Il Capitale non tramonta mai

19 Settembre 2024

Un giorno di tanti anni fa, nella sede della redazione di ‘Pace e Guerra’, la rivista diretta da Luciana Castellina, Stefano Rodotà e Claudio Napoleoni, quest’ultimo, professore di economia politica all’Università di Torino, ci raccontava che un suo studente, che aveva letto Il capitale di Marx e a cui aveva chiesto come l’aveva trovato, aveva risposto: “carino!”. Napoleoni andò su tutte le furie esclamando: “del Capitale non si può dire che è carino! È un libro che o ti sconvolge e ti lasci prendere dal suo argomentare oppure lo respingi!”. Napoleoni aveva ragione. Oggi nessuno osa dire che è carino e tuttavia i tentativi di imbalsamarlo tra i ‘classici’ o di presentarlo come superato e obsoleto non sono poi così diversi dall’affermazione dello studente di Napoleoni. Eppure, ogni qual volta esplode una crisi economico-sociale, Marx e, in particolare Il capitale, ritorna in circolazione. Così è accaduto recentemente nella crisi del 2008 e così accade ora in un mondo dove il gap tra ricchezza e povertà è enormemente aumentato, dove il capitalismo accresce i suoi profitti attraverso le guerre, dove la pratica dello sfruttamento degli uomini e della natura sta raggiungendo livelli mai raggiunti prima. E tutto questo in nome della libertà. Roberto Fineschi, coadiuvato da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgrò, hanno brillantemente realizzato l’impresa di proporre una nuova edizione con una nuova traduzione del I Libro di Il capitale, l’unico che Marx pubblicò (K. Marx, Il capitale, Libro I, Einaudi, Torino 2024, pp. 1287).  Il libro si avvale anche della pubblicazione del cosiddetto capitolo VI inedito (Manoscritto economico 1863-1865) nonché delle varianti successive alla prima edizione (Manoscritto 1871-72).  Si tratta di una bellissima edizione, corredata inoltre da splendide riproduzioni di quadri di Courbet, di Caillebotte, di Signorini, di Morbelli, di Monet e di altri che raffigurano il lavoro e i lavoratori (spero però che prima o poi se ne faccia un’edizione meno cara, fruibile dagli studenti), con un’ottima introduzione di Roberto Fineschi che inquadra molto bene sia sul piano storico sia sul piano teorico le vicende del capolavoro di Marx. 

Mi limiterò qui a indicare, piuttosto arbitrariamente, tre punti teorici che, a mio parere, toccano ancora il vivo del capitalismo contemporaneo: la teoria del feticismo delle merci, l’idea di cooperazione, il rapporto tra base tecnica rivoluzionaria del capitalismo e olocausto della classe operaia. 

Il carattere di feticcio della merce. Questo tema, che ha attraversato una parte importante del marxismo da Lukács a Adorno, a Benjamin fino a Debord, si è semplicemente ingigantito. I tempi di Marx erano i tempi delle Esposizioni Universali, dove la gente si spostava, come aveva osservato Ernest Renan, per adorare i feticci della merce (frase che Walter Benjamin attribuisce erroneamente a Hippolyte Taine). Quel tavolo di legno di cui parla Marx  che, appena divenuto merce, si metteva a ballare e a stare a testa in giù, cioè si esibiva per la vendita, quel tavolo, di cui aveva parlato più o meno simultaneamente anche Gustave Flaubert in Bouvard et Pécuchet, quel tavolo che ironicamente era quello delle sedute spiritiche allora tanto in voga (anche adesso?), il cui uso diventava magicamente un mezzo per lo scambio e la vendita, oggi, rispetto al XIX secolo, è ancora lì che balla e si esibisce, perché ogni merce si muove come quel tavolo in una specie di immenso teatro planetario aumentato dai social. Le merci sono diventate sempre più spettacolo e le relazioni fra cose hanno preso l’assoluto dominio sulle relazioni fra le persone. Una grande azienda ha notoriamente come slogan: “persone oltre le cose”, come se, appunto, le persone fossero nascoste dietro le cose e dovessero essere cercate. È un’ironia involontaria, perché il problema non è cercare le persone oltre le cose, ma il fatto che le persone siano dietro le cose.

