Giulio Paolini. Quando è il presente?
Agli occhi delle nuove generazioni è indubbio che l’Arte Povera abbia risentito di una certa ricorsività. Si è avuta l’impressione che, in più di un autore, le idee poetiche principali siano state messe in campo nel primo ventennio – fino al 1980 o al 1985, diciamo – per poi lasciare spazio a una serie di variazioni sul tema. Ora, non discuterò qui sulla correttezza o l’ingenerosità di un simile giudizio, ma sulla sua inapplicabilità al caso specifico di Giulio Paolini. Per quella che è stata la sua poetica, il suo tentativo di fondare un metalinguaggio artistico, la ripetizione, il ricorso, come ingiunzione a rivedere quanto statuito, come istanza alla circolarità, sono infatti costitutivi della sua opera.
Per spiegare lo Strutturalismo, una volta Roland Barthes ricorse a un argomento che potremmo prestare a Paolini: “Lo Strutturalismo è anch’esso una certa forma del mondo, che cambierà col mondo; e come mette alla prova la propria validità (non già la sua verità) riuscendo a parlare i vecchi linguaggi del mondo in una maniera nuova, così sa che, non appena dalla storia sorgerà un nuovo linguaggio che a sua volta lo parli, il suo compito sarà terminato”. Di questo brano, che descrive l’istituirsi di ciò che chiamiamo un “metalinguaggio”, un linguaggio in grado di parlare degli altri linguaggi, non mi colpisce tanto la lucidità metodologica quanto la vertigine che è capace di descrivere: uno spostamento all’infuori continuo, per il quale avviene un decentramento e un ricentramento allo stesso tempo. Ogni volta un nuovo linguaggio deve sorgere di pari passo con la sua capacità di “contenere” i precedenti linguaggi, di risemantizzarli e renderli repertorio a disposizione dei propri segni. Ogni volta, dunque, il nuovo linguaggio sorge muovendosi all’esterno e riuscendo a osservare in una forma sempre più distanziata – con una cognizione che è spiralica e crescente – i linguaggi che l’hanno preceduto. È ovvio allora che un simile movimento tenda ad essere panoramico, ad allargare lo sguardo man mano che si allontana dal proprio oggetto, e che, nella continua sensazione di alienarsi, di uscire ogni volta da sé stesso per ricomprendersi, cerchi un appiglio – se non una compensazione – nel reperire un nuovo centro, un nuovo punto di orientamento, per quanto provvisorio.
Di questa vertigine metalinguistica, mi interessano due aspetti (il tipo di evoluzione che genera e l’ansia che questo stesso movimento possa arrestarsi), poiché sono proprio quelli che ritrovo nella personale di Giulio Paolini presso il Museo Novecento di Firenze: aspetti non certo trascurati dalla bibliografia sull’artista, ma che ora rivelano le loro implicazioni esistenziali e psicanalitiche – inaspettatamente, verrebbe da dire per un artista come Paolini, che si è sempre rispecchiato nella posizione di Italo Calvino contro i cedevoli biografismi e l’egolalia dell’arte.
Anzitutto, la mostra è stata accompagnata da un convegno, dove, tra i vari interventi di critici e storici dell’arte, si è compreso che un ancoraggio, un centro, Paolini se l’è assicurato deliberatamente, proprio come atto fondativo: quel Disegno geometrico del 1960 (noto come la “squadratura” del foglio) che l’artista pone ad origine di tutto il suo catalogo di opere; quelle linee che servono a tracciare il perimetro della cornice e che – come ha giustamente chiarito Fabio Belloni – nel Disegno di Paolini la fanno coincidere con il bordo della tela, in una mise en abyme dell’opera stessa. Più che fornire un’immagine prima, la superficie potenziale su cui potranno apparire infinite immagini, Disegno geometrico ci appare oggi come una sorta di totem: garantisce le genealogie, rende possibili le differenze, si offre come un presagio. A Disegno geometrico si torna con costanza, ogniqualvolta la vertigine dell’opera, nel tematizzare sé stessa (o le altre), provochi smarrimento.
C’è un’opera di grande formato, in mostra, intitolata Caduta libera (suicida felice), (2018-2019), che è un po’ l’emblema di questa vertigine. Nella scheda di Bettina Della Casa e Maddalena Disch in catalogo si spiega che si tratta di “un acrobata a testa in giù, accompagnato da alcuni disegni in caduta libera”, il quale “sembra trovare il suo punto di equilibrio nell’incrocio delle diagonali” che richiamano, a loro volta, Disegno geometrico. Nel momento della perdita di equilibrio, che scompagina fogli e opere, l’alter ego dell’artista compie il prodigio e fa perno sulla sua opera prima, che resta lì, inesauribile, a garantire il prosieguo della sua ricerca e la possibilità di allargare il gioco con altri metalinguaggi. Disegno geometrico diviene un esorcismo, compiuto in nome della sua potenzialità e inesauribilità, che consente al linguaggio di non concludersi, di restare sospeso in attesa della prossima mossa.
