Il romanzo di Konrad Lorenz
Sua madre Emma era convinta che il gonfiore del ventre fosse un fibroma. Quando scopre di essere incinta di Konrad ha quarantadue anni. Il padre, Adolf Lorenz, prestigioso ortopedico, ne ha quasi cinquanta. Il loro primo e fino a quel punto unico figlio, ormai diciottenne, sta prestando servizio militare. Nonostante i timori paterni e i rischi corsi dalla madre al momento del parto, quando nasce, il 7 novembre 1903, Konrad è un bambino sano e robusto. La sua è un’infanzia da “principino viziato”, trascorsa tra le mura del “castello fiabesco” di Altenberg, in Bassa Austria, dove il padre, con gusto da parvenu, ha fatto costruire una maestosa abitazione “da operetta”: testimonianza dello status raggiunto dal medico che alla Casa Bianca ha parlato con il presidente Theodore Roosvelt. Per Konrad il percorso è tracciato: Adolf gli impone di studiare medicina e lui obbedisce, diventando assistente presso l’istituto di anatomia dell’Università di Vienna. Ma, contemporaneamente, studia zoologia e si laurea con una tesi sul volo degli uccelli.
Da quando è bambino, infatti, il vero interesse di Konrad è un altro. Forse ispirato dal nonno che circola con una iena al guinzaglio, lo attirano gli animali, la loro presenza, il loro modo di fare. Disegna tutte le oche e le anatre che incontra sulla riva del Danubio. Lo trascina un desiderio febbrile: capire cosa dà origine al loro comportamento. Cosa c’è nella loro testa? Per capirlo, intuisce che bisogna osservare gli animali selvatici (quelli domestici gli sembrano rammolliti e stupidi), bisogna vivere con loro, parlare con loro, diventare come loro, superando le barriere tra le specie. Così ad Altenberg, dove Konrad continua a vivere con la moglie Gretl, i suoi due figli e i genitori, i veri padroni di casa diventano gli animali: l’oca Martina, gli uccelli (oltre un centinaio), i cani, il ratto domestico, il macaco. Il problema è che, dopo aver dato le dimissioni dall’Università, Konrad, fino ad oltre i trent’anni, non ha un lavoro vero e proprio, vive grazie al sostegno economico della moglie, anche lei medico. Qualche dubbio il padre lo ha: quel ragazzone che ha rinunciato a una onorata carriera e se ne sta ore sdraiato a terra a guardare i pulcini che escono dalle uova di anatra, talvolta gli sembra molto strano. Forse lo capisce di più quando lo vede correre spericolato con le moto – uscendo di strada si frattura la mandibola e da quel momento nasconde l’irregolarità del volto con la barba – visto che si tratta di una passione in cui padre e figlio si ritrovano.
In questi modi, si direbbe attraverso la porta di servizio, facciamo ingresso nella vita di Konrad Lorenz, il padre dell’etologia. E lo facciamo grazie a un romanzo, Konrad, scritto da Ilona Jerger, tradotto da Irene Abigail Piccinini ed edito da Neri Pozza. Romanzo che possiede caratteristiche particolari. L’autrice adotta la voce narrante di una scienziata, ornitologa presso l’Istituto Max Planck di Möggingen, che si è formata leggendo i libri di Lorenz. Quella che ci racconta, come dichiaratamente esplicitato in epigrafe, è un’opera di finzione. Ma, nello stesso tempo, la narratrice non può evitare di rifarsi a dati di fatto, documenti, riscontri oggettivi. Konrad è Lorenz insomma, ma è anche la lettura di Lorenz che ne fa una narratrice desiderosa di ricavarsi spazi mentre racconta, aprendo porte sullo stato dell’etologia di oggi, commentando l’operato del protagonista, e soprattutto, non isolandolo. Il Lorenz di Jerger non è infatti il genio che si muove nel vuoto (secondo l’irrealistica prospettiva romantica), ma è il genio che cresce dal confronto con altre menti e che sta dentro al suo tempo, in dialogo costante anche se spesso indiretto con filosofi come Popper, Heidegger, Husserl e Arendt, o con poeti come Paul Celan, o con figure apparentemente secondarie come suor Adelgundis, di cui chi narra segue, in parallelo, le traiettorie esistenziali, le idiosincrasie e le debolezze.
