Higgs, l'uomo del bosone
Cosa ne sarebbe del nostro universo se in un esercizio di immaginazione ipotizzassimo di rimuovervi tutto il contenuto di materia e le forze che lo animano? A dispetto di quella che viene salutata come una delle più significative eredità della fisica relativistica, ovvero l’idea secondo cui la radiazione elettromagnetica non avrebbe bisogno di alcun supporto (a suo tempo denominato “etere”) per potersi propagare nello spazio e nel tempo, un’ardita proposta del 1964 suggeriva che un tale defraudato universo sarebbe comunque “pieno” di una peculiarissima entità, poi nominata – per una serie di vicissitudini qui non ricostruibili – campo di Higgs. Proposta al tempo senz’altro ardita, come attesta il fatto che una delle sue prime applicazioni – quella in cui si ipotizzava la possibile esistenza di una particella legata a tale campo – ricevette una risoluta bocciatura da parte della prestigiosa rivista Physics Letter per via della sua scarsa disponibilità a una possibile validazione empirica. O ancora, come certifica la più prosaica ma non meno iconica memoria di Stephen Hawking secondo cui egli avrebbe scommesso cento dollari con il fisico statunitense Gordon Kane sul fatto che tale particella non sarebbe mai stata trovata. Eppure, a quasi cinquant’anni di distanza dalla sua prima formulazione – e, va da sé, il dispiego di enormi investimenti e il lavoro congiunto di innumerevoli esperti di varia estrazione presso il Large Hadron Collider (LHC) di Ginevra – l’ipotesi dell’esistenza della cosiddetta “particella di Dio” è stata confermata, con tanto di standing ovation, in un attesissimo seminario il 4 luglio 2012 di fronte allo sguardo, attento e a tratti commosso, del suo padre più celebre: “È molto bello avere ragione, a volte” – dirà Peter Higgs qualche giorno dopo in conferenza stampa.
Nella ricostruzione della fisica Novecentesca si tende in genere a porre l’enfasi su quelli che sono considerati i due punti di svolta più eclatanti nella storia del pensiero scientifico contemporaneo: da un lato, la formulazione della fisica relativistica – speciale prima nel 1905, generale poi nel 1915 – aveva completamente alterato la prospettiva circa la natura dello spazio e del tempo; dall’altro, la progressiva messa a punto della meccanica quantistica aveva richiesto un radicale ripensamento delle nozioni di particella, traiettoria, determinismo e causalità. Se tutto questo è senz’altro vero, tale sottolineatura rischia tuttavia di adombrare quel brulichio niente affatto trascurabile di idee, proposte, ed esperimenti che a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale avrebbe condotto, nel volgere di qualche decennio, alla formulazione del cosiddetto modello standard – il modello che a tutt’oggi descrive al meglio le interazioni su scala microscopica a partire da una nomenclatura tra particelle che compongono la materia (come gli elettroni) e particelle che mediano le forze (come i fotoni). Ed è proprio nella felice congiuntura di sforzo immaginativo e risorse materiali messe a disposizione per la realizzazione del Conseil européen pour la recherche nucléaire (CERN) e altri centri di ricerca internazionali che si situa l’operato di un nutrito gruppo di fisici cui l’elaborazione di un tanto raffinato modello deve la sua genesi.
Quando Peter Higgs, scomparso lo scorso 8 aprile a quasi 95 anni (era nato il 29 maggio del 1929 a Newcastle upon Tyne), nell’autunno del 1947 iniziò i suoi studi di fisica presso il King’s College, si andava sviluppando un nuovo e promettente campo di ricerca, quello della fisica delle alte energie. Il suo compito è studiare i costituenti della materia (le cosiddette “particelle elementari”) e la loro interazione attraverso opportune macchine acceleratrici che sfruttano il principio einsteiniano di equivalenza massa-energia (“ ”) per produrre e analizzare particelle via via più massive. Fino agli anni Sessanta del Novecento era opinione diffusa che a comporre la materia provvedessero tre sole particelle: gli elettroni, i protoni, e i neutroni. I rilevamenti degli acceleratori sviluppati negli anni Cinquanta avevano tuttavia smentito tale convincimento, mostrando l’esistenza di altre tipologie di particelle dette subatomiche, ovvero definite su scale inferiori a quelle proprie di neutroni e protoni, a partire dallo studio sui raggi cosmici.
Sotto il profilo teorico, al tempo i fisici disponevano di una convincente teoria delle interazioni elettromagnetiche e di un modello descrittivo per l’interazione nucleare debole – quella, tra le altre cose, responsabile di molti decadimenti radioattivi e delle reazioni che avvengono all’interno delle stelle. L’ambizione era quella di poter fornire una descrizione più coerente e unificata delle due interazioni, ma tale progetto sembrava imporre una massa nulla alle particelle, a dispetto dei valori effettivamente misurati negli acceleratori. La proposta, radicale e visionaria, sviluppata secondo linee indipendenti e contributi difformi dalla “Gang of Six” (oltre a Higgs, Robert Brout, François Englert, Gerald Guralnik, Carl Richard Hagen, e Tom Kibble), immaginava che le particelle veicolanti l’interazione nucleare debole (così come tutte le particelle di materia) non fossero di per sé dotate di massa, ma che la acquisissero a seguito dell’interazione con un campo del tutto peculiare, diffuso nello spazio e nel tempo: il campo di Higgs. Tale processo venne poi battezzato meccanismo BEH in omaggio a Brout, Englert e Higgs.
