Il design di Aldo Rossi in mostra a Milano
Milano si riconferma ogni giorno di più quale capitale culturale del Design. Infatti, accanto ai musei istituzionali che gli sono dedicati, quali il Triennale Design Museum, l'ADI Design Museum Compasso d’Oro, il Circuito dei Musei e degli Archivi del Design (MUDE), con le rassegne temporanee da essi via via promosse, fioriscono in città anche altri importanti eventi espositivi, allestiti in sedi pubbliche non esplicitamente deputate al design, quali, ad esempio, il Museo del Novecento e la GAM, dove attualmente sono in corso, una mostra sul design di Aldo Rossi, nel primo, e una su quello di Joe Colombo, nella seconda.
Da tempo speravo venisse dedicata una mostra al design di Aldo Rossi (1931–1997), infatti, sebbene io abbia letto molto sull'attività progettuale di questo straordinario architetto – il primo tra gli italiani a vincere, nel 1990, il prestigioso Pritzker Architecture Prize, che corrisponde al Nobel per l’architettura – non mi è mai capitato di trovare censiti in un'unica pubblicazione gli oggetti e i numerosi elementi d'arredo da lui ideati e neppure di poterli ammirare dal vero tutti insieme, i noti e i meno noti. Finalmente, ecco la bella mostra milanese soddisfare appieno la mia curiosità riservandomi anche parecchie sorprese, insieme ai due cataloghi, quello più agile che la accompagna, accanto a quello ragionato dell'intera produzione del maestro sia di oggetti che di arredi, entrambi per i tipi di Silvana Editoriale e tutti e due con lo stesso titolo della rassegna espositiva: Aldo Rossi. Design 1960/1997 (pp. 72, € 12.00, il primo; pp. 272. € 75.00, il secondo).
Visitabile fino al 2 ottobre 2022, questa è stata curata da Chiara Spangaro, responsabile scientifica della Fondazione Aldo Rossi, con l'allestimento di Morris Adjmi e il light design di Marco Pollice. Il catalogo ragionato contiene, insieme al testo di Spangaro, quelli di Francesca Appiani e Luca Bottiroli (Museo Alessi); di Domitilla Dardi; di Francesca Molteni e Peter Hefti (Molteni Museum); di Cristina Moro e vede l'apporto scientifico di Bruno e di Serena Longoni.
Si tratta, insomma, di un evento espositivo ed editoriale non soltanto atteso da tempo, ma anche fondamentale e soprattutto dovuto, realizzato grazie alla collaborazione con musei e archivi aziendali (Museo Alessi; Molteni Museum; archivi di Bruno Longoni Atelier d'arredamento e di Up Group); collezioni museali italiane e internazionali (Bonnefanten Museum, Maastricht; Centre Georges Pompidou, Parigi; Fondazione Museo Archivio Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Firenze; MAXXI – Museo delle arti del XXI secolo, Roma; Università Iuav di Venezia; Triennale di Milano) e diverse collezioni private.
Infatti, sebbene sia vero che il maestro, negli anni sessanta aveva palesato il suo parere contrario (di natura politica) al mondo del design, già dalla fine degli anni settanta però vi ci si è dedicato con passione, dando vita a pezzi divenuti dei must, insieme ad altri che questa rassegna presenta al pubblico forse per la prima volta.
E Morris Adjmi – dapprima allievo di Rossi all'Institute for Architecture and Urban Studies di New York e successivamente suo collaboratore associato – l'ha allestita in un modo che è al contempo rigoroso e seducente, come sapeva essere soltanto la progettazione del maestro milanese.
Visitarla è stato per me come entrare dentro una fiaba. Quasi fossi stata Alice nel Paese delle Meraviglie, o Gulliver, mi aggiravo, estasiata, tra gli oggetti inventati da Aldo Rossi che la fantasia di Morris Adjmi propone con inaspettate e improvvise variazione di scala, ora a grandezza naturale, altre giganteschi, altre ancora in miniatura, e che la maestria di quel 'genio della lampada' che è Marco Pollice illumina di una luce metafisica e soffusa, facendoli quasi brillare di luce propria, come fossero astri: oggetti reali di un firmamento fittizio. Una luce, insomma, che li fa essere ancora più misteriosi di quanto essi già non siano in virtù della loro vis progettuale.
