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Mad Max, l'apocalisse motorizzata
Talvolta mi domando se la natura squisitamente visiva del mio immaginario personale non sia frutto dell'interesse per l'arte cinematografica che ho coltivato con passione in gioventù, quanto piuttosto dell'esposizione forzata ad immagini sonore in movimento cui sono stato sottoposto negli anni ormai lontani dell'infanzia che, come qualsiasi bambino occidentale cresciuto alla fine del secolo scorso, ho trascorso praticamente incollato davanti ad uno schermo televisivo. Al netto di una formazione che si è abbeverata alle sacre fonti di Wilder e di Kubrick, di Godard e di Cassavetes, di Buñuel e di Herzog, di Sganzerla, Ray, Kitano, Tarkovskij, Paradžanov e chi più ne ha più ne metta, inizio a pensare che siano stati proprio quei lontani pomeriggi trascorsi a guardare cartoni animati giapponesi e film horror e di fantascienza americani a forgiare i miei strumenti di rappresentazione del reale sotto il segno dell'intensità evocativa che solo il medium audiovisivo è in grado di raggiungere.
Erano tempi in cui i mostri della notte prendevano la forma di eserciti di zombi affamati di carne umana, di killer psicopatici a caccia di adolescenti sprovveduti, di spietati invasori alieni e, su tutti, del fungo atomico che sarebbe venuto a cancellare la civiltà e a trasformare la relativa sicurezza della mia vita di bambino, europeo e benestante, in una lotta spietata per la sopravvivenza quotidiana. In questa chiave, mi sento di parlare di un immaginario personale che coincide con quello collettivo nel momento in cui, rievocando le paure dell'infanzia che ho condiviso con la mia generazione, mi trovo a dover scegliere, tra tutti, il film della mia vita considerato sub specie aeternitatis, cioè a dire quale classico; metodo tanto più calzante nel contesto storico attuale, dove l'ansia e la paura del futuro sembrano essere, sempre più, le cifre dominanti dello spettro percettivo delle masse.
Quelle stesse inclinazioni che hanno in seguito determinato il mio interesse per l'apocalittica e il mio gusto un po' inquietante per le rovine erano già ben in atto quando, a undici anni, Ken il guerriero mi venne incontro dal Giappone per indicare la strada di un futuro postatomico in preda alla follia e alla legge del più forte; già infatti Conan il ragazzo del futuro aveva scavato nella mia infanzia un solco profondo, ricoperto dalle acque degli oceani misteriosi di un mondo cancellato dalla catastrofe nucleare. Ma se dovessi individuare l'opera audiovisiva che più di tutte ha spalancato i miei giovanissimi occhi circa il destino ultimo della civiltà, la mia scelta non potrebbe che ricadere su Mad Max (1979), primo film della fortunata saga postapocalittica di George Miller che si distingue nettamente dai capitoli successivi non soltanto per i bassissimi costi di produzione quanto per lo scenario in cui la trama si svolge: il mondo nel quale il protagonista, un antieroe sociopatico interpretato da Mel Gibson, si trova costretto ad affrontare bande di predoni nomadi perennemente a caccia di carburante in un deserto postatomico, è qui in effetti soltanto prefigurato, per non dire totalmente assente.
Mad Max è considerato un film di fantascienza più per l'atmosfera che lo contraddistingue che per elementi propriamente futuribili presenti nella storia; si tratta piuttosto di un eccellente film d'azione che, nelle intenzioni del giovane regista, voleva essere una critica al feticcio culturale dell'automobile nel contesto degli anni della crisi petrolifera – non a caso, James Ballard si dichiarava un fan appassionato della saga. Alla stessa maniera in cui George Lucas, due anni prima, aveva infarcito di una serie di citazioni dei western classici di John Ford il suo Star Wars, Miller ebbe l'intuizione di coniugare un distopico futuro ultraviolento in stile Clockwork Orange con l'altrettanto classica trilogia del dollaro di Sergio Leone, utilizzando quale viatico per la spregiudicata operazione l'estetica dei b-movie motociclistici di Roger Corman e di Russ Meyer del decennio precedente: il risultato è un film ultracinetico e violentissimo, con il plot ridotto all'osso di una brutale storia di vendetta consumata sulle strade di una desolata provincia australiana che sconfina, nel finale, in un'apologia della giustizia sommaria quale unica reazione possibile alla caduta dei valori morali di un mondo impazzito.
