Siamo lettori o spettatori?

25 Ottobre 2024

Ogni metafora, scriveva Vico, è una piccola favoletta, nel senso che nasconde in sé un piccolo racconto. Nel suo nuovo libro, dal titolo Il lettore e lo spettatore, edito per Donzelli, Andrea Tagliapietra si sofferma su queste due metafore dell’esistenza. “Lettore” e “spettatore” celano in sé due diverse attitudini, due differenti modi di vivere – se vogliamo, due favolette. “Lector” significa di per sé “legatore”: colleghiamo tra loro lettere, sillabe, parole e frasi, ma appunto – seguendo de Certeau – Tagliapietra mostra come questa “operazione di collegamento” si trasformi in realtà in una caccia di frodo, in un trasporto, in un echeggiare di mille voci, un’astuzia, un’arte combinatoria in cui il leggibile diviene memorabile, un gioco di specchi che coinvolge il sé e avvia una stratificazione di mondi.

Insomma, leggere comporta l’assunzione di una postura strategica: è un coltivare se stessi, «uno spazio metaforico, intimo e privato, in cui sviluppare l’immagine di sé e degli altri tramite l’assorbimento e l’immedesimazione differenziale e creativa nei personaggi e nelle idee incontrate nei libri» (ivi, p. 14). Leggere, in qualche senso, è partecipare alla creazione del testo: «la lettura si sovrappone al testo come una produzione propria del lettore» (ivi, p. 76), e dunque non equivale mai a mera ricettività, bensì tende a configurarsi come pratica di collaborazione: la lettura per certi versi modifica il proprio oggetto.

E ancora, in questa posizione tattica rispetto ai testi, ogni lettore si differenzia dall’altro, differisce in virtù di intermittenti libertà: lacune del testo su cui alcuni si concentrano e altri sorvolano, possibili digressioni che alcuni approfondiscono e a cui altri rinunciano. Insomma, la lettura qui si annuncia come un «presidio di resistenza e di secessione dai processi spettacolari di omologazione della società» (ivi, p. 14).

Con queste parole abbiamo già svelato anche una parte decisiva dell’altra metafora, di cui l’autore svela i connotati fondamentali soltanto nelle pagine conclusive: spectare è un intensivo di specere, dunque un osservare intenso, «un guardare prospettico sottoposto a un ordine, a un comando, a un richiamo che lo indirizza. È, insomma, un vedere disciplinato» (ivi, p. 281) – che dunque evoca la nozione mediale di inquadratura e quella strumentale di schermo

In sostanza sono due le caratteristiche salienti, strettamente legate tra loro, e su cui Tagliapietra ritorna a più riprese nel testo, a proposito dello spettatore: innanzitutto lo spettacolo attrae in quanto distrae e obbliga a guardare senza poter effettuare alcuna esperienza ulteriore grazie all’uniformità dello spettacolo, magari «caratterizzato dalla continuità eccitante di un flusso di messaggi, di immagini, di didascalie e di informazioni che bisogna assorbire nell’anonimato della moltitudine solitaria dei miliardi di utenti della rete» (ivi, p. 11); e così siamo già giunti al secondo punto, quello degli spettatori in qualche senso “chiamati” a raccolta dall’aspettativa dello spettacolo «ma che non costituiscono un pubblico, non partecipano a un evento collettivo, non condividono ciò che vedono» (ivi, p. 283).

Forse qui la tensione tra lettore e spettatore raggiunge l’apice: la lettura si configura come strategia, come “risorsa di resistenza”, una “clandestina guerriglia” che all’integrità dello spettacolo contrappone la sfasatura, la discontinuità, l’intarsio, che si contrappone costantemente all’incanto della totalità generato dalla realtà spettacolare – «lo spettacolo concentrato, proprio dei regimi totalitari delle ideologie del Novecento, come il nazismo o lo stalinismo, che si confrontava con lo spettacolo diffuso dall’ideologia materializzata nel consumo e nella fantasmagoria delle merci delle democrazie liberal-capitalistiche» (ivi, p. 291).

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People in the Sun (Edward Hopper, huile sur toile, 1960).

Sin dall’introduzione noi assistiamo a una sottile ermeneutica, che prende le mosse da People in the Sun di Hopper: pian piano, ad ogni pagina, noi scopriamo un dettaglio nuovo in questa sapiente “lettura” – è proprio il caso di dirlo – che l’autore ci offre, pronta naturalmente per essere approfondita lungo nuove e inedite direzioni dalla nostra lettura singolare: quattro personaggi nel quadro stanno guardando qualcosa … tranne uno, intento a leggere. Ma cosa legge? Non sembra un libro, ma allora cosa? E via di questo passo, dietro la superficie uniforme del quadro noi scopriamo una miriade di scritture, di messaggi, come se si trattasse di apparati testuali da approfondire e attraverso cui cominciare a indagare … noi stessi.