La tecnica del racconto, il modo di narrare, il sapiente passaggio dai documenti alla fiction, dalle persone ai personaggi, il consistente substrato scientifico, consentono in questo modo a Jerger di sfuggire al grande pericolo dei romanzi biografici, ovvero alla logica del “senno di poi”. Quando si racconta la vita di un mostro sacro, sapendo chi è riuscito a diventare, guardiamo con accondiscendenza il percorso del biografato, per cui siamo disposti a sorridere della sua testardaggine, delle sue manie, dei suoi errori, ma soprattutto ci sembra che ogni sua azione segua una traiettoria nitida che lo porta diritto su una strada di cui, in realtà, lui come tutti non vede che i pochi metri che gli stanno davanti. Non solo, ma conoscere il finale, assecondando il teleologismo umano, ci fa pensare che tutto non poteva che andare in un certo modo. A credere che nel piccolo Konrad che gioca e divora La vita degli animali di Brehm ci sia già in potenza il grande Lorenz che pensa all’imprinting. Invece Jerger, attraverso il personaggio a cui delega il racconto, ci mette davanti all’evidenza che la vita, come spiegano i biologi evoluzionisti, è un fattore epigenetico in cui ambiente e caso hanno un peso fondamentale. Non tutti i bambini che giocano con gli animali diventano Konrad Lorenz.
E di occasioni per non essere Lorenz, Konrad ne ha incrociate parecchie, visto anche il momento storico che ha attraversato nel corso della sua vita. Il primo snodo è ambientale. Era difficile essere un darwinista nell’Austria ultracattolica e creazionista degli anni Trenta del Novecento. E infatti per Konrad non esiste nessuna possibilità di impiego, non c’è una facoltà universitaria che gli dia un incarico. Se va avanti, molto dipende dalla fiducia incondizionata della moglie Gretl, che era stata la sua compagna di giochi quando erano bambini e che non smette mai di stargli a fianco per tutta la vita, sovrapponendo l’amore a una profonda sintonia intellettuale. Ma con l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, il 15 marzo 1938, tutto cambia. La biopolitica della Germania nazista dà alla scienza uno spazio smisurato. Ovviamente si tratta di un uso strumentale della scienza, che deve dimostrare la fondatezza delle teorie razziali. Lorenz viene accolto in Germania a braccia aperte e non perde occasione per celebrare i fasti di Hitler: Konrad scrive lodi sperticate del nazionalsocialismo e rivolge piccate critiche agli psicologi ebrei(ma non aveva mai avuto conosciuto Freud pur avendo vissuto a breve distanza da lui), ottenendo la cattedra di Königsberg che era stata di Kant, non solo perché è uno scienziato, ma perché è uno scienziato che confida nell’idea di dover tutelare il materiale genetico qualitativo separandolo da quello più scadente. Lorenz crede all’eugenetica. E lo dice, in articoli che pubblica. E lo ribadirà, pur in mezzo a mille distinguo, anche a distanza di molti anni. Che dire? Oggi leggiamo con vero imbarazzo le sue parole. Ma, come l’ornitologa della Jerger, non possiamo fare come se non le avesse mai scritte. E, come lei, non possiamo credere a Lorenz quando cerca di smentire di essere mai stato iscritto al partito nazista. Poi arriva la guerra. Altro momento di svolta, in cui tutto quello che Lorenz aveva messo insieme poteva andare a gambe all’aria. Lorenz è inviato in Russia come ufficiale medico. È costretto a fare quello per cui aveva studiato. Il padre, quando lo sa, è finalmente contento: quella deve essere la sua professione. Durante la ritirata della Wehrmacht, viene fatto prigioniero e rimane nei campi sovietici fino al 1948. Quasi cinque anni di assenza da casa, in cui una sola volta può comunicare con la moglie facendole sapere di essere ancora vivo. Deportato in Armenia, Lorenz scopre qualcosa che gli sarà di grande aiuto nella parte successiva della sua vita. Non solo continua a studiare gli animali, in particolare gli uccelli, ma inizia a scrivere, utilizzando la carta dei sacchi di cemento che gli procura un giovane prigioniero, Kurt; e poi comincia a raccontare le storie dell’oca Martina e della taccola Cioc, incantando la platea dei prigionieri, che pendono dalle labbra del professore. Non solo, nel campo deve dare l’esempio, fornendo continue indicazioni su cosa mangiare – non si può essere schizzinosi, le proteine si trovano anche nella carne dei ricci che fa bollire dopo averli catturati, o negli insetti o nei serpenti o negli uccelli stessi – e intervenendo per salvare le vite di molti commilitoni – proprio Kurt, tra gli altri, viene sottratto a una fine sicura. Come scrive Jerger, “l’impressione è che abbia un’inesauribile scorta di ottimismo”. Quando se ne va dal campo, per essere accolto dalle autorità dell’Accademia delle scienze di Mosca e infine rimpatriato, con addosso abiti di fortuna che gli vanno larghi e in testa un colbacco, Konrad assomiglia decisamente a un personaggio tolstojano. Con sé ha il manoscritto, che, molti anni dopo diventerà L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza.
