Il Mondo Nuovo di Armando Punzo

22 Luglio 2022

Cancellare il carcere. Da sempre Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza ha cercato di realizzare questo obiettivo, in quella che era una delle prigioni più dure, la Fortezza medicea di Volterra. Dopo qualche anno dedicato a un lavoro costante, con ricerche, studio, prove, spettacoli, il carcere lo ha cambiato davvero. Quando si entra per assistere all’annuale messa in scena, la prigione presto te la dimentichi.

C’era un festival, intorno agli spettacoli della Fortezza, e ora non c’è più, perché i finanziamenti si erano ridotti tanto da renderlo poco incisivo, poco capace di rimanere all’altezza delle invenzioni che si svolgevano tra le mura della prigione. Quando c’era però quel festival, Punzo lo aveva dedicato ai “teatri dell’impossibile”, teatri che sfidano quella che concepiamo come realtà, la rovesciano, provano a cambiarla totalmente, non accettando limitazioni. Vi hanno partecipato allievi di Brecht e ex galeotti che avevano ottenuto la libertà per meriti artistici, poeti e filosofi, teatranti radicali.

Soprattutto, nelle ultime edizioni, tutto il cortile del carcere e annessi era stato trasformato in vari spazi teatrali. Si passava da una gabbia con sbarre all’altra e si vedevano spettacoli (e le sbarre sembravano scomparire); si entrava in celle e stanze in percorsi che portavano dagli ambienti della Fortezza in altri mondi: nelle trasformazioni di Alice nel Paese delle meraviglie contaminate con Amleto, nelle sontuose stanze di Genet che travestivano marginali e criminali in figure sante e nobili, rivelatrici di umanità.

Dal 2015 tutto questo all’artefice napoletano non è più bastato: la sfida doveva essere ancora più lancinante. Bisognava abbandonare il vecchio mondo, il repertorio, il libro dei casi umani irrimediabili compilato da Shakespeare e dalle sue opere; bisognava scartare totalmente da quella che chiamiamo realtà, per disegnare mondi più umani, dove non si rimanga incollati a ruoli predefiniti, dove non si venga bollati per tutta la vita per quello che il destino, le circostanze o l’origine sociale hanno voluto compissimo. L’intento era eliminare etichette tipo “detenuto”, “criminale”, ma anche “artista”, “teatrante”, e riscoprire nient’altro che l’uomo che cerca, in sintonia con la natura: per provare ad apprestare scenari per un futuro nuovo.

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Evidentemente quello di Punzo è un teatro che non può piacere a Salvini, a Berlusconi, a Trump, a tutti quelli che sono convinti che la natura umana sia immodificabile, segnata una volta per tutte. A tutti coloro che pensano che del carcere bisognerebbe buttare la chiave e incollare alla pena chi si è macchiato della colpa. E neppure può piacere alla marea montante dei teatri che credono che basti dare una pennellata politica alle proprie opere per salvarsi la coscienza, che pensano che nel carcere bisogna incistarsi nelle biografie, incollando le persone a ruoli definiti una volta per tutte. 

No: Punzo dopo aver cancellato mentalmente le sbarre, dopo essersi rifiutato di mettere in scena la condizione dei detenuti e averli cercati, indagati, provocati come esseri umani, dotati di corpo, voce, immaginazione, è andato oltre. Ha iniziato a visitare territori impervi, ancora inesplorati, un mondo astratto, ossia che parte da quello che siamo per andare verso le isole dell’utopia. Negli spettacoli realizzati dal 2017 ha visitato le proiezioni immaginative di Borges, con un nitore a metà tra il Bauhaus e certe intuizioni di Kandinskij. Ha costruito, nei suoi spettacoli, mondi sospesi, carichi di forza immaginale, macchine visive e sonore che assomigliano a un carillon orchestrato; che certe volte hanno lo spoglio nitore e la freddezza della cristalleria, ma che alla lunga rivelano un magnetismo che trascinano in gorghi di sensi nuovi chiunque vi entri in contatto.

