Speciale
Un’intervista inedita a Pier Paolo Pasolini / Intervista. L’arrabbiato sono io
Sono trascorsi quarant’anni dalla notte tra il 1° e il 2 di novembre in cui Pier Paolo Pasolini è stato assassinato a Ostia, un tempo lungo e insieme breve. La sua figura di scrittore, regista, poeta e intellettuale è rimasta nella memoria degli italiani; anzi, è andata crescendo e continua a essere oggetto di interesse, non solo di critici e studiosi, ma anche di gente comune. Pasolini è uno degli autori italiani più noti nel mondo. In occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato, doppiozero, media partner, ha scelto di realizzare uno specifico contributo. Si articola in tre parti. Iniziamo oggi con la prima: la pubblicazione d’interviste disperse, o poco note, di Pasolini con giornalisti, critici, saggisti italiani e stranieri.
Certi mattini, al risveglio, il pensiero dell’età è come una folgore. L’ulcera, un mese a letto, la debolezza, i riguardi. Mi sono sentito un vecchio, per la prima volta.
Già, il vecchio Pasolini Pier Paolo, cinquanta chili di una rabbia che è solitudine, amore, timidezza, incontinenza, paura, genio. Cinquanta chili di uomo. Ma non è questo che fa tenerezza o mette a disagio, ma ben altro: sentirsi in debito con lui per conto di tutti e non sapere che fare, come ripagarlo dell’intelligenza che ci ha dato in questi anni, generosamente. Non è il denaro che vuole anche se noi ci guardiamo bene dal darglielo; né siamo autorizzati a concedergli quella esenzione dalla morale comune che chiede con tanta ingenua insistenza: diamogli almeno la stima intellettuale che merita (su diamogliela cuori spugnosi e cervellini esangui), diciamolo che è il migliore di tutti.
La mamma porta il caffè all’ospite e la camomilla al figlio. Sediamoci nel giardino, c’è un po’ di vento. Così, tanto per sfuggire al patetico, attacco un po’ alla balorda.
Senta Pasolini, per lei chi è il vero arrabbiato? Genet? Landroux? Germano Lombardi? Lenin? (Rimane male: son venuto da lui per scherzare? Ed è un altro segno del vero talento: l’ingenuità di fronte al banale. Comunque cambiamo registro.) Volevo chiederle, seriamente, qual è la differenza tra arrabbiato e rivoluzionario. (Si passa la mano sul viso e socchiude le palpebre come uno che soffre di un’emicrania permanente.)
La contestazione dell’arrabbiato è interna al sistema, per la modifica del sistema, ma perché esso viva. Il rivoluzionario invece lo nega sul piano reale e gli contrappone una prospettiva utopistica. No, mi lasci dire; spesso il rivoluzionario dopo aver distrutto la società costituita eccede nella ricostruzione, vuole che abbia tutti gli attributi, ci riporta anche il moralismo e il perbenismo borghesi, al punto che l'arrabbiato, a volte, incide più profondamente del rivoluzionario. Però una cosa è chiara, l’arrabbiato quasi sempre non è un rivoluzionario, mentre il rivoluzionario è sempre un arrabbiato.
Eppure si dice che un carattere del grande rivoluzionario sia il suo distacco, il suo sguardo gelido, da aquila, la sua facoltà di prevedere e muovere la storia trasferendo la sua rabbia ai manovali della rivoluzione: Lenin che prepara la rivoluzione in Svizzera.
La connotazione di cui lei parla, il sovrano distacco, non appartiene tanto al rivoluzionario, quanto al genio. Che Lenin fosse un genio è fuori dubbio. Eppure io non sarei tanto sicuro sul suo distacco. A scavargli nell’anima probabilmente avremmo scoperto la ferita profonda, aperta, lasciata dall’uccisione del fratello. Il Lenin arrabbiato non è quello che si scaglia contro la borghesia reazionaria, ma l’altro delle polemiche contro i menscevichi. Ed è un segno di rabbia autentica, di passionalità.
Qual è allora il modello dell’arrabbiato non rivoluzionario?
Socrate, senza esitazione. Arrabbiato, lui sì, con un distacco scientifico, al punto di rinunciare alla vita serenamente, e arrabbiato noti bene contro le mirabili istituzioni democratiche di Atene. Il caso di Socrate è perfetto: muore per rispettare le leggi di un sistema che pure consente la vita del suo accusatore Meleto.
E lei lo è arrabbiato? Le dico subito che l’avanguardia contesta…
Lasci stare, ho sempre evitato la polemica con l’avanguardia. Nei primi tempi me ne interessai, ma ci volle poco a capire che si trattava di nullità. È gente in malafede, che fa dei giochetti. Inutile discutere, sarebbe come litigare come una prostituta.
Mi scusi se insisto, non è tanto la polemica che mi interessa, ma il tema, questa rabbia di cui stiamo parlando, le forme e i contenuti che deve assumere. Di lei, per esempio, dicono: “Sì, Pasolini inveisce, maledice, dice le parolacce, ma in un contesto narrativo, vedi Una vita violenta, che ha la struttura del Cuore, con la differenza che il Cuore è di sinistra e il suo libro no. Il Cuore nel senso che il protagonista è un eroe positivo, bravo e buono e che in fondo la borghesia che osserva la sua povertà non è poi così malvagia.
