Giulia Sissa e la rivoluzione dei generi
Le prime pagine di I generi e la storia. Femminile e maschile in rivoluzione di Giulia Sissa (Il Mulino 2024) stimolano un esercizio ermeneutico vecchio stile: l’indice delle parole chiave.
Un’abitudine da filologia all’antica, anche se ormai spogliata di quel manto di eroismo del tempo che fu, quando toccava leggere un testo più di una volta, possibilmente con il dito puntato a segnare il lemma, per non farsi sfuggire nulla di indispensabile.
Ora basta il “cerca & trova” e un pdf. Così, sottoponendo il libro di Giulia Sissa al “control F”, possiamo facilmente scoprire ben diciassette occorrenze della parola “felicità”, affiancata dalla sorella greca “eudaimonia” (due), il composto bello che ci ricorda come per essere felici sia indispensabile camminare in compagnia di un “daimon” amico. Fa la sua comparsa anche, per ben cinque volte, “eutopia”, risposta rivoluzionaria a chi, da Thomas More in avanti, insiste a ricordarci come la felicità sia una chimera che attecchisce solo su terreni immaginari. Troviamo poi “libertà”: sessantuno volte; facoltà: quaranta. La menzione della parola “diritto” supera le trecento occorrenze, perché Nel XX secolo, le svolte trasformative più importanti riguardano il diritto di avere diritti, nella felice formulazione di Hannah Arendt: un richiamo al celebre Le origini del totalitarismo (1951); per non parlare di “storia” e “gender” ed è naturale supporlo dato l’argomento del saggio.
Questo quindi è un libro ottimista, utopico, nella misura in cui è radicalmente eutopico. Nelle pagine che chiudono il libro Giulia Sissa afferma del resto che le utopie sono sempre state femministe. Ma il femminismo non è più un’utopia.
Subito, nell’attacco del prologo, agita un vessillo che andrebbe scritto a lettere cubitali su uno striscione en marche di qualche manifestazione per la rivendicazione e la tutela dei diritti di genere: Non abbiamo tempo per l’apocalisse. Il pessimismo non fa per noi. Non c’è tempo e, d’altro canto, se anche l’apocalisse ci venisse incontro o ci riuscisse per miracolo di scansarla, dobbiamo provocatoriamente ricordare quel che Gesù diceva ai Sadducei (Matteo 22, 23-30): nel regno dei Cieli non avremo sexual bodies di donne e uomini, ma saremo, al di là dello stigma anatomico, simili agli angeli del Cielo, notoriamente noncuranti della tensione binaria fra maschile e femminile, lontani anni luce da ogni forma di duale, così come lo è nelle intenzioni il saggio di Giulia Sissa.
Sempre dal prologo leggiamo che Questo è un saggio sul divenire e l’avvenire dei generi (…) Questa premessa ha creato le condizioni di possibilità per la riflessione storica e descrittiva su un oggetto, il genere, di cui molti contestano addirittura l’esistenza: una dichiarazione programmatica che si offre a molte sottolineature, alcune delle quali davvero indispensabili e consequenziali. Da un lato come l’autrice ribadisce a più riprese, situare nella storia la negoziazione dinamica del rapporto nient’affatto scontato fra sesso e genere impone di considerare la legge e il diritto come presidi della facoltà di autodeterminazione e di autorappresentazione, con un lavorio incessante anche sul piano teorico, come mostra l’ingaggio non occasionale di filosofi e di classicisti nel dibattito (Colorado 1986).
Gli antichi romani chiamavano le leggi “sante” e le ponevano a difesa di un corpo intangibile, caldo, dinamico, non necessariamente espresso: il “sacro” del mondo, che ha bisogno, per identificarsi, di essere presidiato. Le leggi, come emanazione dei diritti, non devono perciò servire – e questo è uno dei messaggi più forti del libro – a definire, stabilire, catalogare, imporre una via nuova a dispetto di vecchie abitudini legislative o etiche consunte: a cristallizzare insomma il negoziato inesausto fra la determinazione anatomica assegnataci alla nascita e l’identità di genere. Devono costituire quell’alveo eutopico che “dà facoltà”: facoltà di identificarsi, di esprimersi e di tornare a farlo in modo diverso nel tempo e nello spazio. Il genere, in questo quadro, è un termine descrittivo; dobbiamo, con Giulia Sissa, parlare di misure scalari, di configurazioni variabili. Siamo persone in divenire e, quand’anche non si palesasse in noi il desiderio di intervenire strutturalmente sul corpo anatomico, le infinite possibilità cosmetiche a nostra disposizione ci offrono e ci espongono alla libertà del cambiamento.
