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Guardare con i propri occhi / Il Covid-19 e la nuova visione del mondo
Covid-19. Pandemia. Coronavirus. Lockdown. Sono termini con i quali abbiamo imparato a convivere negli ultimi nove mesi. Durante questo periodo un virus invisibile è circolato mentre l’uomo è stato costretto a rinchiudersi in casa. Una condizione impossibile da credere prima poiché mai l’essere umano avrebbe immaginato di non poter disporre della propria libertà di movimento a causa di qualcosa che non è possibile vedere. Come è stata vissuta questa esperienza nell’ambito della fotografia, linguaggio da sempre utilizzato per raccontare cosa succede nel mondo?
Alcuni festival hanno deciso di esserci. Organizzativamente tutto si svolge garantendo al pubblico una fruizione che non faccia sentire troppo la differenza tra il prima e il dopo, ma un cambiamento appare inevitabile e irreversibile e non riguarda le regole comuni del distanziamento cui ci stiamo abituando bensì un altro tipo di distanza che fotografi e organizzatori non hanno percepito, travolti dall’essere “dentro” gli eventi e dunque non in grado di guardare con il distacco necessario di chi osserva ed elabora.
Cortona On The Move, SI Fest, il Festival di Fotografia Etica di Lodi sono solo alcune delle principali manifestazioni attualmente in corso, tutte hanno acceso i riflettori sull’interpretazione che fotografi professionisti e non hanno restituito di questo vissuto per molti aspetti straniante. Si possono vedere esposizioni di immagini dal vero e online che mostrano lo smarrimento del non sapere come affrontare la vita quotidiana ma i risultati, nella maggior parte dei casi, non riescono ad avere una funzione di vero approfondimento.
Ciò che emerge dalla visione di queste narrazioni è che ognuna di queste realtà si è sentita spinta verso la necessità di documentare ciò che è accaduto e sta ancora accadendo in una modalità che ci fa domandare: ha ancora senso farlo così? Ha senso raccontare nello stesso modo di sempre gli eventi? Cosa possono aggiungere immagini puramente illustrative a un vissuto del quale non si percepisce la sostanza?
Le direzioni artistiche si sono concentrate su autori che hanno rappresentato stati d’animo descrittivi oppure si è scelto di lanciare contest liberi all’interno dei quali sono state fatte scelte necessariamente povere di contenuto, non perché gli autori tutti non fossero all’altezza ma perché la condizione dell’evento in corso non ha permesso di interpretare.
Non è difficile fotografare le città vuote con inquadrature pulite e asettiche nel corso di una pandemia mondiale che costringe gli individui a restare a casa. È normale che le strade di città come la Londra fotografata da Simon Norfolk in “Lost Capital” o come la Firenze di Edoardo Delille in “Silenzi” – dove l’autore stesso dice: “Mi sono ritrovato in una città quasi spettrale nella sua rinnovata bellezza” – risultino metafisiche, con strade e piazze dechirichiane, belle esteticamente (entrambi gli autori sono presenti sulla piattaforma The Covi-19 Visual Project concepita da Cortona On The Move).
E proprio il prevalere dell’estetica non ci dice nulla dell’angoscia che si sta vivendo nelle case, le immagini patinate non riescono ad andare oltre l’esclamazione di meraviglia per l’improvvisa bellezza. L’obiettivo del fotografo si concentra su aspetti scenografici dove la perfezione dell’inquadratura, della luce del tardo pomeriggio che lambisce le calme acque del Tamigi fanno riscoprire una città perduta, appunto, ma che non emoziona.
“Ho scelto di scattare nelle ore del giorno in cui di solito le vie del centro sono piene di persone. – dice ancora Delille – Le ore in cui di solito è difficile fare una bella fotografia all’architettura dei monumenti. La luce molto cruda di queste giornate svela ancora di più l’assenza dell’uomo”. Come non può essere altrimenti poiché per poter fare questo tipo di fotografia l’uomo deve giocoforza essere assente. La novità per Delille starebbe nell’ora in cui ha prodotto gli scatti, quando normalmente le persone invadono i luoghi, ma questo dal lavoro non appare così evidente. Inoltre l’ultima cosa che, a mio parere, possa stimolare la sensibilità dell’osservatore in un momento come questo è la bella fotografia di un monumento senza presenza umana. Siamo certi che questo tipo di immagine rappresenti davvero il Silenzio, presumibilmente intimo, cui allude il titolo del lavoro?
Il vuoto urbano con tutto il suo portato di silenzio inaspettato è certamente una condizione cui nella contemporaneità non siamo più abituati, un tema di sicuro impatto visivo ma che per poter emozionare ha la necessità di essere “sporcato”, di appartenere a quel vero che nulla ha di estetico, tant’è che la restituzione che queste immagini ne fanno è una rappresentazione scenica che appare costruita.
