Speciale
Mirandola, 7/10 Giugno 2018 / Nella nebbia e nel sonno: Celati e Ghirri
Quest’anno dal 7 al 10 giugno l’appuntamento è con la seconda edizione del Memoria Festival, promosso dal Consorzio per il Festival della Memoria in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Nei prossimi giorni pubblicheremo alcuni scritti di approfondimento sui temi di cui si discuterà durante il Festival, in compagnia di numerosi protagonisti italiani della cultura, del pensiero e dello spettacolo.
Marco Belpoliti sarà al Festival oggi 9 giugno alle 21.30 (Cortile della Memoria).
Che cos’è la nebbia? Nient’altro che vapore acqueo. Sale dal terreno o dagli specchi d’acqua. Il suo primo effetto è ridurre la trasparenza dell’aria e la visibilità. Nella nostra lingua ci sono almeno tre termini con cui indicarla: bruma, foschia, caligine. La nebbia, dicono gli studiosi, non è altro che la sospensione nell’aria di minuscole goccioline che si formano per condensazione del vapore acqueo intorno a nuclei di pulviscolo atmosferico; la foschia indica l’aspetto grigiastro che assume. La caligine rende manifesto la presenza nell’aria di particelle che compongono lo smog e la polvere, le quali conferiscono alla nebbia un aspetto opalescente. Lo smog, a sua volta, è una mescolanza di nebbia, fumo e residui finissimi delle combustioni di fabbriche e automobili.
La nebbia non è però solo un fenomeno naturale, o innaturale, quando è effetto dell’inquinamento, che si manifesta in molti luoghi del mondo e in climi molto diversi. La nebbia assume infatti anche un valore simbolico, è una metafora o meglio un’allegoria di stati della nostra mente.
Nella nebbia e nel sonno
C’è un racconto di Gianni Celati che s’intitola Nella nebbia e nel sonno, pubblicato in Cinema naturale (Feltrinelli), un libro del 2001. La voce narrante dichiara di possedere dei nastri registrati da un amico morto che continua ad ascoltare. In questi nastri c’è una voce femminile che racconta. Si chiama Alida e abitava al piano di sotto dell’appartamento dell’amico morto; era la compagna di un picchiatore politico di nome Romeo. Probabilmente la vicenda si svolge, almeno inizialmente, nel corso degli anni Settanta del secolo scorso.
La storia ha un andamento misterioso. Questa donna molto bella andava spesso dall’amico del narratore per raccontargli la sua vita. E lui, essendo preso da lei, la stava ad ascoltare per ore. Con il passare degli anni Alida finisce per sposare il picchiatore politico, che smette di fare questo mestiere per diventare un venditore; lei a sua volta apre una palestra con alcune amiche. Romeo la tradisce continuamente e le dedica poca attenzione. Alida si separa e si mette con un altro uomo dall’aspetto grigio, un ricercatore universitario chiamato Nucci.
Veniamo a sapere dettagli della sua vita in modo sommario, attraverso quanto ci dice il narratore, che ascolta i nastri. Apprendiamo che Alida continua a recarsi dall’uomo per anni e a parlargli di quanto le passa per la testa. I due hanno poi preso l’abitudine di dormire insieme, e l’amico cade spesso preda del sonno mentre lei continua a parlargli. Poi l’uomo cambia città per via del suo lavoro, ma ogni volta che torna nel suo appartamento, lei lo va trovare e continua a parlargli. Cambia anche continente, eppure lei riesce a trovare il suo numero di telefono e nel mezzo della notte lo chiama, così che l’amico prende l’abitudine di registrare i suoi monologhi. Si va avanti così per altro tempo, anche dopo che l’amico s’è sposato; la moglie è gelosa per via di queste telefonate notturne. Mentre Alida parla, lui cade addormentato, tuttavia ciò non arresta i racconti di lei.
Cosa c’entra la nebbia? Alida, ci dice il narratore, è come avvolta dalla nebbia, uno stato mentale, prima di tutto, una forma di smarrimento, per cui “quello che le succedeva di giorno aveva l’aria di un sogno di notte”. Anche nei suoi sogni c’è la nebbia. Ogni notte Alida sognava di perdersi per corridoi pieni di nebbia. Questa “veniva giù come una polvere biancastra che bloccava tutte le uscite”. Ad alimentare questa condizione nebbiosa, sono le fotocopie che possiede il nuovo uomo di Alida, Nucci. La casa sembra riempirsi di polvere a causa delle fotocopie con cui Nucci pensa di far carriera accademica.
Nell’appartamento in cui Alida e Nucci vivono la polvere grigia esce dai muri, scende dai soffitti, si spande sui mobili: “dappertutto nella casa, poi polvere mista a gas di scarico nelle nebbie dei giorni d’inverno, e polvere nei suoi sogni che sembrava farina o borotalco”.