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Il capitalismo tende a mostrare come naturale qualcosa che è in realtà mostruoso: il primato delle cose sulle persone. L’umanità è in vendita. E tutti ci affanniamo nel cercare di scoprire che così non è. Ma proprio il fatto che dobbiamo porci la domanda sull’umanità di noi esseri umani conferma che l’umanità è solo un optional che al massimo può servire a vendere meglio sé stessi o gli altri come merci. Del resto feticcio dal portoghese feitiço (dal latino facticius) vuol dire cosa fatta e si riferisce agli africani che, secondo i colonizzatori europei del 1400, adoravano oggetti e cose come se fossero dèi. Non si accorgevano, come non ce ne accorgiamo noi, che anche l’Occidente adora gli oggetti e le cose come se fossero dèi. Solo Voltaire (nel Candide) e Marx (già nell’articolo Dibattiti sulla legge sopra i furti di legna) rovesciarono lo scenario e videro i nostri feticci occidentali.

Cooperazione. Scrive Marx: “Nell’agire insieme ad altri conformemente a un piano, il lavoratore si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà di specie” (p. 335). Non solo, la cooperazione funziona come un sistema il cui tutto è maggiore della somma delle sue parti. Marx cita in nota un italiano, l’amico di Verri, Gian Rinaldo Carli il quale scrive: “La forza di ciascun uomo è minima, ma la riunione delle minime forze forma una forza totale maggiore anche della somma delle forze medesime fino a che le forze, per essere riunite, possono diminuire il tempo e accrescere lo spazio della loro azione” (p. 335 nota 19). Carli fa riferimento in realtà alla forza militare. Ma il punto è la cooperazione come facoltà di specie, perché questo fatto che in sé è un lato buono dell’umanità degli uomini – progettare insieme articolando le proprie individualità in un contesto cooperativo – si trasforma nel lato cattivo, perché questa facoltà diventa il vero mezzo di sfruttamento da parte del capitale. E ciò vale tanto per gli operai riuniti insieme nelle fabbriche quanto per i lavoratori cosiddetti autonomi (imprenditori di sé stessi), quelli descritti così bene da Ken Loach nel film Sorry, we miss you. Scrive Marx: “Il lavoratore è proprietario della propria forza lavoro finché, come venditore di essa, non contratta con il capitalista; ed egli può vendere solo quello che possiede: la sua individuale forza-lavoro isolata. Questo rapporto non cambia minimamente per il fatto che il capitalista compri 100 forze-lavoro invece di una e che, invece di concludere un contratto con un singolo lavoratore, lo concluda con 100 lavoratori indipendenti l’uno dall’altro. Può impiegare i 100 lavoratori senza farli cooperare. Il capitalista paga dunque il valore delle 100 forze-lavoro autonome, ma non paga la forza-lavoro combinata dei cento lavoratori. Come persone indipendenti i lavoratori sono presi come dei singoli che entrano in rapporto con lo stesso capitale, ma non in rapporto reciproco fra sé. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a sé stessi” (p. 33).  Come si vede, dopo la fine del ruolo delle fabbriche e della forza dei sindacati, il potere sulla cooperazione da parte del capitalista si è rafforzato ancora di più grazie al gioco dei contratti di lavoratori autonomi. Oggi sembra che vi siano in Europa 52 milioni di lavoratori a bassa qualificazione che fanno i rider e tutti con contratto di lavoratori autonomi.

Infine il rapporto tra tecnologia e espulsione dei lavoratori. Marx osserva che l’industria moderna non tratta mai come definitiva la forma presente di un processo di produzione. La sua base tecnica è rivoluzionaria e si modifica continuamente sia dal punto di vista tecnologico sia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro. È ciò a cui abbiamo assistito, per esempio, a partire dagli anni ’80 e in particolare negli ultimi tempi. Questo continuo cambiamento sconvolge le funzioni dei lavoratori e i modi di organizzare la cooperazione, “così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di lavoratori da una branca all’altra della produzione. La natura della grande industria porta quindi con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità del lavoratore in tutti i sensi” (p. 493). Ciò comporta il fatto che al lavoratore è tolta la tranquillità, la solidità e la sicurezza sulle sue condizioni di vita e che vi sia continuamente la minaccia di rendere il lavoratore superfluo. Ciò sfocia “in un ininterrotto banchetto sacrificale della classe lavoratrice, nella più smisurata distruzione delle forze-lavoro e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale” (p. 494). 

De te fabula narratur! Se pensate che queste considerazioni siano superate, la logica conclusione è che il capitalismo non esiste più! Esiste solo il mondo della libertà individuale, poco importa che esso si imponga a danno di altri individui. Quanta ipocrisia morale e intellettuale vi è nell’uso della parola libertà quand’essa si applica alle condizioni di diseguaglianza e allo sfruttamento sul lavoro che la globalizzazione ha reso del tutto planetarie!

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