L’ultima tappa di questa ricerca, che non si è interrotta neppure durante la pandemia, soltanto ponendosi limiti e impiegando più tempo per arrivare a questo episodio (per ora) finale, si intitola Naturae la valle della permanenza. È stato rappresentato in carcere fino al 17 luglio, ma è pronto nei prossimi giorni a moltiplicarsi, con ritorni a spettacoli precedenti e con repliche, in altri ambienti (vedi il calendario in fondo all’articolo).

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La scena, nel cortile della Fortezza, sotto il sole del pomeriggio, è abbacinante. Bianco il pavimento, bianche le pareti, quadrettati, a introdurre subito un principio di geometria, calcolo, di prospettiva: di costruzione. Bianche strutture, anch’esse organizzate in moduli quadrati, a forma di parallelepipedi o di cubi stanno nei due lati della scena lunghissima.

Punzo, in nero, protagonista come in tutte le ultime opere, emblema dell’uomo che cerca, attraverserà questo catino del futuro, accompagnato da uomini in vesti rosse, bianche e nere, dorate, spesso acconciati come sacerdoti di antichi culti misterici. Non mancheranno l’uomo lanterna di spettacoli precedenti, né scale rosse che richiamano La deposizione di Rosso Fiorentino nel Museo della città, e neppure portatori di catini di acqua per abluzioni rituali, di candele, uomini libro, una donna rete (la Desdemona di un precedente lavoro), una testa di coniglio che richiama quello di Alice. 

Nello spazio Punzo muove una leggera sfera rossa. Entreranno poi altre figure geometriche, una sfera più piccola, una piramide, altre sfere, cubi eccetera, insieme alla musica persistente, colonna sonora quasi da melodramma minimalista con accelerazioni emotive, insieme a un testo per lo più detto da una voce femminile fuori campo, a disegnare questo mondo che richiama il Kandinskij del Cavaliere azzurro, quello che cercava lo spirituale dell’arte, al di là e oltre il significato, e quello passato attraverso l’utopia progettista del Bauhaus di Punto, linea, superficie.

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 La voce intanto punteggia le azioni:

“Cancellare la realtà che mi pervade. Per crearne una nuova, che non ricorda le sue origini.

Uno spazio non misurabile che appartiene alla natura ideale e trascendente dell’uomo”…

“Senza limiti, senza inibizioni, senza condizionamenti, senza temere nulla, senza paure, sempre, in qualsiasi momento.

Non avere niente, non lasciare niente di sé, nessuna traccia, come una vita che passa, come un’esistenza che brucia, che non si ricorda, fino in fondo, fino all’ultima goccia di sudore, senza più sentirne il sospiro, senza sapere più nulla.

Senza conoscere nulla”…

“Sono donna, sono uomo, sono animale, sono pianta, vento, materia, terra, sono acqua, sono tutto ciò che esiste e non esiste”...

“Oggi nasco per la prima volta. Oggi nasco per la prima volta”...

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Libri, coppe, guanti di ferro e pezzi di armatura, un candeliere. Figure umane come in una natura morta, vivissima: accumulo di tipi e sogni. Uomini dorati. Sospensione del tempo e dello spazio. Violazione dei limiti. Vorticare sufi: alcuni attori fanno girare ombrelli aperti, vorticano essi stessi, fanno vorticare le strutture geometriche che si trovano sui lati della scena.

Spazio di una visione, di un incanto, di una magica sospensione: che vuol dire ricerca di qualche cosa che sta altrove, forse dentro nella psiche, forse sospesa in tempi e spazi da inventare. Ricerca, oltre il vuoto della vita attuale, oltre la casualità e la causalità, di permanenza (di un assoluto quasi impossibile da raggiungere?). 