Alida comincia a provare una grande stanchezza e uscendo di casa la mattina tutto le pare avvolto dalla nebbia creata dal gas di scarico delle automobili, così che lei tornava indietro e aveva voglia di mettersi a letto: “Capiva le cose solo sognando, cioè dormendo”. La storia va avanti con alti e bassi, ma più il narratore si inoltra nel suo racconto più si ha la sensazione che la nebbia che circonda Alida entri tra le righe del racconto, così come lo stato catatonico, la sonnolenza che coglieva l’amico morto e la donna, sia lì, davanti al lettore, faccia parte della storia, del suo andamento lento e circolare.
La storia procede per pagine e pagine senza quasi avanzare. Non racconta nulla se non dettagli dell’amico e di Alida, e poi le visioni della donna che sogna che tutto il mondo sia coperto da una polvere bianca; tutto è sprofondato, o sta per sprofondare nella polvere. Nelle ultime pagine veniamo a sapere che l’amico, trasferitosi dall’altra parte dell’Atlantico, aveva imparato a rispondere alle telefonate di Alida parlandole nel sonno. Anche lei si addormentava al telefono, mentre lui gli parlava, così che i due dormivano assieme, “ma ognuno in assenza dell’altro”. Al narratore questo sembra una fortuna; è infatti convinto che “quando si è un po’ addormentati ci si capisca meglio: non c’è più la furia dell’intelligenza per mettersi al di sopra degli altri, e allora certe volte si riesce a incrociare i pensieri senza essere estranei come al solito”.
Nel finale racconta un sogno di Alida: la polvere bianca avvolgeva tutta la metropoli e tutti si confondevano in quella nebbia, sbagliando casa e porte d’ingresso, e finivano per abitare con altri che non erano la moglie o il marito, “tutti sempre un po’ addormentati sotto la coltre di polvere bianca”. La voce narrante conclude: “Le parole fuggono via nella nebbia e nel sonno, sfuggono ai giorni e agli anni, non si sa dove, ma è lì che poi ci si incontra, come dice un’altra canzone nei nastri”.
Perdersi
Nei racconti di Celati la nebbia indica uno stato di smarrimento, come accade, ad esempio, ai due bambini protagonisti di Bambini pendolari che si sono perduti. La storia, compresa in Narratori delle pianure, si svolge dalle parti di Monza, nella pianura punteggiata di condomini anonimi d’inverno. I due protagonisti si sono persi, loro, ma anche la donna che avevano accompagnato alla ricerca di un fabbricato dove diceva di risiedere. Sono in aperta campagna, intorno a loro un nebbione fitto, una “grande parete bianca in cui non riuscivano a ritrovarsi l’un con l’altro”: “Avevano fatto tanta strada venendo da lontano in cerca di qualcosa che non fosse noioso, ma senza mai trovar niente, e adesso per giunta chissà quanto tempo ancora avrebbero dovuto restare nella nebbia, col freddo e la malinconia, prima di poter tornare a casa dai loro genitori. Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così”.
La nebbia è il modo attraverso cui le cose si rivelano, come accade al protagonista di Dagli aeroporti, altro racconto del libro. Tornato al suo luogo d’origine, alla sua terra, dopo aver trascorso tanti anni in un altro continente, si trova a pensare nelle giornate di nebbia su un argine. Come ci racconta la voce narrante, l’uomo pensa alla solitudine del suo corpo e quel biancore intorno a lui gli consente di “immaginare tutto quello che esisteva là fuori, cose, fenomeni, popolazioni, come collegato da operazioni finemente intessute dal pensiero, da infinite minuzie, infinite storie scambiate e non scambiate, che gli sembrava tenessero in piedi una trama ininterrotta nel vuoto del pianeta”. I pensieri gli abitano la testa, mentre tutto intorno è una “nuvola di bruma”.
Una delle questioni fondamentali che la nebbia pone alla percezione non è: “dove sono?”. Ma anche: “dove sono gli altri?”. E ancora: “cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono?”. La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile.
Il problema se lo pone uno dei personaggi di Quattro novelle sulle apparenze, il pittore d’insegne Emanuele Menini, che compare in “Condizioni di luce sulla via Emilia”. Questo racconto, narrato in prima persona, descrive il modo attraverso cui Menini vede la luce nel territorio che abita. Il paesaggio è quello della Pianura padana avvolto non solo dalla nebbia, ma anche da una coltre spessa di smog, una foschia in cui sono immerse tutte le cose. Non è dunque propriamente la nebbia, ma piuttosto l’inquinamento atmosferico che Menini definisce “luce scoppiata in disfazione”.