L’uomo si auto-espelle dal luogo come atto dissacrante per recuperare il luogo stesso così come egli lo ha concepito e riempito. In tal senso si veda il lavoro “Locked in Beauty” di Paolo Wood e Gabriele Galimberti, sempre sulla stessa piattaforma, dove la scena che viene rappresentata è quella di un museo vuoto in cui le opere scultoree dialogano con la propria ombra (che diviene anche l’ombra dell’autore). Ancora un’idea di “bello” che emerge attraverso l’assenza dell’umano. Che messaggio arriva con questo tipo di immagini? La sensazione è quella che l’uomo non sia più degno di calcare queste scene e dunque che la sua assenza è auspicabile affinché si possa apprezzare ciò che egli stesso ha creato.
C’è poi un altro tipo di estetica, quella della solitudine delle persone lasciate sulla soglia degli ospedali e riviste soltanto molto tempo dopo, se non addirittura mai più. Come si elabora una tale tragedia? Come la si rappresenta? Alex Majoli percorre l’Italia intera colto da una irrefrenabile frenesia di documentare queste solitudini: cosa accade per le strade delle periferie, nelle sale degli ospedali, nelle chiese vuote.
Racconta, Majoli, con la sua abituale professionalità che sfocia in un crudo bianco e nero, come sia partito casualmente da Reggio Emilia per arrivare fino a Palermo.
“Una volta – dice – un servizio così l’avrei fatto con 80 rullini, 2.500 scatti. Oggi, ovviamente, non ha neanche senso contarli. Alla fine, comunque, restano un’ottantina di immagini e una cinquantina sono il prodotto finale”. La conta degli scatti che compongono il “prodotto”, anche qui: le parole del fotografo sono asettiche, allontanano invece di avvicinare. Cinquanta scatti per documentare un evento epocale sono molti, sono pochi? Che importanza ha? Il “servizio” di cui parla Majoli appare espressione davvero straniante in una condizione come questa. Il desiderio di rubare momenti di disagio insito in ciascun reporter che si rispetti impedisce anche in questo caso di restituire una pietas che permetta di recuperare l’uomo. Di vicende che segnano un periodo nella Storia dell’umanità parla ancora Majoli, e della responsabilità di cui tener conto, mentre si scatta, di mostrare ciò che egli già chiama la Storia. Eppure la storia non è di per sé estetica o caravaggesca, come qualcuno ha già definito questi suoi scatti.
IDE. Identity Dialogues Europe è il contributo del SI Fest alla narrazione del vissuto in tempo di pandemia. Una narrazione che collega quattro diverse città Europee – oltre a Savignano, Copenhagen, Amsterdam e Saragozza – tesa verso la ricerca di una “identità” che pare essersi perduta. L’Europa, il continente più di ogni altro rimasto attaccato alla propria storia e alle proprie tradizioni, scopre di non avere più radici, di stare vivendo un’importante evoluzione dal punto di vista antropologico grazie alla forte migrazione dall’Est e dal Sud del mondo.
Osservando però le loro immagini la sensazione è che questi autori non sappiano come mostrare né dove cercare tale “nuova identità” e che questa, oggettivamente molto complessa, non possa passare che attraverso i volti e le azioni quotidiane dei soggetti ripresi, rappresentati in modo anche qui “scenografico” nei luoghi in cui vivono, si tratti di comunità stanziali straniere, come quella senegalese che da 10 anni vive a Savignano sul Rubicone fotografata da Marine Gastineau (1983, Francia) o quella dei rifugiati con le loro storie estreme vissute ai confini tra le nazioni che compongono il mosaico europeo e ritratti da Martin Thaulow nei suoi dittici (1978, Danimarca). Lo smarrimento entra a far parte dell’immagine restituendo l’impossibilità stessa del narrare poiché l’immagine pare aver esaurito qui la propria funzione. Non appare la verità dell’identità che forse mai più vedremo perché non c’è più. C’è la “storia” al centro, come dice Thaulow a proposito del suo lavoro che non vuole appaia veritiero (intende puramente documentale?), ma che fonde il documentario con la costruzione di uno spazio più artificiale, mettendo nel mezzo il racconto delle storie delle persone. Una vera e propria rappresentazione con tanto di scena e personaggi.
Dunque dove e come possiamo vedere questa nuova identità? Si tratta dell’interpretazione dell’autore che trasforma la storia stessa per cercare di ottenere l’attenzione di un pubblico atrofizzato da tempo: “È più una scelta artistica – dice Thaulow – che gioca con il tempo, lo spazio e le realtà parallele esistenti”. La casa sicura, con luci calde e una televisione accesa, vista in relazione a Maher profugo siriano che cerca di sopravvivere in un letto d’ospedale, uno dei suoi dittici più forti.