Tenuto conto dei limitatissimi mezzi a disposizione del regista, Mad Max è un capolavoro di inventiva, un pezzo di bravura cinematografica che coniuga coraggio e sperimentazione con una solida visione d'insieme. Una serie di scelte stilistiche e di espedienti tecnici ovviarono alla scarsità delle risorse materiali. Girando in formato Cinemascope con un corredo di lenti anamorfiche in pessime condizioni – si dice sopravvissuto alle riprese di The Getaway di Sam Peckinpah – Miller riuscì in effetti ad ampliare l'angolo di ripresa sino a raggiungere una visuale altamente spettacolare, in grado di accogliere per intero la traiettoria orizzontale dell'azione consistente, perlopiù, in inseguimenti automobilistici ad altissima velocità. La macchina da presa posizionata a livello della strada servì ad esasperare il punto di vista dello spettatore e a creare un senso di vertigine continua, ulteriormente accentuato da un tappeto sonoro monopolizzato dal frastuono assordante dei motori e dallo stridore delle gomme sull'asfalto. In questa messa in scena percettivamente improntata all'eccesso e consacrata al brivido dell'accelerazione, la violenza delle bande di motociclisti e delle unità speciali di polizia stradale incaricate di contrastarle dilaga senza misura che non sia quella della pura ritorsione: quando la famiglia di "Mad" Max Rockatansky viene brutalmente assassinata dalla gang del sadico Toecutter, al nostro eroe non rimarrà altro da fare che lanciarsi per le strade a bordo della sua V8 Interceptor per eliminarne i membri uno ad uno, con sistematica freddezza.
A dispetto delle reazioni indignate della critica, la parabola del vendicatore stradale incontrò da subito il favore del grande pubblico che ne decretò lo straordinario successo commerciale: il film polverizzò tutti i record di incasso realizzati sino a quel momento da una produzione cinematografica a basso costo, e Miller guadagnò abbastanza fama e fortuna da potersi permettere di iniziare immediatamente a lavorare sul secondo capitolo delle disavventure del buon Max, con un budget decisamente più adeguato ad un'opera fantascientifica. Ambientato dopo una guerra nucleare che ha ridotto il mondo in cenere, Mad Max – Road Warrior (1981), con la sua stupefacente e ultrarealistica teoria di barbarie motorizzata, è il film che ha stabilito in maniera definitiva il canone estetico postapocalittico, influenzando in maniera decisiva l'immaginario sulla fine del mondo e dando il via ad una tradizione epigonale che, negli anni, è andata consolidandosi in una vera e propria sfera culturale.
Eppure, ritornando sulla questione del valore di un'opera che continua a produrre significato nel tempo esteso della sua fruizione, il primo capitolo di una saga che negli anni, tra stemperamenti e larghe concessioni al mainstream, è diventata un franchise di largo consumo, rimane quello più spendibile nel nostro presente. Alla maniera delle apocalissi della tradizione giudeo-cristiana, con il suo accennare profetico e la sua ominosa intenzione di allegorizzare il presente per descrivere il futuro, Mad Max ricopre un campo in cui l'inquietudine della storia viene compresa tra i due poli di monito e profezia, aprendo la strada ad uno svelamento delle cose nascoste spaventosamente convincente. Nel contesto culturale dell'Occidente contemporaneo, dominato dall'ossessione dell'apocalisse senza eschaton, molte opere cinematografiche si sono concentrate sullla fine dei tempi nel suo stesso divenire; rispetto ad apocalissi più integrate come Zombi di George Romero o Melancholia di Lars Von Trier, il capolavoro di George Miller è però l'unico film a dichiarare ineluttabile la fine del mondo poiché la violenza e il decadimento dei valori morali che ne sono spie sono vicini, plausibili, reali.
In una vecchia intervista a John Carpenter, il grande regista americano provava a spiegare cosa lo avesse spinto a dedicarsi al genere horror sul finire degli anni '70 del Novecento, definendo il terrore annidato tra le pieghe dell'ottimismo circa il trionfo della civiltà capitalista come il vero spirito del suo tempo – terrore che, a suo dire, era il terrore della fine sintetizzato nell'inconscia proiezione collettiva dell'immagine del fungo atomico. È in tale prospettiva che inquadriamo la poderosa allegoria di Mad Max nel novero dei simboli efficaci applicabili al pessimismo dei nostri giorni, nonché in quello dei grandi classici: da vedere e rivedere.
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