guarda dal finestrino e non riconosce più il suo Paese: «che città è quella? Quale regione stiamo sorvolando? Non dovremmo essere più bassi?». Così nel racconto “Happy Hour” (in Dove credi di andare): «Scusa, ma che città è questa? Perché ridi? Che città è questa?».

 

Ancora attraversando la raccolta del 2007 ritroviamo il racconto “Il match”, che rappresenta una prova stilistica e un raffinato lavoro sulla punteggiatura: è proprio lì che germoglia il cambio di persona, dalla prima alla seconda e dalla seconda alla terza, in un continuo cambio di fuoco. L'architettura della Vita in tempo di pace struttura e consolida questi slittamenti tra prima e terza persona; la seconda è ora monologo di Ivo, ora dialogo narratore-personaggio.

 

Andrea Cortellessa nella sua recensione non ha esagerato a ritrovare in Pecoraro tratti di Gadda, a partire dal Giornale di guerra e dalla Cognizione. Sarebbe allettante ricordare le gaddiane disarmonie prestabilite, la nevrosi (e la «fottuta casa di campagna di Longone»), ripensare alle continue e ossessive trasposizioni di inserti tra un'opera e l'altra, riutilizzi e abbandoni, e soprattutto andare a scavare nel Gadda milanese, ancora più del Pasticciaccio. Ma per parlare di Ivo bisogna avere «riguardo ai terzi», e quindi qui ci si ferma (stranamente, a proposito di parentele, nessuno ha ancora citato Fellini).

 

Infine ricorderemo nella maniera più delicata che questo libro sta parlando a un figlio, che già appare nel racconto “Uno bravo” (in Dove credi di andare), quando l'ingegnere Corrazzini decide di tatuarsi completamente la faccia; il figlio, artista, lo scopre solo più tardi, e quando incontra il Padre fa finta di non riconoscerlo e lo tratta come un estraneo. Ivo Brandani non ha figli, ma che lo voglia o no è come Corrazzini: sta cercando di farsi riconoscere dalla generazione successiva, nonostante la trasfigurazione che è passare del tempo, che è scelte e sbagli, ripensamenti. Il suo è il testamento individuale che è forse anche un testamento collettivo di una generazione in parte odiata, quella che ha lottato nel tempo di pace e la cui lotta alla fine si è ridotta per molti in una corsa al potere. Qualcuno c'è riuscito, a prendersi il potere, qualcuno no. Ivo stesso ce lo racconta, così come Pecoraro ce lo raccontava nelle pagine di “Sessant'anni di guerra” delle Preistorie, un altro, ennesimo passepartout per entrare nel romanzo: gli anni di pace sono stati in realtà anni di guerra contro tutti, «quella degli interessi individuali per l'accaparramento di potere e risorse» (p. 93).

 

La Pace della nostra generazione, e forse Pecoraro ne ha il sentore, non si sottrae all'odio sotterraneo nei confronti dei Padri. La storia si ripete, Ivo lo sa, e cerca di spiegarci, senza scuse, com'è potuto accadere lo scempio. Questo è un libro importante. I figli non dimentichino i Padri e ricostruiscano da queste altre macerie. Non ci avrete mai, dice Ivo. Certo. Non ancora.

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