Speciale
I Buddenbrook
Esistono opere d'arte la cui prerogativa risiede nel fatto di funzionare da catalizzatori delle forze storiche e culturali che condizionano lo spirito di un'epoca: nel caso di I Buddenbrook, pubblicato nel 1901, è piuttosto semplice individuare tale peculiarità nell'ambito della caratteristica temperie degli albori del XX secolo, di quella sorta di calma inquieta che preparò il terreno per le catastrofi che avrebbero segnato irrimediabilmente il tramonto della civiltà borghese nei decenni successivi, del quale il romanzo d'esordio di Thomas Mann è profezia sconvolgente e allegoria anticipatrice.
Esordio, albori, profezia: un'unica sfera di significato alla quale appartiene anche il virgulto che, osservato dalla cima di una lunga carriera coronata dal successo, appare di solito poca cosa, in particolar modo quand'esso affondi le sue tenere radici in un terreno arido quale fu il milieu di provenienza del giovane Mann.
Tutta la grettezza, il livore, l'ipocrisia della cultura borghese di Lubecca – città di origine dell'autore e haut lieu del suo mondo spirituale – sono riportate con naturalistica minuzia in questa saga familiare che si sviluppa in un arco di tempo lungo quattro generazioni, seguendo un criterio atto a considerare l'ereditarietà determinata da un ambiente circoscritto quale fattore di un declino delle forze morali, già in atto nelle sue stesse premesse.
In questo contesto l'ironia manniana, solitamente giocata sul fioretto delle citazioni e della sottile interpolazione della vita reale nel racconto, mena sciabolate a destra e a manca tant'è che l'autore, all'indomani della pubblicazione e dello straordinario successo del romanzo, venne dichiarato, se pure in via informale, persona non grata nella gloriosa repubblica anseatica che fa da sfondo alla narrazione. D'altro canto il controllo, la tenuta, la qualità – stupefacenti, per un'opera d'esordio – ci portano a considerare I Buddenbrook come una prova di maturità che poco ha a che spartire col disordine e l'urgenza che normalmente si associano alle esternazioni del talento precoce, in special modo quando questo sia prerogativa di un figlio degenere.
Il talento del giovane Mann poggiava, in realtà, su solidissimi pilastri: oltre alle ottime letture (Flaubert, Zola, Ibsen, Turgenev, Storm e, su tutti, Fontane) il confronto serrato con il fratello maggiore – lo scrittore Heinrich, la cui opera più importante Professor Unrat può essere letta come un rovescio violentemente satirico del mondo dipinto in I Buddenbrook – ne stimolò lo sviluppo e la crescita.
Eppure è difficile non riconoscere l'impronta del genio, del talento innato, sulle nordiche rive dove la dinastia Buddenbrook va incontro alla sua caduta, trasposizione letteraria del destino sfortunato cui la stessa famiglia Mann fece fronte durante gli anni giovanili dell'autore; e ancora nel 1929, l'opera d'esordio di Thomas Mann venne citata quale principale motivazione dell'assegnazione del premio Nobel per la letteratura, al netto di una trentennale produzione culminata, nel 1926, con la pubblicazione di La montagna magica, opera-mondo universalmente riconosciuta come uno dei massimi capolavori della letteratura del '900. Geniale apparve, con ogni probabilità, il rovesciamento e il superamento dei canoni naturalisti che, attraverso l'utilizzo originalissimo di un apparato simbolico, aprì la strada alle tensioni moderniste che animarono tutta la successiva produzione dell'autore; geniale, senz'altro, apparve la capacità di aver colto lo spirito del tempo di cui si diceva più sopra; e geniale apparve, infine, l'autore stesso che, ad appena ventisei anni, era riuscito a portare a termine un'operazione letteraria di tale rilevanza.
Il tema dell'artista geniale, del prescelto dalla natura, è del resto centrale nell'opera manniana della tarda maturità, quando il progressivo interesse verso la figura di Goethe sfociò in una venerazione del personaggio tale da spingere Mann a riproporre, nel contesto del suo mondo in declino e in una chiave allegorica per non dire esoterica, alcuni dei principali assunti della poetica e della biografia del genio di Weimar. Così la Bildung settecentesca si rovescia in una parodia venata di retorica, irrazionalismo e malattia polmonare in La montagna magica, la grandezza del vecchio Goethe diviene motore di un culto smisurato della personalità che condanna il genio alla solitudine in Carlotta a Weimar, il patto faustiano col diavolo conduce l'artista alla distruzione della volontà e alle tenebre della follia in Doctor Faustus.
