Riccardo Panattoni, Rocco Ronchi / Immanenza: una mappa
L’ immanenza è un concetto che in modalità differenti attraversa da sempre il pensiero filosofico. Già i presocratici avevano preso le distanze dai racconti mitici provando a render conto della totalità del reale attraverso un principio immanente, l’acqua, l’aria, l'ápeiron. Ma è con Platone che questo concetto viene per la prima volta opposto alla trascendenza con lo scopo di comprendere il reale a partire non più dall’immanenza stessa ma da un principio trascendente. La tradizione metafisica instaurata dal filosofo ateniese sarà con poche eccezioni dominante nella storia del pensiero filosofico e solo a partire dalla seconda metà del ‘900, grazie anche ad autori come Deleuze e Foucault, si è via via affermato un nuovo canone minoritario dell’immanenza.
La raccolta di testi curata da Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi, Immanenza: una mappa (Mimesis, 2019) delinea alcune linee di sviluppo di questo concetto in ambiti filosofici differenti che vanno dalla politica, all’estetica, dall’ontologia all’etica. Il termine mappa non indica in questo caso la semplice rappresentazione di un territorio dato utile per orientarsi. I due punti che separano e uniscono le due parole del titolo sono un segno grafico che per Rocco Ronchi segnala l’intuizione intellettuale, lo scambio immediato e senza distanza tra noein ed enai. L’oggetto dell’intuizione intellettuale non è un dato, un correlato trascendente dell’intuizione, ma un oggetto che si risolve completamente nell’atto intuitivo stesso. Non si dà quindi un oggetto a priori, un modello predeterminato di ciò che sarebbe l’immanenza, ma si lascia la possibilità che il concetto e una sua possibile mappa si costituiscano a partire dalla necessità della cosa stessa.
Partendo dall’ambito ontologico e cosmologico una filosofia dell’immanenza rimette innanzitutto in discussione la concezione di un Dio creatore e trascendente il mondo. Dio è pensato immanente in quanto principio di un processo infinito di auto-generazione della natura stessa, una natura naturans che non produce qualcosa senza riprendere continuamente questo prodotto in un nuovo processo. Il rapporto tra produttore e prodotto è un rapporto assolutamente immanente: la natura è causa di sé, produce producendosi, è causa di tutte le cose nel medesimo senso che causa di sé. Di conseguenza gli oggetti, che vediamo comporre l’universo, partecipano tutti con tutti ed è questa partecipazione a costituirli nella loro oggettualità. Un oggetto esiste sempre relativamente ad un altro: ognuno è occasione per l’esistenza in atto di altri oggetti. Lo stesso soggetto non ha uno statuto autonomo e separato, non gode di uno stato di eccezione, ma come qualsiasi altro oggetto si dà relativamente ad altro. L’esperienza che chiamiamo “soggettiva” è parte della natura del reale, è risolta nell’uno sempre relativo e in atto.
Questa natura relativa della soggettività ha come conseguenza la necessità di superare il pregiudizio antropologico che intende lo sguardo come attività di un soggetto rivolta ad un oggetto.
L’oggetto e l’io che lo percepisce non sono altro che degli orizzonti di un evento impersonale che si sta producendo. Lo sguardo è un evento trascendentale che prende due direzioni: da un lato un divenire-cosa, un divenire-oggetto e dall’altra un divenire-soggetto, un allontanarsi asintotico dalla scena verso un termine che rimane interminabile. Naturalmente dare la precedenza alla prospettiva e allo sguardo significa ripensare l’ontologia a partire dalla differenza, non più quindi un’ontologia di enti, ma di forze e di intensità.
Anche in ambito scientifico la fisica quantistica ci ha mostrato la problematicità della nozione di fatto oggettivo e l’impossibilità di considerare i sistemi fisici a prescindere dall’osservatore. Lo sperimentatore è sempre implicato nell’osservazione in quanto non è mai puramente passivo: è l’osservatore ad accertare il fatto e soprattutto a giudicarlo come tale. L’operazione scientifica nell’atto della misura e della verifica empirica è sempre un’operazione che comporta una selezione del reale, una scelta, una decisione. Vi è vicinanza da questo punto di vista tra sperimentazione e linguaggio perché anche quest’ultimo non si limita a registrare il mondo, ma nell’atto della nominazione decide come il mondo deve essere. L’operazione scientifica e l’operazione linguistica sono modalità di oggettuazione, di produzione di oggetti, di cose senza i quali il linguaggio non potrebbe dire nulla sul reale. L’immanenza secondo Felice Cimatti andrebbe quindi intesa come lo scarto che si dà nell’operazione stessa dell’oggettuazione. Questo scarto rende tuttavia problematico parlare di immanenza in quanto “nel momento in cui si pone qualcosa come immanente, in quello stesso momento l’immanenza è evaporata, è diventata qualcos’altro”. Daniele Poccia, da questo punto di vista, propone di pensare un metodo dell’immanenza che superi la fissità dell’ontologia e che accetti la verità nella sua mutevolezza.
Un metodo dell’immanenza richiede la capacità di porsi sempre in una posizione di auto-critica, sapendo cogliere come l’errore sia strutturalmente inemendabile e sia elemento costitutivo di ogni processo conoscitivo e veritativo.
Sul piano politico ripensare l’immanenza al di là della fissità dell’ontologia significa recuperare una prospettiva fondata sulla congiuntura storica: non porre a priori un soggetto ontologico a partire dal quale pensare l’azione politica, ma cogliere le forze e le articolazioni in gioco in un determinato momento storico, all’interno del quale è possibile intervenire teoricamente e politicamente in maniera efficace. Il popolo stesso non è da considerare come un “dio immanente che ad ogni istante ricrea il proprio mondo, ma come una forza che, tra le altre, per esistere deve organizzarsi, stabilire delle alleanze e combattere”.
La messa in discussione del dato, dell’oggetto nella sua trascendenza permette di rimodulare diversamente anche la riflessione etica. Gianluca Solla propone da questo punto di vista di pensare la felicità non più a partire da un oggetto, il cui incontro sarebbe causa della mia felicità, ma come immanente alla vita, all’essere in atto di ogni esistente.
Ancor più radicalmente la felicità andrebbe pensata non come una qualificazione, un modo della vita, ma come coincidenza con la vita nell’assenza di qualificazioni, con “la vita nel suo agirsi prima di ogni qualità che possa esserle attribuita”. Potremo chiamare questa felicità godimento, nella misura in cui questo godimento si struttura in forma infinitiva, un godere, una potenza in atto in ogni vivente. Non si tratta qui di fare un puro elogio della vita impersonale, quanto di pensare l’etica nell’intreccio tra impersonale e personale, tra la potenza di un uso comune e l’atto di un uso proprio. Questo intreccio lo possiamo cogliere per esempio nell’amore che, come ha mostrato Giorgio Agamben in La comunità che viene, non si rivolge mai a delle determinate proprietà dell’amato e nemmeno ne prescinde in nome di un puro amore universale, ma desidera l’amato tale quale è con tutti i suoi predicati. Se da un lato non si prescinde dalle determinazioni che costituiscono l’individualità di ognuno, dall’altra si tratta però di cogliere lo scarto di questo “tale quale è”, ovvero di quel punto impersonale in cui il vivente si trova a coincidere con la vita nella sua inappropriabilità.