Il Festival della Fotografia Etica di Lodi infine include il Comune di Codogno nel circuito delle mostre ufficiali e lo fa con una collettiva dal titolo “La vita al tempo del coronavirus”. Pur con tutto il rispetto per il pesante tributo pagato da questa cittadina, scintilla che ha acceso nel nostro Paese la polveriera esplosa a primavera, non si ravvisa in queste immagini nulla che non sia puramente documentario. Mi si potrebbe obiettare che questa è da sempre la mission del festival: raccontare cosa accade nel mondo attraverso il reportage. Ma cosa ci racconta l’immagine di un operatore sanitario riverso sulla tastiera di un computer distrutto per il troppo lavoro che già non siamo in grado di immaginare?
La questione è che la domanda principale che ci si dovrebbe porre è: cosa significa etica? Perché la selezione fatta mostra per lo più storie in cui compaiono situazioni di denuncia, di fatti che avvengono in un mondo “brutto”. Questo non ci aiuta a capire né i fatti stessi né il vissuto dei soggetti ritratti. Non ci aiuta ad essere più sensibili di quanto già non lo siamo, ma soltanto più impotenti e, in ultima analisi, meno propensi al coinvolgimento poiché non ci viene restituita nessuna condizione di “buone pratiche” ma solo fatica e dolore.
L’etica tocca temi e situazioni in cui l’essere umano sviluppa un comportamento che dovrebbe andare nella direzione opposta: mostrare contenuti che infondano fiducia nell’uomo, una positività che aiuti a guardare il futuro in modo costruttivo. Le narrazioni presenti in queste mostre sono invece ancora una volta, in tal senso, povere di coraggio, descrittive, timide e non basta la discrezione del fotografo nel compiere il proprio lavoro a far sì che si tratti di lavoro “etico”.
La bellezza, intesa come atto etico al di fuori dell’inquadratura estetizzante, è presente a Lodi e lo è in un lavoro che non a caso si intitola Pathos del fotografo italo-svizzero Giorgio Negro il quale, con autentico comportamento etico, ha attraversato il vasto territorio sudamericano non con l’intento di documentare, non con quello di mostrare la negatività bensì semplicemente con quello di ritrarre l’uomo nel suo mondo. Senza giudizio alcuno, Giorgio Negro ha fotografato una realtà senza filtri, cosa non facile per un professionista della mediazione in situazioni di guerra o di pesante disagio quale egli è stato per venticinque anni della sua vita lavorando per la Croce Rossa Internazionale. Ma in effetti Negro non è un fotografo professionista, non fa la conta degli scatti che gli permetteranno di confezionare il “prodotto di un servizio”. Il suo unico intento è stato (ed è ancora) quello di errare in questi luoghi nei pochi momenti di respiro che il suo pesantissimo lavoro gli concedeva osservando con i “suoi occhi”.
Pathos ci dice che oggi più che mai occorre tornare a fare “spazio” dentro di noi. L’enorme quantità di immagini con cui, in questo momento storico, chi pratica la fotografia si è sentito in dovere di invadere il web e i luoghi fisici che hanno potuto esporla è arrivata a un punto di non ritorno, al momento in cui gli occhi si rifiutano di guardare. Persino la fotografia documentaria, etica o meno che sia, deve darsi una battuta d’arresto. Cosa aggiungono milioni di visioni riversate nella rete a un vivere quotidiano fatto sempre più di incertezza? Nulla. Rimane, forse, soltanto il conforto di essere (o sembrare di esserlo) uniti nella disgrazia. Analogamente all’elaborazione di un lutto, comprendere cosa accade non appartiene alla sfera del fare ma a quella dell’ascoltare, in primis la propria coscienza.
Non è più questo il tempo di mostrare ogni cosa, soprattutto non è più questo il tempo dell’accumulo. Le immagini si ripetono tutte uguali, omologate a un senso del guardare che non riesce ad andare oltre. Ma la soluzione è semplice quanto inaccettabile per una forma mentis ove tutto appare affastellato, senza ordine alcuno. Trovare “interessanti” immagini che registrano le reazioni alla pandemia nel mondo appare nella maggioranza dei casi un esercizio fine a se stesso.
C’è un tempo di elaborazione che non può prescindere dal tempo stesso. Voler tornare alla “normalità” praticando una corsa vertiginosa alla documentazione non conduce più a una riflessione, bensì a scorrere gli elementi di un file virtuale che possiamo aprire e chiudere quando vogliamo. Qual è allora l’identità da recuperare di cui stiamo parlando? Qual è la nostra identità? Occorre guardare con i propri occhi, quelli che non conosciamo più.
La fotografia non può essere solo racconto di storie, deve educare al dolore ma anche alla gioia, a tutte quelle sfumature dell’amore e della passione che ancora ardono sotto le ceneri per poterle risvegliare. Se da una mostra usciamo incolumi, che senso ha averla vista? Guardare belle immagini anche commoventi ma che non lasciano tracce e ci fanno dire soltanto “bello” e “interessante” non ci restituisce nulla che assomigli a una riflessione. E allora è forse giunto il momento di chiuderli, gli occhi: “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” diceva Marisa Merz in una sua mostra di quarantacinque anni fa: un tempo lontano? Un tempo finito? Forse un tempo mai cominciato.