Kojève: tra diritto e giustizia

9 Agosto 2024

Prendete il primo foglio dell’opera, datato 8 giugno 1942, e troverete scritto La notion du Droit (Exposé provisoire). Se invece prendete il foglio del 12 giugno 1943, lì potrete leggere finalmente Fenomenologia del Diritto.  Chi volesse verificare di persona, non ha che da recarsi alla Biblioteca nazionale di Francia, a Parigi, e chiedere di consultare il Fonds Alexandre Kojève. Il testo era rimasto inedito sino al 1981, quando era stato pubblicato per i tipi di Gallimard. Finalmente oggi – verrebbe da dire: ahimè, solo oggi – esce la traduzione italiana. Stiamo parlando dei Lineamenti di una fenomenologia del diritto. Esposizione provvisoria, tradotto da Alberto Folin e curato da Marco Filoni e Luigi Garofalo, recentemente apparso per Marsilio nella collana Firmamenti.

Noi non staremo qui a fare l’elenco degli intellettuali francesi che assistevano alle lezioni di Kojève: ormai basta pronunciare i primi nomi della formazione tipo – quella che comincia con Lacan, Queneau e Bataille – per dare un’idea dell’influenza esercitata dal filosofo russo nella Francia degli anni Trenta, prima che la guerra costringesse a sospendere quel laboratorio di analisi del pensiero hegeliano. Pochi testi hanno raggiunto una simile intensità ermeneutica ed esercitato un influsso tanto vasto nel corso del Novecento: se oggi qualcuno volesse studiare la dialettica del riconoscimento, dovrebbe ammettere che è praticamente impossibile affrontare la lettura della Fenomenologia dello spirito senza contrarre un debito anche con Kojève.

Insomma, se l’Introduzione alla lettura di Hegel si è rivelata nel tempo uno strumento ormai insostituibile per l’analisi e la comprensione della dialettica hegeliana, questa esposizione dei lineamenti di una fenomenologia del diritto offre certamente nuovi raggi di luce che illuminano il pensiero politico e giuridico di Hegel. 

Elaborato e articolato in parallelo a un altro contributo preziosissimo, che reca il titolo La nozione di autorità, l’Esquisse si presenta sottoforma di un testo colmo di tensioni – o come sottolinea uno dei curatori, Marco Filoni, sin dal titolo del suo saggio, capace di mettere in scena una efficace ambiguità, su vari fronti. Efficace perché produttiva, in pieno stile hegeliano: la contraddizione non indica debolezza, ma è piuttosto l’anima e anzi rivela la vitalità stessa della cosa. La cosa vive, e si sviluppa, e procede se internamente mossa dalla contraddizione. Questa profonda convinzione hegeliana, ma diremmo caratteristica di tutta la grande filosofia in generale, è stata trasmessa da Hegel a questo suo grande interprete novecentesco al punto che tale inquietudine traspare dal suo stile, dal suo modo di pensare e di impostare pressoché ogni argomento. Facciamo un esempio.  Come abbiamo detto, il testo venne scritto tra il 1942 e il 1943: della guerra che imperversava per l’Europa – una guerra immane, il cui esito risultava all’epoca ancora totalmente in bilico – non si trova il minimo accenno. Eppure, a nostro avviso, la guerra risuona in ogni pagina.

Tutto il testo si gioca, per così dire, nel rapporto tra il tre e il due.

Il numero tre, infatti, costituisce il simbolo per eccellenza del diritto. L’arbitro – sulla cui trasformazione da mero spettatore a giudice ha speso pagine di rara bellezza Émile Benveniste nel suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee – è colui che dirime, è il “terzo imparziale” che è in grado di porre termine alla disputa, proprio in quanto si colloca su un altro piano rispetto ai contendenti.

Questo elemento “C” chiamato a intervenire nella controversia tra A e B, non soltanto racchiude in sé sia la figura del Legislatore che crea la norma del diritto, sia il Giudice che la applica a un caso determinato (cfr. ivi, p. 58), ma addirittura, presentandosi come onnipotente, assume una veste quasi divina. Sono temi su cui si erano già soffermati, alcuni decenni prima di Kojève, autori come Simmel, nella sua Sociologia, dove parlava del tertium gaudens, e per altri versi lo stesso Weber nel suo capolavoro incompiuto Economia e società. È vero, infatti, che spesso il Diritto viene concepito come derivante o addirittura come qualcosa di garantito da Dio, ma – osserva Kojéve – qui accade anche una curiosa inversione, nella quale Dio stesso viene presentato nelle vesti di Legislatore, Giudice e Giustiziere.

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Alexandre Kojève.

La torsione, dal sapore tipicamente hegeliano, consiste nella capacità di scorgere all’interno del diritto per un verso qualcosa che sorge – e che può sorgere – soltanto all’interno di una società, fatta di usi e costumi storicamente connotati, ma per altro verso come uno dei veicoli tramite cui la società stessa viene in qualche senso “integrata dallo Stato”: in tal senso il Diritto tende così a trasformarsi un Diritto dello Stato e solo a questo livello trova la propria ragione e il proprio compiuto dispiegamento. Stupenda è la formula di Kojève, mediante cui si può apprezzare ulteriormente lo strettissimo nesso che lega il pensiero hegeliano a quello aristotelico: «l’integrazione di una Società autonoma in uno Stato non distrugge completamente il Diritto di questa Società. Lo fa solo passare dall’atto alla potenza. Ora, ogni potenza tende ad attuarsi» (ivi, p. 179). 

A questo proposito, l’altro curatore del volume, Luigi Garofalo, ha posto l’attenzione giustamente sul carattere di autonomia del diritto – da intendere, agli occhi di Kojève, come fattore e come vera e propria “espressione della civiltà e della cultura”, irriducibile alla sfera dell’economico, del lavoro, dello scambio, così come risulterebbe vano tentare strane derivazioni a partire dal contesto biologico: «è fin troppo evidente che il Diritto è un fenomeno specificamente umano che non si trova nella natura non umana» (ivi, p. 249). Tipico del Diritto, potremmo dire, è il profondo interesse alla composizione degli interessi delle parti, ma in questo senso appare palese appunto il “disinteresse” come caratura propria del Diritto (cfr. ivi, pp. 277-280): questa precisazione è anche il grimaldello tramite cui l’autore riesce a residuare per il Diritto medesimo uno spazio di autonomia, di irriducibilità, e in particolare di non sudditanza tanto rispetto al campo della morale quanto nei confronti della dimensione sacrale e religiosa.

Tutto questo giro di discorsi riguarda il numero tre, e la sua importanza nella costituzione del diritto come luogo dell’imparzialità che sorge dalla società e che però si rivela capace di integrarne ogni processo e ogni sviluppo. Nella seconda parte dell’opera, tuttavia, ci si concentra sull’origine e l’evoluzione del diritto, quasi a volerlo presentare non soltanto nel suo funzionamento logico-concettuale, bensì anche nella sua intrinseca dinamica storico-congiunturale. Qui emerge il problema dell’autorità mediante cui il Diritto si articola, a partire da un desiderio umano – tutto umano – di riconoscimento: se si decide di affrontare tale dinamica, è inevitabile focalizzarsi sul nesso problematico che lega tra Diritto e Giustizia. 

Non sono divagazioni quelle relative alla “giustizia dell’eguaglianza” come modello del Diritto aristocratico e alla “giustizia dell’equivalenza” intesa come modello del Diritto borghese. Qui Kojève riscopre un vero e proprio tarlo della riflessione giuridica occidentale: nessun sistema del diritto può essere ridotto a un’accozzaglia di decisioni arbitrarie o a un novero di ponderazioni elaborate in chiave meramente convenzionale alla luce di compromessi raggiunti di volta in volta in maniera casuale. Se il diritto pretende di assumere una dimensione sistematica, alle sue spalle dovrà risultare operante un’idea di giustizia. Direbbe Vico che alle spalle del corso delle varie nazioni c’è una storia ideale eterna, o meglio – come scriveva nell’edizione del 1725 – «un diritto eterno che corre in tempo».

La questione della fonte del diritto, tuttavia, non può che aprire – in una chiave che segue pedissequamente l’articolazione del Lineamenti hegeliani – al problema del rapporto tra Stati, dove non vi è diritto vigente: all’interno di un singolo Stato vige un certo diritto, ma gli Stati si confrontano tra loro in una perenne lotta che coincide con il corso e l’andamento della storia mondiale. Al posto del numero tre, qui pare dominare appunto il due, secondo la nozione di “differenza etica”, mediante cui Hegel fissava l’autentica incompatibilità tra i diversi Stati europei – o, per usare termini novecenteschi, secondo il binomio amico-nemico, sviluppato da Carl Schmitt: anche in questo caso, la figura e il pensiero del giurista tedesco non vengono mai citati in maniera esplicita, eppure in diversi passaggi di Kojève traspare il confronto-scontro con l’opzione schmittiana. 

In particolare, le ultime sezioni dell’Esquisse si concentrano su quelle che potremmo chiamare le “questioni ultime” cui il diritto inevitabilmente accenna già nel corso della propria storia e del proprio sviluppo: impossibile non porre, come tema intrinseco alla prospettiva giuridica, il problema-limite della formazione di uno Stato mondiale, di un diritto internazionale capace effettivamente di collocarsi come un terzo tra le parti. E con quale autorità potremo costruire tale “Stato”, o per lo meno una simile “auctoritas”? Il terzo, il terzo concepito nella sua effettiva imparzialità, nel suo autentico disinteresse si configura insieme come esigenza e come compito. 

Come sarà possibile lavorare a costruire questo terzo? Sarà inevitabilmente un terzo in mala fede, sospetterà qualcuno. O forse un terzo che crede di essere tale, in buona fede, senza esserlo davvero. Si potrebbe pensare al terzo come mero garante dell’esecuzione di un’obbligazione. Se così fosse, tuttavia, sarebbe riconducibile al puro e semplice Diritto della Società economica (cfr. ivi, p. 679): un Diritto che sarebbe visto e inteso come l’esito di una mera convenzione sociale. Ma nell’idea di equità, nell’ideale di Giustizia, non risuona forse qualcos’altro, irriducibile alla logica del contratto? 

Forse, da questo punto di vista, il Kojève che dopo la guerra smette apparentemente i panni del teorico per trasformarsi in un alto funzionario del Ministero dell’Economia francese, dando un forte impulso alla pianificazione della Comunità europea, non stava facendo altro se non testimoniare l’inscindibilità tipicamente europea di teoria e prassi. 

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