E poi c'è il colore. Colore ovunque. Steso sulle pareti, ma anche fuoriuscente dai disegni su di esse appesi, in armonia o in dissonanza con quello degli oggetti esposti, ma sempre deciso ed emotivamente coinvolgente. Il colore, infatti, è uno dei protagonisti di questa kermesse, insieme alle forme e alla luce, come lo è degli acquarelli di Aldo Rossi. E che dire, poi, dello spazio espositivo? Questo, sebbene non sia esteso, ma, anzi, piuttosto raccolto, sembra dilatarsi in modo quasi surreale per effetto delle variazioni di scala a cui sono sottoposti gli oggetti che ospita. E allora accade che gli ambienti del piano terra del Museo del Novecento si trasformino a volte nell'isola di Lilliput, altre nella terra di Brobdingnag, altre ancora nella tana di Bianconiglio, in cui lo spazio sembra aumentare o restringersi per effetto della 'visione' degli oggetti ivi contenuti, su cui giocano le luci, i colori e le variazioni di scala a cui è sottoposta la loro forma, vero noumeno del tutto.
Già, perchè è di questo che ci narra Adjami con il suo incantamento: della purezza assoluta della forma rossiana. E con la sua mise en scène assolve egregiamente il difficile compito di rendere comprensibile il semplice attraverso il complesso.
Perché le forme di Rossi, sia quelle della sua architettura che quelle del suo design, non sono mai casuali e gratuite, sono, invece, forme archetipiche di matrice classica. Che egli le abbia desunte dalla romanità, o dal Palladio, oppure da Ledoux, o da Boullé, o le abbia mutuate dalla tradizione, europea, da quella americana o da quella giapponese, sono sempre filtrate attraverso un percorso che dal concreto (la storia) procede verso l'astratto, fino a raggiungere la quintessenza, la forma pura, assoluta, che però non perde mai la memoria della propria origine.
E così, ecco la prima sala, delle nove che compongono il percorso, dal titolo Poetica, oggetti e architetture, con le pareti campite di quel color rosa antico tanto amato dal maestro, presentare "Gli elementi fondanti del lavoro di Rossi" è scritto in catalogo "nel campo del design: il disegno, tecnico e poetico, il legame con l'architettura, tra variazioni di scala e ricerca cromatica, e il dialogo con i produttori di mobili e oggetti."
Ma questa è anche la stanza dedicata a un materiale prediletto da Rossi: il legno, così evocatore della magia della sua infanzia. Accanto al prototipo della Cabina dell'Elba (Bruno Longoni, 1980) e alla maquette del Teatro del Mondo (Biennale di Venezia, 1979), incontriamo le sedie AR2 (Bruno Longoni, 1982–83) e Milano (Molteni&C., 1987), insieme ad alcuni pezzi della serie Fiorentino (1992–1995), al modello dello Yatai di Pinocchio (Expo di Nagoya, 1989) "architetture collegate e trasportabili, in bilico giocoso tra l'abitare ed essere nomadi", ma soprattutto il primo prototipo della caffettiera La Conica (Alessi, 1982–84), con la quale è avvenuto il battesimo di Rossi nel mondo del design, officiante Alessandro Mendini (si legga qui su Doppiozero).
Così ne ha scritto lui stesso nel 1997:
"... devo dire che senza Crusinallo il mio interesse per il design sarebbe diminuito. Ma, fondamentalmente, fui attratto dagli oggetti domestici; caffettiere, bollitori, stoviglie, e orologi e lampade costituivano una sorta di casa abbandonata dell'infanzia o della senilità, una stagione mai presente dove le cose erano costruite per sempre possedendo quel sapore del sale che è possibile perdere ma che non può essere alternato. In questo senso, per una strada ancora diversa, mi scontravo con l'idea funzionalista e angusta di design: ho pensato all'immagine e che l'immagine dell'oggetto era tanto più forte di quella dell'architettura; e che ancora una volta l'indagine conteneva la funzione."
