Homo loquens

7 Ottobre 2011

Ma come abbiamo fatto a non pensarci prima? In campo scientifico ci sono teorie che, una volta acquisite, risultano talmente ovvie da suscitare stupori retrospettivi. Certo, ci diciamo, non può che essere così, non ci sono dubbi; pensare che le cose stiano altrimenti sarebbe, più che un errore, una stravaganza. Eppure quello che un giorno arriva a sembrare ovvio, in precedenza, non lo era affatto. Anzi.

 

Da sempre scienziati e filosofi si interrogano sull’origine del linguaggio. La questione è diventata attualissima negli ultimi anni, sull’onda delle ricerche in materia di evoluzione. Più si indaga sui nostri remoti progenitori, più appare chiaro che il linguaggio deve aver giocato un ruolo decisivo nella complessa vicenda del differenziarsi delle specie ominidi all’interno dell’ordine dei primati, e del successivo impetuoso affermarsi del genere sapiens. Da un certo punto in poi la comunicazione verbale ha conosciuto un formidabile sviluppo, che dando luogo a un’articolazione più stretta e più complessa dei rapporti sociali ha garantito un vantaggio evolutivo straordinario. Il problema è: da dove ha preso avvio tutto questo? Per quale motivo, a un certo punto della loro storia, gli ominidi (o gli ominini) hanno investito tanto sull’interazione vocale? Che cosa può averli indotti a una trasformazione così rilevante del loro comportamento? Da quali aspetti dell’esperienza primordiale ha tratto impulso l’attività linguistica?

 

Che ci siano di mezzo il bipedismo e la postura eretta è assunto non nuovo e (presumo) difficilmente controvertibile; del resto, gode di largo credito l’ipotesi che la stessa origine della specie umana sia legata alla necessità di adattarsi a un ambiente più arido, dove la diradata vegetazione precludeva ai grandi primati un’esistenza esclusivamente arboricola. Però, nel momento in cui si doveva indicare una motivazione per lo sviluppo del linguaggio, il riferimento più frequente – a quanto mi risulta – riguardava l’attività della caccia.


Benché profano (non sono uno studioso di evoluzione, né un biologo o un paleontologo) ho sempre trovato questa spiegazione del tutto inadeguata. Certo, organizzare una battuta di caccia richiede un qualche accordo tra i cacciatori, specie se l’obiettivo è una preda di grossa taglia. Ma anche i lupi, le iene, le leonesse cacciano in branco, e non hanno sviluppato un linguaggio paragonabile a quello umano (anche se è probabile che comunichino tra loro molto più di quanto finora siamo riusciti a intendere). Inoltre la caccia non è mai stata, verosimilmente, l’unica fonte di cibo per la nostra specie: doveva essere un’attività specializzata, riservata agli elementi più robusti del gruppo. Perché mai si sarebbe dovuta diffondere a tutti? e svilupparsi tanto oltre i limiti di un settore tutto sommato ristretto qual è quello venatorio?

 

Potenza del pregiudizio. La risposta che veniva fornita a un quesito cruciale sulla nostra natura ha puntato per molto tempo su una dimensione dell’esperienza che era appannaggio maschile. Difficile pensare che sia un caso. E torna alla mente la teoria aristotelica, ripresa nel Medioevo da Tommaso d’Aquino, secondo cui il principio attivo della riproduzione dei viventi dipende dal maschio. È il maschio infatti, e lui solo, secondo Aristotele, a fornire la causa efficiente della generazione (lo sperma), mentre alla femmina compete il ruolo passivo di contribuire con la materia (il sangue).
Ebbene, una teoria sulla nascita del linguaggio umano decisamente più persuasiva di quella ingenuamente (o spudoratamente) maschilista della caccia è stata formulata di recente dalla paleoantropologa americana Dean Falk, docente alla Florida State University di Fort Lauderdale; il suo libro Finding Our Tongues. Mothers, Infants & the Origin of Language (Basic Books, 2009) è apparso pochi mesi fa da Bollati Boringhieri con il felice titolo Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio (trad. di Paolo A. Dossena, pp. 282, € 19,50). Questa, in breve, la tesi della Falk. Una delle conseguenze del bipedismo e della postura eretta fu una maggiore difficoltà per il piccolo di tenersi aggrappato alla madre, come avviene tra i gorilla o gli scimpanzè. I piedi non sono prensili come le mani; perciò le madri avranno dovuto normalmente sostenere i piccoli per evitare che cadessero. Ma questo limitava molto la loro attività. Quindi, per adempire ad alcune funzioni fondamentali come la raccolta del cibo (erbe, radici, frutti) si trovarono costrette a introdurre una prassi nuova, dagli effetti dirompenti: quella di posare il piccolo a terra. Di qui la necessità di surrogare il contatto fisico diretto con un’altra forma di prossimità. E ricorsero alla voce.
Come ben sa chiunque abbia posseduto cani o gatti – o meglio, cagne e gatte – tra i mammiferi il contatto vocale madre/ cucciolo è frequente, e anche piuttosto articolato. Ma le scimmie antropomorfe non ne hanno sempre bisogno: tant’è che presso una specie ciarliera come gli scimpanzè la madre non parla con il piccolo, perennemente aggrappato a lei. Dunque, il cambiamento fu enorme. E straordinarie le conseguenze: perché il rapporto tra madre e piccolo è la forma primaria della socializzazione (e dunque la matrice: il paradigma).

 


Altro che concertare le mosse per uccidere un cervo o un bisonte. Quello che mi pare convincente, nella teoria di Dean Falk, è l’adeguatezza della causa all’effetto. Lo sviluppo del linguaggio presso la specie umana trae origine dalla necessità delle madri ancestrali di rassicurare i piccoli, di tenerli sotto controllo, di sorvegliarli, di accudirli a distanza. Gradualmente consolidandosi l’innovazione comportamentale, il contatto delle voci è divenuto parola, comunicazione verbale, codice linguistico. Dal rapporto madre/ prole si è esteso poi all’insieme della comunità, nessuno escluso (tutti sono stati cuccioli), dispiegando potenzialità imprevedibili: giacché grazie al linguaggio è possibile esprimere e condividere emozioni, trasmettere informazioni ed esperienze, impartire disposizioni, confrontare asserzioni, in una misura che la comunicazione non verbale semplicemente non consente. L’effetto è un incremento poderoso della coesione sociale. Impareggiabile è infatti la forza sociopoietica del linguaggio: letteralmente, con le parole si costruisce un intero mondo sociale – quindi, il mondo. Sia pur in chiave simbolica, molte culture hanno rappresentato questa profonda consapevolezza: si pensi all’incipit del Vangelo di Giovanni (Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, “In principio era il Verbo”) o alla festa della Rivelazione della Parola un tempo celebrata dai Dogon (la popolazione saheliana studiata da Marcel Griaule).

 

Un aspetto decisivo, mi pare, consiste nel carattere fortemente interattivo del luogo dove avrebbe cominciato a svilupparsi il linguaggio, cioè la dimensione delle cure materne. C’è una differenza molto grande tra un messaggio unilaterale (per esempio: “Attenzione, c’è un leopardo”, ben distinto da “Attenzione, c’è un falco”), preciso finché si vuole ma svincolato da feedbacks, e un meccanismo di domanda e risposta (“Dove sei? / Sono qui, non muoverti”), che richiede, produce, alimenta un adattamento reciproco. Sia chiaro: l’interazione è molto intensa in numerose specie; abbiamo di sicuro molto ancora da imparare, moltissimo, sul modo in cui gli animali comunicano, e non solo con mezzi vocali; non c’è vita sociale senza adattamento reciproco. Ma la “novità” umana potrebbe essere davvero consistita nell’utilizzo della voce come mezzo privilegiato, a partire dall’infanzia, per risolvere un imperioso problema quotidiano di contatto e intesa reciproca, da cui dipendeva la sopravvivenza. Divenuta in certe condizioni impossibile la prensilità tattile, si inventò una forma di prensilità vocale, che risultò così efficace da evolversi in linguaggio.

 


Lo scenario proposto dall’antropologa americana, non occorre precisarlo, è una ricostruzione congetturale che riguarda avvenimenti verificatisi alcuni milioni di anni fa. Ma la sua argomentazione attinge, oltre che alla documentazione paleontologica (un’importante variabile è l’allungamento del tempo per il quale i piccoli necessitavano di cure), allo studio del comportamento delle grandi scimmie, e alle ricerche sul modo in cui le madri di oggi si rivolgono normalmente agli infanti. Da qualche tempo è stato introdotto il termine di  “maternese” per designare quel linguaggio elementare, semplificato, “puerile”, composto in gran parte di suoni ripetuti (bisillabi come mamma, pappa, e simili), contraddistinto da marche timbriche (il tono più soave, il registro più acuto), di norma accompagnato da espressioni, smorfie, gesti particolari, nonché intrecciato o alternato a fenomeni d’ordine ritmico o melodico. Cosa che, sia detto per inciso, riporta in auge l’antica idea di una comune genesi della parola e del canto. Uno dei pregi maggiori dell’ipotesi della Falk è di render conto del fatto che sia il linguaggio, sia la musica hanno nella nostra psiche risonanze straordinariamente profonde. C’è un punto nascosto del nostro sistema neurologico che serba traccia delle emozioni di un indifeso cucciolo di primate, solo in mezzo all’erba, tutto proteso ad ascoltare la cantilena sommessa della madre, che ha perso di vista (e di cui forse teme di perdere anche la traccia olfattiva).

 

Chissà, forse un giorno parleremo, anziché di homo abilis, di homo loquens: ammesso che si riesca a identificare con ragionevole accuratezza le tappe di questa avvincente storia evolutiva. Un quadro aggiornato sulle indagini e sulle questioni aperte, notevole non meno per limpidezza e affabilità espressiva che per rigore scientifico, è offerto dall’ultimo volume di Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto (Cortina, pp. 254, € 21,00), di cui si parlerà in altra occasione. Nel frattempo mi permetto di avanzare un modestissimo parere sul gran tema del bipedismo. Per quali ragioni i nostri progenitori si sono risolti a camminare su due zampe? Io mi figuro che la soluzione più valida sia la meno nuova, e la più semplice: cioè la sopravvenuta impossibilità della fuga sugli alberi come via maestra di difesa. Personalmente, trovandomi a passeggiare in luoghi dove pascolavano greggi che avrebbero potuto comprendere un montone, non mi sono mai sentito del tutto a mio agio senza un bastone in mano. Ma questa, s’intende, è solo la supposizione di un primate sedentario, non molto coraggioso, meno aggressivo della media della specie. E valga questo anche come omaggio alla più famosa scena mai girata da Stanley Kubrick.

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