Il narratore racconta in prima persona gli incontri con il dipintore d’insegne e trascrive sul suo taccuino le cose che questi gli racconta su come lui vede. Nell’aria si percepisce come un tremolio, dice Menini, che rende ogni cosa instabile; tutto vacilla ed è vacillante, compreso il pittore d’insegne, lui. Il narratore, che s’identifica con Celati – è uno scrittore –, coglie questo stato simile a quello degli ubriachi: tutto fluttua e tremola nell’aria. Una ubriachezza cui è difficile sottrarsi.
La storia del pittore d’insegne, e delle sue considerazioni sulla luce, lo spazio, la trasparenza e la percezione, s’intreccia con quella di un industriale delle scale a chiocciola e della donna che lui ama, la quale è andata a vivere con lui lasciando il marito. Celati descrive i viaggi che lui e Luciano Capelli, un amico fotografo, compiono in quel paesaggio: la zona intorno ai paesi di Sassuolo e Scandiano, là dove si producono le piastrelle. Il narratore trascrive le osservazioni di Menini sul rapporto tra la caligine, che provoca il tremolio, la neve che lo contrasta e la pioggia che la scombussola. Il pittore si ferma a osservare due piccoli cipressi dell’Arizona piantati sui lati dell’ingresso dell’industriale delle scale a chiocciola e commenta che, come i due alberi, anche lui, Menini, e tutti coloro che lui vede in giro da quelle parti, sono dei dispersi.
Menini muore all’improvviso. Il narratore e Luciano Capelli vanno a vedere il luogo dove è stato ritrovato, la cabina telefonica da cui egli aveva telefonato all’industriale delle scale a chiocciola per parlargli di quello che aveva visto: una palazzina in mezzo alla campagna che finalmente era riuscito a osservare bene, perché l’aria appariva pulita dopo la nevicata (“la neve lasciava spuntare bene i contorni delle cose”).
Nel racconto sono racchiuse molte considerazioni sulla luce, sulla percezione, sul vedere, molte osservazioni che fanno pensare che dietro la figura del pittore Menini si celi quella del fotografo Luigi Ghirri, compagno di esplorazioni nel paesaggio della pianura nel periodo in cui lo scrittore andava componendo questo come altri racconti compresi in Quattro novelle sulle apparenze e in Narratori delle pianure. Ghirri ha scattato alcune fotografie in cui la nebbia è la protagonista. Sono fotografie il cui tema principale è l’opacità, il vedere non chiaro. Come ha spiegato molte volte, tra cui nelle Lezioni di fotografie, pubblicate postume, un tema importante della sua fotografia è stato quello della cancellazione del reale. La nebbia è uno degli strumenti che Ghirri ha usato per realizzare questa sospensione della visione. Non solo la nebbia, ma anche lo sfuocato, il mosso, la notte. Tutte situazioni in cui la nostra percezione del mondo esterno ci permette di vedere le cose così come appaiono.
Nella nebbia e nella trasparenza
La ragazza che fuma, colta al volo a Parigi nel 1972. Seduta su una panchina emette una nuvoletta biancastra che le copre il viso. Non è nebbia, bensì fumo. La nuvola nasconde e insieme rivela la ragazza; lo scatto di Ghirri è un modo per vederla meglio, molto più che se nel suo ritratto non ci fosse quella nuvoletta.
In un’altra immagine si scorgono due semafori sospesi, in alto. Una leggera foschia sembra circondarli; il colore rosso dello stop si riverbera all’intorno. Ghirri ha scattato l’immagine stando in fila dietro ad altre automobili, un’immagine presa al volo, come mostra una versione differente dello scatto. Stampandola il fotografo ha però tagliato via le auto ferme e lasciato solo i due semafori con il loro alone: sembrano immersi in una leggera cappa di nebbia. La nebbia però non c’è. Appare come un modo di vedere.
Nelle Lezioni di fotografia (Quodlibet, 2010) Ghirri ha scritto: “chi fa fotografia lavora con un oggetto opaco, perché l’immagine si rivela e si forma al buio, ma utilizza strumenti trasparenti, come l’obiettivo, come la pellicola. Questo connubio tra il massimo della opacità e il massimo della trasparenza determina una particolare percezione della realtà. Allora l’esito finale che vogliamo raggiungere non è tanto quello di fare fotografie che denotano ancora una volta la trasparenza, ma eventualmente di togliere tutta la trasparenza che c’è tra noi e il mondo, sostanzialmente per tornare a rivederlo”. La nebbia assume questo compito di condurci alla visione del mondo come appare. Noi possiamo “solo rivederlo”, dal momento che ogni visione è l’effetto congiunto di questa doppio movimento tra opacità e trasparenza.
Come accade ad Alida e all’amico del narratore nel racconto di Celati, è nel sonno e nella nebbia che la realtà si rivela per quello che è. Nello stato catatonico, nella zona incerta tra la veglia e il sonno stesso, nel momento in cui si cede alla stanchezza, e si cessa di tenere sotto tutela il proprio Io, le visioni visitano la donna e l’uomo che l’ascolta.