Al 'caffè dell'architetto' è dedicata la seconda sala, intitolata Il laboratorio dell'industria, dove, in un trionfo di caffettiere e di bollitori e in un tripudio di geometrie euclidee, tra cilindri, coni, cupole, sfere e cubi, campeggia una gigantesca La Conica.
Rossi "lavora assemblando volumi puri" scrive Spangaro in catalogo "che ripropongono su piccola scala il suo linguaggio architettonico, con rimandi e citazioni di oggetti d'affezione e degli elementi compositivi degli edifici: nascono così le cupole delle caffettiere e delle pentole – pensate come coronamenti di chiese, tendoni da circo o che evocano il Teatro del Mondo. [...] La caffettiera rappresenta per Rossi il passaggio dall'architettura all'oggetto di design: trattata come un monumento in miniatura, talvolta abitato" come appare in alcuni suoi famosissimi disegni.
Dopo la sala 3, dal titolo Un teatro domestico, in cui sono esposte la sedia Parigi (UniFor, 1989), la lampada Prometeo (Artemide, 1996), Tea & Coffee Piazza (Alessi, 1983) e l'orologio Momento (Alessi, 1987), accanto a disegni popolati da questi stessi oggetti, si accede ad un ambiente quasi metafisico, denominato Progetti d'affezione. Al suo centro troneggia un cubo gigantesco, le cui quattro facce laterali sono costituite da un fuori scala delle ante della libreria Cartesio (UniFor, 1994). Ma questo cubo fa riferimento anche ad un progetto rossiano – stavolta di una sua architettura emblematica – l'Ossario del Cimitero San Cataldo a Modena (1971 – 1978), "Qui citato per esplicitare una costante progettuale: la reiterazione del modulo quadrato e l'impiego del cubo come solido puro, adottato nelle architetture su scala urbana – nei progetti del Monumento alla Resistenza per Cuneo (1962) e del quartiere di San Rocco a Monza (1966), nel Monumento a Sandro Pertini a Milano (1988–1990) – e applicato anche nella progettazione su piccola scala, come per la pentola Cubica per Alessi [1991], un oggetto che attinge dalla tradizione gastronomica giapponese, che egli ha avuto modo di conoscere durante i suoi numerosi viaggi."
A me sembra anche un enorme Cubo di Rubik, dai quadratini però trasparenti, che funge da magrittiano mobile contenitore, in cui all'interno di ciascun loculo è ospitato uno degli 'oggetti d'affezione' progettati dal maestro. E allora ecco fare capolino da dietro il vetro le tazze ARDT e ARMUG (Alessi, 1981) e la caffettiera Pressofiltro (Alessi, 1986), un po' di mackinstoshiana memoria. E poi il fermacarte marmoreo Sannazzaro (Up Group, 1987), che riproduce in miniatura il progetto della Piazza di Sannazzaro de' Burgundi (1967), che Rossi, purtroppo, non ha mai realizzato. Da altre vetrine occhieggiano alcuni prototipi opera di Giovanni Sacchi, leggendo i quali è possibile cogliere l'evoluzione del percorso progettuale di un singolo oggetto. Ci sono poi micro maquettes di architetture rossiane: fari in miniatura (Rosenthal, 1994); miniature di tavoli (Rilievo 1 e Rilievo 2, Up Group, 1985) e altri complementi d'arredo da lui progettati insieme alle penne a sfera La conica e La cupola (Alessi, 2008).