Meglio: Disegno geometrico è la paradossale sintesi tra l’opera perennemente incompiuta e quella che racchiude definitivamente sé stessa (il suo manifestarsi come delimitazione, la trasparenza dei propri elementi costitutivi e delle proprie regole di funzionamento). In sostanza, è il gioco del metalinguaggio che ho descritto: allargare indefinitamente e, allo stesso tempo, includere definitivamente. Caduta libera, però, è anche l’espressione di un’angoscia – mi sembra di poter dire – circa il fatto che questo gioco possa esaurirsi, interrompersi. Come ha affermato Saretto Cincinelli nel suo illuminante intervento al convegno, l’opera è come se fosse lasciata incompiuta per non “mortificarla” con la sua compiutezza, ripristinandone ogni volta la sua potenzialità insidiata attraverso il rimando di altre opere che la riprendano incessantemente.
Affinché tutto ciò avvenga e il gioco si perpetui, è necessaria però una condizione, ossia che l’opera trascenda il suo autore e, cioè, che l’autore non possa porre fine a questa trama di rimandi con la sua biografia, con la sua caducità. Da qui – credo – nasce la sobria avversione che Paolini ha sempre dimostrato nei confronti di un’arte autobiografica, compromessa con l’Io in un senso contingente, bio-psichico ed espressionista. Ciò non gli ha impedito negli anni di trattare frequentemente la figura dell’artista nella sua opera, ma inscenandola come una finzione retorica e una costruzione anzitutto storica, priva cioè di quei tratti soggettivi romantici che ancora oggi, per molti, la informerebbero.
La critica dell’autorialità, che Paolini ha condiviso con Calvino, non proviene dunque da quel ceppo post-strutturalista che fa capo a Roland Barthes e Michel Foucault; non è una critica che deriva dalla consapevolezza della mediazione e dell’interpolazione dei tanti artefici a cui è soggetta l’opera; né dalla crisi novecentesca dell’unità dell’individuo e della sua intenzionalità. Non rimonta nemmeno a quella profonda faglia anti-surrealista (o più largamente anti-freudiana) che ha attraversato una parte della cultura italiana novecentesca. È piuttosto un dubbio insolvibile circa la legittimità di proporsi come soggetto autodeterminato e speciale, irripetibile e singolare in quanto artista, davanti al dispiegarsi della storia: è in sostanza un dubbio borgesiano che vede l’autore prima di tutto come uno spettatore dell’opera, ossia dell’unica traccia concreta veramente disponibile alla posterità.
Sono, per questo, davvero numerosi i luoghi, nella produzione di Paolini, in cui l’artista è di fatto il portatore dell’opera, colui che la porge, che la indica all’osservatore. Al punto tale che, ormai, può anche essere sostituito da un cavalletto, allestito in sala o in quel tempio di raccoglimento che è il convento di San Marco con gli affreschi del Beato Angelico. In una delle celle dell’Angelico, l’artista ha installato, per la mostra fiorentina, un cavalletto con un collage che sovrappone – ci spiega Lucia Corrain in un accurato intervento del convegno – alcune delle funzioni antonomastiche dell’artista: il tramandare, la deissi, il distanziamento partecipe.
Noli me tangere (2022), infatti, è il titolo dell’opera preso a prestito dall’affresco del Beato Angelico che ha dinanzi: calzante se si pensa a un ruolo autoriale che non crede più nel tocco demiurgico. Dunque, la capacità di distanziarsi rimbalza dall’essere condizione del metalinguaggio a diventare virtù dell’autore. Anzi – questa è forse l’atmosfera che traspare di più dai testi in catalogo e dalla mostra fiorentina – l’artista deve sapersi defilare al momento giusto per lasciare spazio al tramandarsi dell’opera. L’autore, cioè, è come la “squadratura” del foglio, ci avvisa – direbbe Calvino – che nella “finzione si sta entrando”. La sua sparizione, quindi, non deve intaccare l’opera, lasciandola disponibile al libero gioco dei metalinguaggi, ossia alla speranza che non sopravvenga l’afasia e l’oblio.
Di quest’ultima ansia si fa in questa mostra ammissione ed esorcismo. Lo si osserva in quel circospetto congedo che è L’artista ringrazia (2022): un collage in cui l’artista ringrazia il pubblico nascondendosi il volto, cioè quell’identità che lo rende individuo unico, con un mazzo di fiori. La tentazione di paragonare questa immagine al pupazzo di cera che Maurizio Cattelan ha installato al Cimitero monumentale di Milano negli stessi mesi è troppo forte: lì, Cattelan propone il suo corpo impiccato, con in mano un funereo mazzo di fiori; qui, Paolini officia la cerimonia in cui l’autore, quasi nei panni di un impacciato spasimante, non vuole mostrarsi nemmeno quando giunge finalmente il momento, sul palcoscenico, di ricevere il riconoscimento del suo pubblico.
Due autoritratti di due artisti che, ciascuno a suo modo, hanno sempre aumentato la posta del loro gioco: Paolini come ho già detto; Cattelan cavalcando ogni volta le leggi della comunicazione mediatica. Sono allora due modi completamente diversi di muovere i “primi passi nell’ultima stagione” (come recita il titolo di un’opera paoliniana): Cattelan con uno scherzo apotropaico; Paolini con un malinconico auspicio. Al primo tocca ammettere il logorio della vena ispiratrice, nell’epoca dell’economia dell’attenzione e del “pur che se ne parli”. Al secondo, invece, sperare nella fertilità dell’opera e che, dunque, qualcun’altra la parli.
La mostra Giulio Paolini. Quando è il presente?, a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti, è in corso fino al 7 settembre 2022 nelle due sedi del Museo del Novecento e del Museo di San Marco, a Firenze.
L'artista ringrazia, 2022, Foto Vianello, Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino.