Il naufragio di Ulisse. Un viaggio nella nostra crisi

17 Agosto 2023

Il libro di Mauro Bonazzi, Il naufragio di Ulisse. Un viaggio nella nostra crisi, Einaudi 2023, 12 euro) tenta di rendere ragione della sorprendente metamorfosi cui è sottoposta l’immagine di Ulisse: lo troviamo infatti, nelle prime pagine, immobile su uno scoglio, le guance rigate di lacrime mentre fissa l’orizzonte che cela l’amata Itaca; lo ritroviamo poi trasfigurato, nel 1968, in un dipinto di De Chirico, su un vascello che gira a vuoto nello spazio di una stanza metafisica, mentale, gli occhi bassi, preso dalla smaniosa necessità di reperire un senso. 

Nel mezzo si trova tutto il travaglio del pensiero occidentale, l’Odissea del suo, nel nostro, desiderio di conoscere. L’aggettivo possessivo presente nel titolo – la nostra crisi – è ribadito incessantemente: il nostro Ulisse, il nostro tempo, il nostro spazio; tutto questo ci riguarda, parla per immagini di ciò che siamo oggi, delle nostre paure e aspettative. 

Innanzitutto conoscere è un desiderio, e ogni desiderio è movimento: parlare di conoscenza significa parlare di viaggi e delle immagini del viaggio che prima Omero, poi Dante e infine Nietzsche tratteggiano per indicare l’insopprimibile pulsione di sapere che ci abita. 

Tuttavia è necessario introdurre una cesura: la direzione del viaggio omerico, greco, ha sempre come méta un centro perduto, cui si vuole fare ritorno. La nostalgia di Ulisse è la nostalgia per l’anima perduta: “la nostra patria è lassù, da dove siamo venuti, dove è il nostro pater spiritualis” scrive Plotino, l’ultimo filosofo greco, nelle Enneadi. Conoscere è ri-conoscere, tornare, è un movimento ricorsivo, che ricompone un oblio, non aggiunge nulla ma ricongiunge ciò che è stato separato. 

Il nostro Ulisse, la controparte di Dante nell’Inferno, ha tratti ben diversi, non conosce il pianto e la direzione del suo movimento è centrifuga, vuole sfondare i confini, andare al di là delle colonne d’Ercole dove è scritto non plus ultra: si tratta di un Ulisse che incarna le pulsioni del pensiero umano, le sue derive, i suoi rischi, che Dante sente pericolosamente vivere in lui, nella sua latente follia. Al cospetto della fiammella da cui udiamo la voce dell’eroe, Dante si fa estremamente attento, ascolta profondamente perché sa che quella storia e quel destino lo riguardano. L’anima di Dante è completamente assorbita fino al terribile silenzio che accompagna il fulmineo epilogo dell’equipaggio e del suo folle volo. 

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Il desiderio di Ulisse rappresenta per Dante percorsi che alcuni suoi contemporanei avevano intrapreso: Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia, e l’amico Cavalcanti, il poeta averroista. Essi avevano abbracciato un aristotelismo fino al Duecento poco conosciuto, ben diverso dall’Aristotele dell’Organon di cui il Medioevo aveva cognizione: si tratta degli anni della riscoperta dell’Etica nicomachea, e quindi della scoperta di quel manuale che promette, per l’umano, il raggiungimento della piena felicità, di una via per diventare athanatizein, eterni, immortali. La conoscenza per Aristotele può dunque salvarci, salvarci in senso pieno: essa nel fondo prospetta quello che la religione promette, la possibilità di eternarsi, di diventare quel plus ultra, Dio, che nel caos del divenire può vedere forma, ordine e bellezza. 

Dante condivide pienamente questo desiderio, ma a differenza di Ulisse e dell’amico Cavalcanti sa che questa possibilità è data solo deo concedente: non può l’animale razionale, con le sue sole forze, eternarsi; se vuole coincidere con Dio deve ad esso abbandonarsi, compiere un viaggio che non procede volontaristicamente “oltre il segno” ma trascenda la propria volontà, attraverso il viaggio iniziatico voluto da Dio, di cui Dante nulla sa e nulla può decidere. Voler eternarsi, significa volere l’eterno, desiderarlo, amarlo, farsi tutt’uno con esso: è la morte della volontà eroica, non la sua vittoria. Solo così potrà, in senso perfettamente aristotelico, vedere la theoria, lo spettacolo stupendo del cosmo: “nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna”. Solo così “virtute e canoscenza” coincidono, poiché ordine e necessità rappresentano legami, leggi il cui vincolo è amore. 

Ma il viaggio prosegue: nel Cinquecento, la flotta di Carlo V predisposta a solcare gli oceani recava scritto sulle sue galee plus ultra; nuove possibilità si aprono spinte dalla pulsione di conoscere. L’universo si apre, le sfere concentriche del sistema tolemaico che contenevano l’universo vengono sfondate, e si osserva al di là, si misura, si calcola, si fanno previsioni. C’è uno spazio infinito da conoscere che convoglia e attira tutto il “disio” dantesco: esso si era appagato ruotando assieme al primo mobile, ma ora non trova più appiglio e fluttua nello spazio, in un eterno precipitare. 

Sarà Nietzsche, in La gaia scienza, il cantore di questo naufragio; egli comprende tutto il terrore dell’umano che non ha più un oriente a cui rivolgersi, cancellato da un colpo di spugna, ma al contempo trova la propria passione rinnovata, esaltata dall’assenza dei punti cardinali; conoscere è una passione, è un piacere, e come l’amore è fonte di sofferenza: Nietzsche ora gode “della beatitudine dell’infelicità della conoscenza.” Quella dell’uomo contemporaneo è una passione disperata, masochistica, di chi si fa strumento. Piacere a diventare mezzo. “Questa passione è la nostra rovina” scrive il filosofo nei Frammenti postumi. 

La conoscenza tecnica infatti libera possibilità, esprime latenti potenzialità. La posizione eretta dell’uomo liberò la mano secondo connessioni che non fu possibile prevedere. E allora la tecnica non può che navigare a vista, non può essere progettuale. Perché prima viene l’insopprimibile desiderio di andare lontano, di viaggiare, di vedere, di theoria. 

La domanda dell’inizio – la conoscenza ci può salvare? – lungi dall’aver trovato una possibile risposta nel dispiegarsi di questo viaggio si fa ancora più urgente; può la conoscenza umana, nel suo eterno precipitare e nel suo eterno agire, salvare l’umano? La risposta dell’autore è accennata, e più che una risposta è un auspicio che egli formula tornando ad Aristotele, alla definizione di umano. Aristotele è il filosofo della plurivocità dell’essere, e dell’umano fornisce molteplici definizioni: all’insopprimibile desiderio di conoscere dell’animale razionale e tecnologico, Mauro Bonazzi affianca l’immagine dell’animale politico. Un altro desiderio ci abita, quello di riunirci in comunità, di essere responsabili gli uni degli altri, ma non solo, del cosmo in cui abitiamo. Dalla moltiplicazione dei pensieri dell’uomo sull’uomo e delle sue definizioni verrà forse la salvezza dunque?

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