Tornato a casa, Lorenz riprende il cammino. Non è semplice, il suo passato è un’ombra, la denazificazione potrebbe costargli cara. In Austria i suoi tentativi di trovare una cattedra falliscono, mentre la Germania lo riaccoglie presso l’Istituto Max Planck a Seewiesen. I suoi studi sul comportamento animale, sull'imprinting, sul ruolo dell’istinto considerato decisivo rispetto alla pressione ambientale, cavallo di battaglia dei behavioristi americani, soprattutto i suoi libri divulgativi come L’anello di Re Salomone, gli danno una notorietà mondiale. Studio sul campo – pesci e uccelli in particolare – si alternano alle lezioni, alle conferenze, alle interviste. Con la fine degli anni Sessanta, però qualcosa si incrina. Le tesi di Lorenz sull’inevitabilità della guerra e del male, che nascono da istinti difficilmente modificabili dalla cultura – c’è una data chiave, il 1963, in cui la Arendt pubblica La banalità del male e Lorenz Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell’aggressione – vengono contestate e considerate dei pericolosi puntelli per tacitare i sensi di colpa di una generazione che si è macchiata di crimini infami. Sono anni di confronti accesi, battaglieri. Dopo una vita spesa per gli animali, Lorenz diventa il sostenitore della tutela dell’ambiente: in effetti il padre dell’etologia è, insieme a Rachel Carson, anche il padre dell’ecologismo.
La situazione, a suo parere, è a rischio, bisogna intervenire al più presto: non a caso, in una serie di trasmissioni radiofoniche, nel 1970, Lorenz per la prima volta parla del rischio di distruzione dell’umanità. Nel 1972, a Monaco di Baviera, annuncia con enfasi e con grande risonanza mediatica il “Manifesto ecologico”. A ben vedere il suo ambientalismo ha radici antimoderne. Lorenz adora la vita “naturale”, a diretto contatto con la terra, gli alberi, gli animali. Di conseguenza “detesta il cemento e, dal profondo del cuore, Le Corbusier e tutti gli architetti moderni, questi maestri dell’abitazione-container che priva la gente dell’adattamento di stampo ereditario alla vita in un ambiente verde, naturale, improntato alla diversità”. In Gli otto peccati capitali della nostra civiltà individua le cause del degrado ambientale nella crescita demografica eccessiva, che porta la gente “ad ammassarsi nelle grandi città” e, complice lo sviluppo tecnologico e farmacologico, favorisce il “rammollimento generale”, rendendo gli uomini incapaci di sopportare la sofferenza, inadatti ai progetti a lungo termine e inclini a “comportamenti sessuali devianti”. Una forte responsabilità è dei genitori: trascurando, per motivi di lavoro, l’educazione dei figli, hanno provocato il crollo della “gerarchia naturale” e la creazione di una generazione di “nevrotici infelici”.
Ottenuto il Nobel per la medicina e la fisiologia, insieme all’amico Tinbergen e a von Frisch, nel 1973, Lorenz ha davanti a sé ancora quindici anni di vita, dedicati alla divulgazione e alle battaglie ambientaliste (riesce a evitare, nel 1978, l’apertura della centrale nucleare di Zwentendorf). Almeno fino a quando il suo forte fisico regge: dapprima è l’udito a venir meno, poi lo tradiranno le gambe. Ma soprattutto è la morte di Gretl a fiaccarlo definitivamente. Le pagine finali sono le più struggenti. Jerger ci porta, da vera romanziera, dentro la dimensione della fine. Il venir meno di quanto ci è consueto, l’impossibilità di portare a compimento i progetti, il sopraggiungere dell’atonia diventano pesi insormontabili. E allora, arrivando al giorno della sua morte, il 27 febbraio 1989, ci accorgiamo che cosa abbia fatto di Konrad il Darwin del XX secolo, come lui stesso aveva segretamente sognato di diventare: al di là dei risultati della sua ricerca, comunque straordinari, oltre i limiti e gli errori di un uomo che non è stato sempre capace di andare contro il suo tempo, a distinguerlo è stata la sua inesauribile energia, quella che gli ha permesso, di “avvicinare gli animali agli uomini e gli uomini agli animali senza offenderli”.