Nel primo capitolo, “Il genere: una genealogia”, il genere si innesta dove di fatto è sempre stato: un campo primario all’interno del quale, o attraverso il quale, si articola il potere; qui Sissa rimanda a Joan Wallach Scott e il suo Gender. A Useful Category of Historical Analysis (1999). Quest’intuizione è lì da sempre, come l’autrice non manca di ricordare: fin dalla Bibbia, siamo figlie trascurabili di un quarto poco nobile dell’uomo, peccatrici per e di natura, anche se a ben vedere, lo stesso testo veterotestamentario immagina una cauta apertura quando, in Genesi I, 27, afferma che Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina: non esiti di scarto della creazione quindi, ma immagini, a nostra volta, di Dio.
L’orizzonte teorico è complesso – non manca il richiamo fra gli altri ai contributi di Judith Butler e Michael Foucault, ma anche di Carla Lonzi, di Rosi Braidotti – e non meno complessa è la storia culturale e giuridica fatta di twists and turns che manifesta l’acutizzarsi della discordia secolare tra diritti e Legge naturale. Questa discordia non risparmia nessuno né a destra né a sinistra, né credenti né atei. La battaglia di emancipazione dalla legge naturale dura, letteralmente, da Adamo ed Eva; per noi, dal 1947, l’anno di promulgazione della Costituzione della Repubblica italiana, in cui la famiglia viene definita come una “società naturale fondata sul matrimonio” (articolo 29). Non basta frapporre anni come l’acqua: sulla scorta di vari e autorevoli interventi papali (in particolare Joseph Ratzinger e la sua dibattuta Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica del 2004), una declinazione contemporanea del femminismo, conservatore, ma non per questo trascurabile, rivendica il diritto delle donne a identificarsi come corpi per natura votati alla maternità: ciò che rende il corpo di una donna distintamente femminile non è una presentazione femminile, ma il potenziale di ospitalità biologica e di dono di sé (citando Lea Libresco Sargeant). Una prospettiva tutt’altro che marginale la quale, in fondo, fa piazza pulita del genere, per radicare l’identità di sé esclusivamente nel corpo anatomico. Giulia Sissa risponde che l’unica forma di libertà possibile, l’unica eutopia da ricercare è, al contrario, proprio la denaturalizzazione del dibattito e della prassi.
Si combatte sempre nella storia: le chimere dei non luoghi, del non tempo non appartengono all’autrice; studiosa raffinata del pensiero filosofico degli antichi e dei moderni, di Aristotele, di Platone, di Tommaso d’Aquino e degli illuministi, biografa di utopie, Giulia Sissa sa bene che la battaglia talvolta lascia sul campo morti e feriti, persino se “amici”. Serve quindi, anche, liberarsi dagli antichi: riconoscere con onestà intellettuale che non siamo e non saremo più i Greci del tempi di Aristotele e neppure i discepoli del “Doctor Angelicus”, come veniva chiamato Tommaso d’Aquino.
Siamo figlie delle ragazze di piazza Esedra del 4 dicembre 1976, figlie del grido “riprendiamoci la notte” e di tutto quel che ne consegue: Aristotele può smettere di interrogarci.
Da ultimo, l’intellettuale che ha curato già agli inizi degli anni Ottanta Madre materia (con Silvia Campese e Paola Manuli, 1983), sulla semantica patriarcale del corpo nell’antichità, che ha scritto un lavoro seminale sul corpo virginale (tr. it. La verginità in Grecia, 1992), che ha continuato a interrogarsi sul corpo femminile, nel dibattito filosofico e nelle fonti antiche, questa Giulia, femminista, non combatte per il genere a discapito della centralità del corpo, a cui ha dedicato un segmento importante della sua biografia scientifica: si parte dal corpo e ci stacchiamo dall’anatomia ma non ci allontaniamo dal corpo, sono premesse e approdi indispensabili anche di questo saggio.
Giulia Sissa non sa se una forma anatomica come sinora l’abbiamo conosciuta sopravvivrà: Non so se i nostri discendenti saranno cyborgs (e qui il riferimento sicuro è a Donna Haraway e alla sua rivoluzione cyborg). Ugualmente medito sulle sorprese del presente, scrive nelle sue pagine conclusive.