Sappiamo per certo che Mann visse e costruì la propria biografia riponendo una fiducia pressoché assoluta nel proprio talento, motore di un grande destino contrassegnato dalla gloria; quel che non sappiamo è però se tale convinzione, alla pari del suo genio, fosse innata, o se piuttosto essa si sviluppò a partire dall'enorme successo riscosso dal suo primo romanzo che, nel giro di pochissimi anni, per l'unanime plauso della critica e per l'altissimo numero di copie vendute, lo proiettò nell'empireo dei grandi scrittori. Una simile domanda perde il suo manto di lana caprina nel momento in cui ci si fermi ad osservare il tenero virgulto dalla cima dell'albero, quella stessa cima, cioè, dalla quale proviene la delirante confessione in tedesco medioevale di Adrian Leverkühn, nel capitolo conclusivo di Doctor Faustus, circa i suoi sinistri traffici col maligno.
In ogni esordio che miri a fare terra bruciata del proprio ambiente di provenienza c'è una qualità della sfida che investe la propria autobiografia; nel tagliare i ponti con il proprio passato ci si gioca la reputazione e I Buddenbrook ci insegna, tra le altre cose, che per l'alta borghesia di Lubecca la reputazione era tutto.
Quale demone deve aver visitato il giovane Thomas Mann per convincerlo ad agire con tanta spregiudicatezza? Quali visioni di grandezza devono essergli state mostrate, nella stanza della pensione di Palestrina dove il precoce capolavoro prese forma, per indurlo a gettare nel fango la stirpe, il retaggio, l'eredità spirituale? Giocare con le parole è giocare col mondo – qualsiasi apprendista stregone lo impara molto presto: ma se il risultato finale dei propri esperimenti è l'immortalità e non la dannazione, le cattive intenzioni passano in secondo piano. Nel caso di Mann, le intenzioni sono sempre state quelle di diventare il Grande Scrittore Borghese.
"Sempre? È un paradosso! Come puoi pretendere di diventare il Grande Scrittore Borghese, se del tracollo della borghesia tu sarai il massimo cantore? Quale magico inganno ti aiuterà a realizzare questo folle proposito?"
"Tranquillo, Mef! Come si dice a Palestrina: le chiacchiere stanno a zero. Lo vedi, il futuro? Io SONO il Grande Artista Borghese. Ho persino vinto il PREMIO NOBEL, ricordi?"
(Mefistofele svanisce, contorcendosi dal dolore)
Ci si perdoni l'arguzia, ma in fatto di evocazioni ed esorcismi delle forze del male, Thomas Mann non ha mai dovuto prendere lezioni da nessuno. Come rilevato però dal nostro povero diavolo, qualche paradosso, in effetti, sussiste: è il paradosso di una civiltà che venera l'ordine supremo razionale mentre cova nel suo seno la serpe della follia e dell'autodistruzione; oppure è il paradosso di uno scrittore che ha sempre mantenuto la forma e il contegno di tale civiltà pur avendo messo in luce, con la sua opera più personale, il tessuto corrotto che di tale forma era la trama nascosta; oppure – e qui il povero diavolo soccombe – è il paradosso di un rigoglioso ma violento rigetto della cultura avìta che, proprio in virtù del carattere ereditato da quest'ultima, raggiunge risultati ragguardevoli.
Se infatti in I Buddenbrook ci pare di vedere all'opera la mano felice della giovinezza che disegna il proprio destino con felice incoscienza, la sicurezza con la quale essa domina la vastità dell'opera e la profondità dei temi messi in gioco, tramite l'impiego di una scrittura di altissima levatura, fanno pensare a un'intelligenza pratica, a un duro ed incessante lavorìo sulla parola che già mira a quella perfezione formale che diventerà, negli anni a venire, il suo tratto stilistico peculiare: a ben guardare, l'etica del lavoro quale principio inderogabile al conseguimento di uno scopo vantaggioso, che il giovane Mann aveva assimilato dalla natìa schiatta di commercianti lubecchesi e che lo sostenne nella produzione delle sue opere maggiori, era già in funzione, dietro le quinte, sin dai tempi del capolavoro giovanile. In questo armonico contrasto tra il carattere demonico del talento e la perfezione di una scrittura ottenuta tramite la più completa dedizione al proprio mestiere, ci pare di cogliere un barlume di tutte le antitesi tra Kultur e Zivilisation, tra apollineo e dionisiaco, tra idealismo kantiano e irrazionalismo nietzscheano che hanno forgiato, col passare degli anni, l'immagine bifronte di Thomas Mann quale principale interprete della crisi del mondo borghese.
In questo senso I Buddenbrook, annuncio del radioso avvenire del suo autore e, al tempo stesso, della rovinosa caduta della civiltà che lo ha plasmato, ci sembra realizzare in pieno l'idea goethiana di profezia che diventa chiara mediante il suo proprio adempimento.
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