Grecia per tutti

17 Febbraio 2014

Una volta un mio amico si ritrovò sul conto sessanta miliardi, e andò a restituirli. O meglio: fece presente l’errore alla banca, visto che quei soldi in verità non esistevano, erano un bug del sistema, evidentemente. Nella vulgata mediatica però il gesto fu considerato eroico e il mio amico intervistato dai tigì. A un giornalista che gli chiedeva se non avesse pensato di tenerli, invece, e di farne qualcosa, ribadì serenamente di no, e solo dietro molte insistenze arrivò a confessare che ove mai avesse voluto tenerli, il primo pensiero sarebbe andato ai suoi affetti: «Grecia per tutti», così disse il mio amico ai tigì.

 

In Grecia io non ci sono mai stata, a dispetto dei miei studi liceali classici, del primo viaggio di mia madre ragazza, di cui mi mostrava nostalgica le foto nelle notti di insonnia comune, e dell’esordio universitario con l’esame di Drammaturgia antica. Sono stata a Siracusa, al Festival tragico, ma in Grecia no. Ci voglio andare, prima o poi: e ci andrò quando nel mio conto agonizzante transiterà il prossimo stipendio, possibilmente non per un bug, che comunque, allo stato dei fatti, dubito segnalerei. «Come, non hai uno stipendio? E di che campi?» Quando me lo chiedono, mi vien da pensare alla scena cult di quel film di Moretti in cui la giovane fricchettona all’analoga interrogazione accorata dell’autor actor gli risponde coll’ormai formulare: «Faccio cose, conosco». E all’incalzare di lui («Sì, ma questa sigaretta, questo maglione, come te li compri?») ripropone serafica il suo refrain petulante. Conosce, fa cose, lei: e più non dimandare.  

 

Conosco anch’io, ma di cose, attualmente, ne faccio sempre meno. Sono, anzi, un paio d’anni che sto letteralmente congelata: nemmeno giro più di tanto e vedo tutta sta gente, a dirla con sincerità. «E che cosa ti è capitato?» Non lo saprei ricostruire nel dettaglio, ex post. Un cambiamento radicale, certamente: scrivevo sui giornali, prima gratis ma con grande costanza, poi addirittura pagata (e però più sporadicamente, come mi pareva inevitabile: gli inizi, la gavetta e bla bla bla), avevo dei contratti, pur precari ma continuativamente rinnovati, collaborazioni editoriali attive, scrivevo poesie e romanzi (con cui notoriamente non si campa, se non a condizione di entrare in commercio carnale col mercato - che poi, attualmente, quale mercato? etc).

 

Poi, all’improvviso, più nulla, o meglio un rallentamento che non ha fatto propriamente seguito a un rovescio di fortuna, ma è stato solo un impercettibile scivolare nella condizione diversa, direi opposta, in cui mi trovo: il telefono cessa di squillare à tout à l'heure, gli editori, i direttori di giornale, non t’inseguono più come prima. All’improvviso, senza una ragione. Non smetti per questo di avere energie da spendere, e chiami tu, qualche volta, se ne hai il coraggio.

 

O ti segnali in qualche modo trasversale, ma niente. Nessuno sembra più aver bisogno delle tue competenze. E poi c’è la solita solfa che sei troppo qualificata per certi ruoli e inadatta a ricoprirne altri («tu che vieni dall’accademia/ tu che scrivi sui giornali»: con lo stesso malcelato disprezzo, negli opposti contesti). «E gli amici, gli amici dove sono (vedo gente, conosco)»? Gli amici sì, ti chiamano, t’invitano a cena (ma con quali soldi te la paghi?), ti chiedono di uscire (faccio cose). Poi ti parlano dei loro drammi (tutti stipendiati statali, ovviamente, con altri e vari  lavoretti di contorno), delle loro angosce esistenziali, del cambio di fidanzata, magari del mutuo. E quando arriva il tuo momento, uh come s’è fatto tardi, e tante cose care.

 

Eppure non riesco ad angosciarmi. Non riesco a sentire su di me il peso dell’inedia, della vita materiale ridimensionata rispetto alle origini familiari, il pungolo dell’urgenza di un cambiamento radicale. Sì, c’è un tenore di vita che si abbassa, dal parrucchiere trendy non ci vado più due volte al mese, ma un paio all’anno. Tanto più che nel frattempo hanno aperto i cinesi, dove una piega costa otto/dieci euro (dlitti? con piastla?). Così i vestiti nuovi (magari pure senza aspettare i saldi, che poi finiscono le taglie), il cinema, il teatro. Resto una donna colta e vanitosa.  E spesso ho fame. Ho fame di cose buone, di cibi biologici, di cioccolato sopraffino. Non mastico (almeno per ora) la tasca scucita dalla giacca o il ciottolo raccattato per strada, come il protagonista di Hamsun.

 

Non so perché, ma vivo di questa incrollabile convinzione: che prima o dopo qualcosa debba cambiare. «Anche a ***», mi dice la moglie di un celebre poeta, «capitò un periodo di inattività, ma non modificò in nulla il suo tenore di vita». Sono passati ormai tre anni da quando ho avuto il mio ultimo contratto, un anno e mezzo da quando ho pubblicato l’ultimo pezzo pagato. La famiglia, preoccupatissima, periodicamente si riaffaccia: «Ma i tuoi contatti, gli editori, l’università?» «Eh, c’è da aspettare, zia cara, è un momentaccio». E poi l’umiliante, immancabile: «Comunque se ti servono dei soldi…». Mentre mi arrovello (moderatamente) su cosa fare, continuano peraltro a invitarmi (forse più di prima, e me ne spiego anche torvamente la ragione) a convegni, festival, presentazioni: la premessa è sempre che si tratta di ospitate NATURALMENTE a budget ridotto, o nullo, dunque grasso che cola se c’è il rimborso spese, ma di gettone di presenza, più, manco a parlarne.

 

Quel mio amico che restituì i miliardi era versato, mi ricordo, in particolare negli studi filologici, e però dopo la laurea in lettere, saggiamente, si buttò sull’informatica. È attualmente, come apprendo dal web, un esperto di linguaggi mediali, lo sento parlare nel gergo specialistico con una certa saudade di quando nei corridoi di lettere ci scambiavamo gli appunti di Storia della lingua e mi spiegava la metafonesi o la grammatica storica sui versi di Dante. Ai tempi della battuta sulla Grecia, tra l’altro, si trattava ancora di un posto dove fare le vacanze, non ancora del simbolo della crisi economica o lo spauracchio della rovina («di qui a pochi anni, finiti i patrimoni delle grandi famiglie, potremmo ritrovarci nelle condizioni della Grecia», dicono alla tivù).

 

Hamsun dice invece che la povertà è una specola privilegiata e che affina l’intelligenza: di sicuro al suo protagonista non difettano l’orgoglio e la fortuna. Lui, quei soldi non suoi, senz’altro li avrebbe restituiti (o sperperati, per non sentirsi in colpa: «Grecia per tutti»). Difatti poi finisce a navigare: come l’amico dei sessanta miliardi, effettivamente.

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