La foto di Ghirri ritrae una delle stanze dello stabilimento di cure termali di Salsommaggiore; la posa sembra quella di una persona che sta riflettendo. L’avvolgono i fumi della camera per la cura delle malattie respiratorie. L’opacità è uno stato simile a quello della sospensione indotta dal sonno, nella soglia tra il giorno e la notte. Così è anche la fotografia delle due pilastri del cancello spalancato a Formigine, vicino a Modena. Il cancello quasi non si vede; appare piuttosto un confine, che ci introduce in un mondo che si spalanca al di là dell’ingresso, davanti a chi guarda, uno spazio che la nebbia circoscrive e limita: l’aperto e il chiuso. Un’altra soglia da varcare. La strada è lì dinanzi, che attende con la sua promessa di percorribilità.
Celati ha scritto un testo sotto forma di diario di lettura per accompagnare la pubblicazione presso Feltrinelli di Il profilo delle nuvole (1989), album fotografico di Ghirri. Nel brano del 4 ottobre cita un frammento poetico di Rilke dalle Elegie duinesi: “Noi non abbiamo mai, dinanzi a noi, neppure per un giorno/ lo spazio puro… Sempre c’è mondo/ e mai quel nessun dove senza negazioni”. Il commento che ne dà lo scrittore si concentra su quell’accesso all’aperto, condizione che non riusciamo davvero a praticare, dal momento che tutto resta “al di là della soglia del mondo”. Con la parola “mondo”, aggiunge Celati, Rilke intende “l’ovvietà delle cose e delle apparenze, già date per essere chiamate in un certo modo, per essere viste in un certo modo, e da cui dipende ogni nostra disinvoltura o normalità”.
Quello che Ghirri cerca di fare con le immagini è proprio testimoniare il limite delle nostre rappresentazioni che ci danno il senso della nostra normalità. Non si tratta tanto di un limite storico o sociale, spiega Celati, bensì spaziale. Per definire questo modo di guardare egli usa l’espressione “visione atmosferica”. Si tratta della stessa visione che persegue il pittore d’insegne Menini per raggiungere con lo sguardo qualcosa che sia perfettamente visibile, al di là dello smog e del pulviscolo che sta sospeso nella Pianura.
Ghirri, scrive Celati, cerca di “presentare tutte le apparenze del mondo come fenomeni sospesi, e dunque non più come fatti da documentare”. La chiave della sua fotografia sta nel ridare al mondo la sua vaghezza, “cioè riportarlo al sentimento che abbiamo dei fenomeni”. Li definisce “artifici della vaghezza”, come le nuvole, il cielo, gli orizzonti e la nebbia.
Due fotografie scattate da Ghirri, e stampate dopo la sua morte dalla moglie Paola, danno perfettamente il senso di questa vaghezza. Nella prima si vede un fossato che partisce l’immagine, mettendo in rilievo le due rive erbose, a destra e a sinistra, quindi la superficie dell’acqua al centro, che è come una lama trasparente in cui si specchia il biancore della nebbia. Ghirri ha fotografato la nebbia, ma questa quasi non si vede; la nebbia crea quel limite lattiginoso, che è la linea immaginaria dell’orizzonte, là in fondo, dove terra e cielo si toccano e si estendono l’uno nell’altro grazie proprio al biancore. Immagine della vaghezza, questa fotografia intreccia opacità e trasparenza: rende trasparente l’opaco e opacizza la trasparenza.
Tra i vari significati della parola “vaghezza”, ricca di ascendenze letterarie – si pensi solo a Leopardi – c’è approssimazione, incertezza, indefinitezza, indeterminatezza, ma anche vaporosità e fumosità.
Nell’ultima immagine della nebbia – “Roncocesi” del 1992 – che Ghirri ha scattato poco prima di morire, il fotografo coglie qualcosa che appare, e insieme scompare, proprio come il volto della ragazza che fuma. C’è una persona laggiù che cammina al centro dell’argine, lungo la carraia. Potrebbe essere Gianni Celati, ritratto da Ghirri molte altre volte di schiena, come sulla copertina della prima edizione dei Narratori delle pianure. Anche questo è un modo d’apparire e insieme di scomparire: la vaghezza dell’identità.
Siamo tutti smarriti e perplessi. Con incerte identità personali. Ci siamo persi nella nebbia, come i bambini pendolari. Ma è solo perdendoci che potremo ritrovarci. Così ci suggeriscono le parabole per perplessi scritte da Gianni Celati e le immagini del mondo esteriore scattate da Luigi Ghirri. Solo in questo modo possiamo forse sperare di capire il mondo.
Per le immagini si ringraziano gli Eredi di Luigi Ghirri, la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e Laura Gasparini.