La congettura si legava a un’ipotesi al tempo molto controversa circa la natura dell’universo. In quegli anni la cosmologia – la branca della fisica che ha il compito di studiare l’origine e l’evoluzione dell’universo – era attraversata da accesi contrasti, che si possono sinteticamente condensare nella conflittualità tra due principali scenari: da un lato l’immagine di un universo stazionario, che esiste da sempre e in cui la materia viene continuamente creata e distrutta; dall’altro l’idea di un universo che avrebbe avuto origine in un evento primordiale – in un “grande scoppio” (big bang) secondo la provocatoria locuzione coniata nel 1949 dal fisico inglese Fred Hoyle, che riteneva detta ipotesi assai improbabile – attraverso un processo evolutivo strutturato in più fasi. Se grazie all’ampio numero di dati raccolti su scala astronomica, oggi questa seconda prospettiva ha ottenuto il vasto consenso della comunità scientifica – tanto da essere codificata nel cosiddetto “modello cosmologico standard” – quando il meccanismo BEH venne proposto la conflittualità era tutt’altro che superata.
Nell’ipotesi dei suoi fautori, le particelle avrebbero interagito con il campo di Higgs solamente a partire da secondi dopo il big bang, venendo così a segnare un prima e un poi: fino al momento dell’interazione con il campo di Higgs, quando l’universo era estremamente caldo e confinato, tali particelle sarebbero risultate prive di massa; nella successiva fase di espansione e raffreddamento dell’universo, esse avrebbero quindi interagito con il campo, così acquisendo la loro massa caratteristica – là dove esisterebbe un rapporto di proporzionalità tra il valore di tale massa e la forza di accoppiamento con il campo di Higgs.
Ma come si arriva dal meccanismo BEH all’esistenza di una particella denominata bosone di Higgs? Anzitutto, un chiarimento sulla terminologia. Le particelle atomiche – quelle che compongono gli oggetti della nostra quotidianità e così i pianeti e le stelle delle varie galassie dell’universo – sono distinte in due tipologie, i fermioni e i bosoni, in base al tipo di statistica che tali particelle seguono. La classificazione rende omaggio ai due fisici, Enrico Fermi e Satyendra Bose, che furono tra i primi a studiare il comportamento collettivo di queste particelle. I fermioni rappresentano i costituenti di base della materia, come gli elettroni e i quarks, e manifestano una peculiare proprietà che impedisce loro la convivenza in uno stesso stato (come prescrive il noto principio di esclusione di Pauli). I bosoni hanno invece il compito di mediare le forze cosiddette fondamentali (elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole, gravitazionale) e possono viceversa convivere in uno stesso stato. In ragione di questa caratteristica, i bosoni possono incorrere, sotto opportune condizioni, in particolari transizioni di fase – trasformazioni da uno stato di aggregazione a un altro, come quella assai familiare del passaggio dallo stato solido allo stato liquido di un cubetto di ghiaccio esposto ai raggi solari. L’idea è che il meccanismo BEH possa attribuire massa alle particelle attraverso una di queste transizioni, veicolate proprio dal campo di Higgs.
L’idea che conduce all’ipotesi del bosone segue dunque da un’analogia. Si pensi al caso del campo elettromagnetico. Sappiamo che l’ago di una bussola punta verso il polo nord poiché avverte la presenza del campo magnetico terrestre. Se a tale campo si fornisce dell’energia – ad esempio sotto forma di calore – si ha che risulta possibile produrre un’onda elettromagnetica, ovvero un fascio di fotoni con una certa lunghezza d’onda. Allo stesso modo, supponendo che il campo di Higgs sia distribuito nello spazio, se si fornisce energia a tale campo si ha che risulta possibile stimolare la produzione di un bosone. L’immagine, tipica della fisica dei campi, è allora quella di una struttura liscia (il campo di Higgs) che, se stimolata, produce delle increspature (il bosone di Higgs).
Se l’ipotesi del campo di Higgs verrà successivamente incorporata, grazie agli sforzi congiunti di fisici del calibro di Steven Weinberg e Frank Wilczek, nel modello standard, il bosone di Higgs figura di fatto nell’araldica della fisica delle particelle come la particella più ricercata di tutti i tempi. A rendere l’impresa particolarmente ostica era la notevole massa del bosone – oggi stimata pari a quella di un atomo di ferro – la cui creazione negli acceleratori di particelle richiede una concentrazione elevatissima di energia. Sarà proprio Wilczek a suggerire, nel 1977, uno stratagemma per sfruttare le proprietà quantistiche della materia al fine di osservare il bosone. La strumentazione tecnica, tuttavia, non era ancora pronta.
Dovranno passare più di trent’anni perché l’energia di azione dell’LHC venga portata a valori utili per riuscire nello scopo. Non stupisce allora se, a quel seminario congiunto tra ATLAS e CMS del 4 luglio 2012, solo chi era disponibile a una provante attesa notturna riuscì a garantirsi un posto a sedere in sala. E questo non solo per presenziare al raggiungimento di un obiettivo tanto anelato, ma per gustarsi il privilegio unico di assistervi accanto a chi, quasi mezzo secolo prima, aveva scommesso su un’ipotesi tanto ardita: François Englert e Peter Higgs. Dopo tanto lunga attesa, e il battage che ha fatto seguito all’agognata manifestazione di vita, non si può che condividere, e con ammirazione, il gesto di Higgs, che durante l’assegnazione del premio Nobel, nell’ottobre del 2013, si recò in bus a Leith, lontano dal frastuono mediatico, a gustare del pesce in tutta tranquillità sulla riva del Firth of Forth.