Manganelli: immagini, oggetti e visioni
Giorgio Manganelli appartiene a quel genere di scrittori visionari la cui visione, tuttavia, non ha origine negli occhi, nell’apparato oculare, ma piuttosto nelle parole, nel linguaggio. È un tipo che in epoche antiche doveva essere abbastanza diffuso, se in India si chiamavano veggenti i poeti più arcaici. Per questo genere di visionario-poeta, non conta tanto l’oggetto che si vede, ma qualcosa di molto più complesso e inafferrabile: la visione, l’evento in cui le cose appaiono. È il linguaggio, infatti, che ci fa vedere, che ci fa entrare nella visione, che ci permette di rigenerare i dati sensibili che altrimenti ci lascerebbero in una sorta di inerme, muto stupore. Non basta vedere per vedere; la visione va masticata, assaporata, digerita, cotta nel proprio vocabolario, sminuzzata sintatticamente, in modo che possa farsi di nuovo improvvisamente visione, risplendere nella sua risorta natura fonica, grafica, verbale, non più inchiodata letteralmente alle cose visibili. L’ecfrasi, cioè, è la forma stessa della letteratura, la sua più elementare e originaria forma retorica. La visione è un fatto poetico.
Va da sé, allora, che Emigrazioni oniriche, come Andrea Cortellessa ha intitolato il recente volume da lui curato per Adelphi, sia un libro del tutto omogeneo agli altri dello stesso autore: è la descrizione di una serie di visioni che si danno attraverso la trasparenza della lingua manganelliana. Ma tali visioni – ecco la peculiarità di questo volume, che raccoglie gli scritti sulle arti – hanno origine dalla frizione della sua lingua con una serie di opere, di oggetti o detriti materiali, dunque con una materia molto più opaca e pesante della letteratura. La materia della visione, la materia onirica, è qui meno rarefatta di un’opera letteraria, e dunque in fin dei conti, forse, ancora più resistente ed enigmatica. Ciò che più attrae Manganelli, qui come altrove, è il carattere erratico degli oggetti che egli, di volta in volta, prende in esame; tale carattere erratico è dato dalla resistenza di ogni opera ad appartenere a qualcosa, che sia un genere, una cronologia, una società, e perfino un autore. Le opere sfuggono alla pervasiva rete culturale che pretende di ingabbiarle, di farne un vettore di verità antropologico e sociale.
Ma in questo libro di sconcertante ricchezza non sono presenti solamente scritti su opere d’arte, che siano di Hokusai o di Caravaggio, di Van Gogh o di Fontana, di Carol Rama o di Melotti; c’è, ovviamente, la letteratura (il volume si apre con una recensione di Arte e Anarchia di Wind, che doveva essere particolarmente congeniale a Manganelli); ma c’è anche il guardaroba di Gabriele d’Annunzio, gli specchi etruschi, gli ex voto carichi di melodrammi, o le emblematiche cifre cromatiche dello scudetto della A.S. Roma. Come anche in Salons, sono gli oggetti più svariati e impensabili, i fregi più nascosti, ad attirare l’attenzione di Manganelli. Mai, in nessun caso, Manganelli interpreta. Il suo non è mai, strettamente, un discorso critico: gliene mancano il rigore e le pretese. Né tantomeno gli interessa misurare i confini di uno spazio autonomo dell’arte o dell’estetica. Manganelli intende piuttosto sollecitare le ambiguità, contemplare le ombre e gli enigmi, anche di ciò che sembrerebbe chiarissimo e monodimensionale, univoco. È particolarmente gustoso, allora, sentire Manganelli parlare, ad esempio, di Giovanni Fattori, il più probo, affettuoso, forse il più desanctisiano dei pittori ottocenteschi, in cui viene ritrovata infine «una straordinaria luminosità disabitata, una pura pressione della luce» (p. 144). L’ombra di Fattori, la sua zona oscura, è la luce. La mort comme lumière è il titolo con cui questa raccolta – sempre a cura di Cortellessa – è apparsa in francese. La luce, in Manganelli, è quasi sempre una parodia dell’ombra, un’imitazione della notte.
È vero, Manganelli ha spesso confessato la propria invidia nei confronti della musica e dei musicisti, su cui si è diffuso lungamente. Questo discorso musicale, rotondo o aspro, che non ci confonde con messaggi o contenuti, ma che ci persuade attraverso una pura consistenza fonica, geometrica, non poteva non attrarre irresistibilmente Manganelli. Eppure la pittura, la scultura, le arti visive, non sembrano meno estranee alla sua immaginazione. Andrea Cortellessa, nel denso saggio che accompagna il libro, rende conto di questa presenza nell’opera di Manganelli, in particolare attraverso il tema del simulacro, del fantasma. Manganelli sembra irresistibilmente attratto dagli oggetti in quanto feticci, in quanto deposito di spiriti. Può essere un portacenere o un broccato o l’insegna di un’automobile – in ognuna di queste cose Manganelli intravede una resistenza a farsi segno, a partecipare felicemente alla semiosi sociale, e una insopprimibile, oscura tendenza a farsi emblema. L’emblema è il contrario del segno, della significazione – e questo è l’obiettivo di ogni opera, che sia letteraria, artistica o musicale. Manganelli abita, insomma, una regione preistorica, in cui non ha alcun senso chiedersi dei confini tra la letteratura e le arti, tra la musica e la poesia, quasi fossero regioni autonome e separate che bisogna mettere interdisciplinariamente in comunicazione. No: il carattere emblematico di ogni cosa consiste proprio in questa capacità di emigrare, di non appartenere più a niente e non significare nulla se non la propria apparenza. Manganelli parla di emigrazione onirica a proposito del carattere spaesante dei quadri di Van Gogh. Il luogo di Manganelli, la palude definitiva, è l’assoluta impossibilità di distinguere tra registri formali distinti, la patria in cui tutti siamo sempre emigrati. Qui tutto parla, ma nulla significa.
Una delle prestazioni più originali di Jung, fin dalla sua tesi di laurea sui «cosiddetti fenomeni occulti», è consistita nello strappare le visioni al linguaggio delirante degli psicotici, per riconoscervi, invece, la natura fondamentale della psiche di tutti. La casa è già sempre infestata. La sua tecnica – di solida fondazione alchemica – di imaginatio vera prevedeva che le immagini, una qualsiasi immagine della vita psichica, venisse accuratamente fecondata e messa in movimento, vitalizzata, in modo da rendersi parzialmente autonoma dall’io, nella costellazione psichica. Credo che Manganelli non potesse essere insensibile a questa operazione, e anzi, penso che un tale uso delle visioni gli fosse estremamente congeniale, non solo per il tramite di Ernst Bernhard. Il luogo delle visioni, degli spiriti, è il luogo della follia e del risanamento, della malattia e della cura. È qualcosa di simile a ciò che Warburg stesso – richiamato giustamente da Cortellessa – ha vissuto: il serpente può ammalarci e può guarirci. Il sospetto crescente, leggendo questo libro, è che ogni cosa possa essere serpente, simulacro e visione. Che non solo i manufatti artistici, dunque, ma semplicemente tutto ci possa donare, insieme, salvezza e perdizione.