Del corpo del protagonista, di Punzo, viene tracciato con una polvere il negativo, su un telo. La quadrettatura della scena, le sfere, vengono guardate come se fossero punti generativi di prospettive. Decostruire per ricostruire; partire dal fantasma per ritrovare il corpo: come se ci cercasse di raccontare, di raffermare, tutto quello che sfugge. Di cercare oltre il senso, nell’assoluto ambiguo dell’immagine immaginata. 

“L’inizio è nella sottrazione… essere ancora meno”. Uomini ingessati sul volto e sul busto nudo, con lunghe gonne. Rami secchi rossi nei parallelepipedi bianchi.

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Se ti lasci distrarre dal ritmo della fantasmagoria e guardi i volti degli attori, riconosci in queste figure, in queste astratte visioni, i carcerati, volti di proletari, di esclusi dal banchetto del mondo, scolpiti, magri, muscolosi, con pance e chili di troppo per essersi lasciati andare, scattanti, tatuati… È la fessura che apre al reale del carcere, del mondo, alla materia organica magmatica che Punzo cerca di cancellare, di modellare, di mutare. E ci riesce. 

La distrazione dura un attimo: di nuovo, nella visione, gli attori sono tutti sacerdoti di un rito che non sappiamo dove porterà, ma che ci chiede di andare, con loro, da qualche altra parte. Con gioia che si fa contagiosa, questa volta, superando la bellezza algida di tappe precedenti. Lo spazio si svuota di figure e poi si affolla, con azioni distese o convulse. Una donna in rosso lo attraversa. Il corpo combatte, in fondo, con la geometria, rivelando, sotto sotto, che se un’utopia dovrà essere attinta essa si baserà comunque su quella braccia, quei torsi, quelle mani, quei volti.

Sogno. Gusto di superare i confini. Sognare sapendo di sognare, ci suggerisce lo spettacolo. Ricerca di paradisi perduti o di una porta alla fine dei labirinti delle esistenze (o all’inizio). Profili arabi, balcanici, napoletani, dell’Africa nera. La meraviglia di una voce angelica, quella di Isabella Brogi, che canta e porta vicino all’estasi. Proiezione nello spazio dell’infinito. Sul bianco Punzo lancia polveri di colori, blu, rosso, giallo, quelli puri delle costruzioni pittoriche di Mondrian… Azione, sospensione, action painting, pittura come utopia, come cura asemantica dell’arte alla furia di significati della vita; arte come rimedio, come vortice, che apre strade alle infinite possibilità. Visione di un contagioso Paradiso, che si trova dove non sappiamo, ma che ci rapisce, portando tutti gli spettatori in piedi, accaldati, ad applaudire senza accennare a voler smettere.

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Tutto questo è realizzato con una settantina di detenuti, compresi nei propri ruoli, perfetti. E con il contributo di una schiera infinita di fidi collaboratori esterni, a partire da Andrea Salvadori per le musiche ipnotiche, da Emanuela Dall’Aglio per i costumi di sogno, da Alessandro Marzetti per le scene, insieme a Punzo, con la cura organizzativa di Cinzia de Felice.

Progetto Naturae entra nel programma di Rigenerazione umana di Volterra prima città Toscana della cultura.

Il 21 l’Anfiteatro del Triangolo Verde di Peccioli ha visto un adattamento particolare di Beatitudo, spettacolo del 2018, ambientato nel tempio invaso dalle acque frutto di un lavoro di rigenerazione di una discarica.

La valle della permanenza torna in scena a Saline di Volterra, nella salina, il 24 alle 18.30 e alle 21.30, con un allestimento site specific.

La Compagnia della Fortezza sarà in scena il 28 nel Teatro del Silenzio di Lajatico per accompagnare con immagini, oggetti, costumi realizzati con materiali di scarto, il concerto di Andrea Bocelli.

Le fotografie di Naturae sono di Stefano Vaja.

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