Dario Ferrari, La ricreazione è finita
L’impianto del libro di Dario Ferrari, La ricreazione è finita (Sellerio 2023, 446 pagg, 16€) è piuttosto complesso: la struttura a forme concentriche si rivela progressivamente, e se in un primo momento si apprezza il tono scanzonato con cui vengono narrate le vicende di Marcello, dottorando in Italianistica all’Università di Pisa alle prese con la propria manifesta e dichiarata inettitudine, procedendo nella lettura si assiste a progressivi cambi di stile e tonalità funzionali all’irruzione di altre storie nella storia, come in un gioco di scatole cinesi; tuttavia in questo labirinto narrativo non ci si perde poiché si trova al termine il filo preciso che riunisce tutti i piani, i fini dei personaggi, le strane incongruenze: tout se tient. E allora la sferzante ironia che già bastava a rendere i primi capitoli irresistibili assume la funzione di accesso a un piano più profondo, più serio, perché più reale, umano, a ricordarci che sì, “la ricreazione è finita”, che non si tratta solo di un gioco, ma del lavorìo del senso di una storia, o forse del senso della Storia che ha ordinato tutti gli eventi, gli incontri e gli scontri affastellati nelle pagine del romanzo.
L’aria che si respira è quella del mare di Viareggio, che dà inconsistenza a ogni decisione, come se tutto fosse destinato a un’immobilità leggera, tutto sommato piacevole: quale cambiamento è auspicabile in un microcosmo fatto di vite normali, di trentenni che piano piano si avviano a diventare adulti senza che la Storia li abbia mai messi alla prova? Si vaga, facendo quello che hanno sempre fatto tutti. Marcello, a differenza degli amici, è trattenuto da una potentissima forza di inerzia; non è l’eccessivo intellettualismo a determinare la sua riluttanza, ma una sorta di distanza da sé stesso, dalle proprie azioni, e dall’energia che muove ogni decisione. Marcello non ricorda, non ha memoria; non sa di aver organizzato durante l’occupazione del proprio liceo un convegno su uno scrittore e ex terrorista, Tito Sella, che il professore e mentore Sacrosanti gli affida come argomento della propria tesi di dottorato. Solo Letizia, “Goldilocks”, la fidanzata tutto fare-parlare-organizzare, glielo ricorda, a confermare il suo ruolo di memoria esterna o grillo parlante del protagonista.
Marcello non sa quello che ha fatto, quello che fa, né quello che farà: le sue azioni non sono mosse da desideri coscienti o previsioni, ma da reazioni agli eventi circostanti, come le meduse che più che nuotare si lasciano trasportare, per poi trovarsi proprio dove volevano essere. Pare di vedere transitare davanti agli occhi la pietra di cui parla Spinoza: che libertà sarà mai quella di un masso che, scagliato da qualcuno in una certa direzione, si trovi a pensare: voglio andare proprio lì? E così Marcello si trova a fare un dottorato e ad andare a Parigi a scartabellare l’“Archivio Sella” in cerca della Fantasima, autobiografia perduta dell’autore, in cui trovare la verità sulla vita del terrorista.
La biografia di Sella, infatti, ricostruita sulla base delle fonti disponibili, presenta alcune lacune e incongruenze; Marcello si butta a capofitto in questa ricerca, come se trovare il bandolo dell’intrico delle vicende di Sella e della sua banda rivoluzionaria Ravachol, potesse compensare l’assoluta indifferenza con la quale guarda il proprio intrico interiore. È qui che irrompe il secondo livello, o romanzo, di cui Tito Sella diventa il nuovo protagonista e ci ritroviamo nella Viareggio degli anni Settanta, al bar Crispi, dove quattro giovani, tra cui Tito, giocando a carte, dopo aver amaramente constatato che “Il Sessantotto è finito”, decidono per la lotta armata, l’azione violenta, la latitanza. Si assiste dunque alla formazione del gruppo, alla definizione dei mezzi, dei fini, alla scelta dei membri e all’individuazione degli obiettivi. La narrazione non perde qui la sua cifra di leggerezza: Ravachol è un gruppo che impara il mestiere facendolo, e i membri da semplici ragazzi di periferia scolpiscono la loro nuova identità politica azione dopo azione, fallimenti, fughe rocambolesche, equivoci; ma rispetto agli anni dieci del 2000 di Marcello, la Storia dirompe, la materia degli eventi si fa tragica, le decisioni sono irreversibili, i destini si compiono inesorabili.
Marcello scrive così la sua Fantasima, traccia un percorso nella vita di Tito che culmina con il suo gesto più reale, effettivo: l’azione violenta, rischiarando così tutti gli eventi precedenti e mostrando una parabola di senso che non poteva che sfociare nel suo esito: quell’istante in cui un barlume di coscienza si accompagna all’azione e dice “Io sono questo”. Tito è identificato totalmente con quella decisione, e in quell’istante diventa se stesso.
Ma esiste un terzo piano in cui si insinuano dubbi su questa verità forse troppo romantica: il deus ex machina della vita di Marcello e di Tito ancora ci sfugge: chi muove Marcello? Cosa ha pensato e compiuto veramente Tito? Le vicende dei Ravachol si complicano e la figura di Tito si allontana nuovamente, a ricordare che la ricognizione biografica è atto impossibile; ma in questa disperata ricerca è Marcello a ritrovarsi, a ricordarsi, a capire dove si trova, cosa lo muove e da chi è mosso.
La ricreazione è finita è dunque un vero romanzo: c’è evoluzione, trasformazione reale del protagonista, assistiamo alla sua Bildung: se De Gaulle pronuncia le parole del titolo a scherno delle manifestazioni del Mai 68 in Francia, per Marcello si tratta della fine della propria dispersione e della propria tragica inconsistenza: attraverso la ricerca della verità di un altro si trova, si ricorda, riordina il proprio archivio interiore, scrive la sua Fantasima.