Superato l'ambiente numero 5, Artigianato e Design, in cui sono esposti, in un coinvolgente tripudio di forme e di colori, i dodici tappeti realizzati dalle tessitrici di Zeddiani (Otistano) con disegni di Aldo Rossi, si accede alla stanza centrale della rassegna, al suo cuore. Lunga e stretta, com'era la Stoà greca, ha al proprio centro una pedana altrettanto lunga, sopra la quale sono poggiate tutte le sedute ideate dal maestro. Intitolata Varianti d'arredo, presenta, su un lato, una enfilade del sistema modulare Cartesio, che richiama le "tipiche facciate degli edifici di Rossi, dalle finestre quadrate a croce centrale, come la scuola elementare Contaldo Ferrini di Broni (1969–1971), o il Centro direzionale di Fontivegge a Perugia (1982–1989), progetto multifunzionale sviluppato sull'area industriale ex IBP."
Sull'altro lato corrono invece in serie alcune librerie in marmo Tabularium (Up&Up, 1985), dove sono esposti disegni di progetto e disegni domestici. Sui lati corti della stanza, fanno poi bella mostra di sé alcuni esemplari dei bellissimi mobili Papyro (Molteni&C, 1989) e Carteggio.
Varianti d'arredo, raccoglie, infatti i mobili messi in produzione su progetto di Aldo Rossi, esposti al pubblico tutti insieme per la prima volta.
La più onirica delle stanze della mostra è la numero 7, fra tutte senza dubbio la più intima e la più emozionante. Intitolata Biografia domestica, in essa Adjami ha voluto creare, come in un locus della memoria, una specie di collage/riassunto degli ambienti domestici privati e di quelli di lavoro di Aldo Rossi (gli studi milanesi di via Maddalena e di via Santa Maria alla Porta), ricostruiti a partire dalle inquadrature di alcuni scatti (certi noti, altri meno) di Luigi Ghirri e di Stefano Topuntoli. Il risultato è sorprendente: pare davvero di muoversi dentro un sogno, oppure sul set di un film i cui protagonisti sono gli oggetti amati da Rossi e il loro modo di stare insieme, di stringere relazioni di senso fra loro e con il loro proprietario-ideatore, deus ex machina della scena. Per effetto di suggestione, sembra, allora, che le papere di legno e le caffettiere interagiscano le une con le altre, come fanno il soldatino-principe e la bella ballerina Clara nello Schiaccianoci di Čajkovskij dandoci l'illusione che anch'esse, vivificatesi come quelli, danzino per noi.
"La Conica, La Cupola, due papere di legno" scrivono Vara e Fausto, i figli di Aldo "un giorno erano in fila sul bordo del camino, qualche giorno dopo erano in gruppo sul tavolo della cucina, insieme alla statuina di un santo, a un porta candele e al cavallo di legno chiamato Capodanno, più volte disegnato e fotografato da nostro padre."
Sono solo io con la mia fantasia a pensarlo, oppure a tutti viene in mente, percorrendo gli spazi di questa sala stupefacente, il quadro dj René Magritte, Les valeurs personelles? Anche Adjami lo aveva in mente, quando l'ha creata?
L'emozione che ci si porta dentro giunge al culmine quando, oltrepassata la sala de Il design nell'architettura, con la libreria Piroscafo, (progettata con Luca Meda, prodotta da Molteni&C. nel 1991 e proposta al Salone del Mobile, due anni dopo, in questa stessa, curiosa, versione a mo' di bastimento), ancora una volta, come Alice in Wonderland, si approda (o, per meglio dire, si attracca) all'ultimo ambiente della mostra, dove è ospitato il modello gigantesco del Teatro del Mondo.
E mentre sulle pareti scorrono le immagini del filmato del viaggio via mare del vero Teatro del Mondo da Venezia verso Dubrovnik (1981), le luci di Marco Pollice ne illuminano il modello, animandolo, come fosse il fratello maggiore di quelle architetture in miniatura che a Natale, a Napoli, contrappuntano i presepi.
Ed è subito incantamento.
La mostra finisce così.
Dispiace lasciarla per tornare alla vita reale.
Meno male che fuori c'è la magia del Duomo ad accoglierci.