Boutade per boutade, potrei rispondere che anche nell’Idiota di Dostoevskij c’è un eroe positivo. Quei signori non hanno ancora capito che un personaggio, anche se descritto a tutto tondo, non assume mai un significato preciso e vincolante, non è una dichiarazione di fede e neppure di voto, ma l’espressione, la misura del grado di conoscenza della realtà cui è giunto un autore. La verità è che il mio Cuore di destra non è diventato il libro della borghesia, ma l’ha spinta a una reazione rabbiosa, razzistica di odio verso il sottoproletariato e che la mia ‘vedetta lombarda’, se lo ricordino quei signori, ha scatenato persecuzioni a cui non sono rimasto estraneo.
C’è dell’altro, Pasolini, dicono che lei è un poeta ‘da volo su Vienna’, capace di usare la lotta di classe come D’Annunzio usò la guerra mondiale, a fini estetizzanti.
È un’accusa da cui non mi difendo. Vuol dire che mi sopravvalutano. Che dicono ancora gli avanguardisti? Ah ecco, dicono che il linguaggio è di importanza fondamentale per gli arrabbiati, che è ridicolo arrabbiarsi in versi alessandrini. Non amo i versi alessandrini, ma a volte mi sembrano una novità rispetto alle codificazioni più recenti dei versi alessandrini.
Pasolini, io al suo posto non me la prenderei solo con l’avanguardia. Dove sono nella repubblica italiana delle lettere i veri arrabbiati?
I letterati italiani sono, per definizione, dei soddisfatti o dei rassegnati. Salvo i pochi che vagano come larve, nella periferia, salvo i rarissimi che operano aristocraticamente a livello internazionale.
E secondo lei perché la rabbia è così rara dalle nostre parti?
Ci sono le gradi ragioni storiche: la Controriforma, la rivoluzione liberale imitata, posticcia, la rassegnazione, l’abitudine secondare all’irresponsabilità. C’è una borghesia fragile, improvvisata, un establishment incerto, e la grande rabbia, lei lo sa, esiste dove c’è la grande borghesia, dove c’è il grande nemico come nei Paesi anglosassoni. Poi c’è un motivo più recente: la guerra partigiana da noi è stata una cosa importante, una rabbia vera, drammatica. Una generazione vi ha dato il meglio, altre hanno creduto in buona fede, ragionevolmente, che quello fosse il canale, il modello di una rabbia seria, organizzata, esente da teatralità. È stato un bene per alcuni anni e poi forse è stato un male, ha impedito nuove e più sincere manifestazioni, ha chiuso energie giovani nel bozzolo dell’antifascismo generico.
Rabbia, protesta, il corvo rivoluzionario che muore mangiato ma prevedendo il successore. La rabbia che continua, inesausta. E l’ironia, Pasolini? La rassegnazione? La vita è vita, gli uomini uomini, e tutto è prevedibile nell’imprevedibile. Perché, alla lunga, uno non dovrebbe annoiarsi?
No, l’arrabbiato non rinsavisce, non si annoia, non trae lezioni, è come una cartina di tornasole, reagisce. Solo che quando è giovane spera nel futuro della sua vita mentre poi, con il passare degli anni, lo colgono i dubbi, gli scoramenti. Allora la rabbia aumenta, diventa ossessione. Sa perché ho fatto del cinema? Perché non ne potevo più della lingua orale e anche di quella scritta. Perché volevo ripudiare con la lingua il Paese da cui sono stato le cento volte sul punto di fuggire.
Lei si proclama arrabbiato, uno dei rari arrabbiati italiani, perseguitato per amore della rabbia. Eppure va a finire regolarmente che la sua rabbia si risolve in voglia di vita, in opere utili agli altri, in ricerche rischiose fatte anche per gli altri. Che effetto ha avuto per esempio il suo ultimo film?
Come sempre ambiguo. Io conduco una guerra su due fronti contro la piccola borghesia e contro quel suo specchio che è certo conformismo di sinistra. E così scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue. Adesso ho assunto una nuova fatica, dirigo una collana di saggi sul cinematografo.
Glielo dicevo. La sua rabbia migliore è questa, aprire nuove strade, fabbricare nuovi strumenti.
E poi il teatro. Alzatomi dal letto dopo la malattia, ho incominciato a scrivere per il teatro.
Il fiato caldo del vento muove le piccole piante, in basso, c’è un contadino vestito da portiere, quelle case di cartapesta sono Roma. Siamo rimasti in silenzio, poi lui dice: «Forse l’unica cosa da fare è di continuare a fare ciò che abbiamo fatto in questi anni». Bene, chiniamo la testa e avanti: è l’unico modo per non accorgersi che si è aperta una porta con dietro il buio.
Giorgio Bocca, «Il Giorno», 19 luglio 1966.