C’è una sensazione permanente che accompagna il lettore: di volta in volta capita di tornare su alcuni luoghi fondamentali attorno a cui è costruito il libro, per esempio La veduta di Delft di Vermeer, le Confessioni di Agostino, il ruolo svolto dall’apocalisse nell’immaginario occidentale. Ma, ecco, la sensazione è di avere a che fare con quel libro di sabbia di cui ci parla Borges, per cui il venditore avverte l’acquirente mentre sta per voltare una pagina: l’immagine che ha visto non la vedrà mai più. Qualcosa di simile accade in queste righe: i dipinti, i personaggi, le opere che incontriamo ci appaiono già differenti rispetto all’ultima volta che le abbiamo incrociate nelle pagine precedenti – proprio in virtù di un percorso studiato, mediante cui l’autore al contempo sollecita il lettore, ma gli lascia anche un enorme spazio di divagazione e di integrazione: la lettura lavora in noi mentre leggiamo e quando torniamo sullo stesso quadro, sulla stessa figura, ci accorgiamo che non è più la stessa perché noi non siamo già più gli stessi. Giustamente l’autore parla di un “lavoro del lettore”: la lettura si rivela una “tecnologia del sé” per antonomasia, vale a dire una di quelle pratiche – come direbbe Foucault – attraverso cui noi eseguiamo un certo numero di operazioni sul corpo e sull’anima in maniera da avviare una trasformazione di se stessi.

Alla luce di questo binomio lettore-spettatore, che può essere giocato su vari piani, declinandosi nel contrasto tra riflessione e schermo, tra il singolo e la massa, tra inevitabile parzialità della scrittura e tensione dell’immagine verso la totalizzazione del reale, scopriremo – per esempio – che Vermeer è per così dire una grande occasione di “lettura”: anzi, da questo punto di vista si potrebbe dire che il pittore olandese anticipi quella deteatralizzazione in cui Michael Fried ha rintracciato la nascita della modernità pittorica a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. I quadri di Vermeer cancellano la possibilità stessa dello spettatore: è significativo come l’impronta metafisica del disegno nei suoi quadri risulti del tutto assente; anzi, non solo senza spettatore, ma anche senza giudizio, dal momento che le tele non sono create per definire un senso, ma per eluderlo – come ha notato Arasse nel suo saggio L’ambizione di Vermeer; pensate alle carte geografiche sulle pareti, minuziosamente raffigurate senza essere riconoscibili. Quasi come se chiedessero l’intervento di qualcuno che fosse disposto a leggerle, a rileggerle dopo che sono state dipinte.

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Jan Vermeer, View of Delft (1658).

Forse qui è bene anticipare l’idea secondo cui «lo scrittore è il custode della 

metamorfosi, ma è il lettore colui in cui essa si compie» (ivi, p. 78): le cose emergono nella loro novità, nella loro assoluta singolarità, proprio grazie alla presenza e all’operazione di lettura messa in atto dal fruitore. A proposito della Veduta di Delft, tra l’altro, non si può non ricordare il finale tragico di Bergotte nel celebre romanzo di Proust: «era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo?». Domanda che risuona anche nelle tele di Vermeer: dipinte una volta per sempre? In realtà lette, decifrate, vissute da sempre nuovi “lettori” in cui è all’opera l’istante della singolarità.

Così, a piccoli passi, si costruisce lo straordinario paragone con il suo contemporaneo, Baruch Spinoza, che passa dalla «abolizione del dualismo tra pensiero e materia, fra coscienza e cose, fra Dio e natura e, quindi, anche fra lo spettatore e il quadro» (ivi, p. 25). Insomma, le “cose” vengono rese nella loro singolarità, nella dinamica dell’istante, ovvero sub specie aeternitatis, sicché la stessa Delft nel suo complesso, «immersa nella pacifica serenità festiva della domenica», si trasfigura in una sorta di nuova Gerusalemme, che noi vediamo «scendere sulla Terra dal vasto e vertiginoso cielo che occupa buona parte della Veduta di Delft» (ivi, p. 45). A partire da queste “tele spinoziane” avvertiamo che «il visibile non è l’immediato, ma si subordina alla mediazione discreta della leggibilità» (ivi, p. 56).

Se quella di Vermeer è una sorta di “apocalisse del quotidiano”, c’è tutta una genealogia che ci attende sul lavorio della lettura: Tagliapietra ci conduce tra la Grecia e Roma, osservando come la lettura orale così diffusa in quelle culture abbia «impedito che si sviluppasse una casta professionale autonoma di lettori, a differenza di ciò che è avvenuto invece per la scrittura, in particolare nelle regioni del Vicino Oriente (Mesopotamia, Egitto, Giudea), con l’affermarsi della classe sociale prestigiosa e potente degli scribi» (ivi, p. 87). In questi passaggi assaporiamo come le diverse pratiche generino dei differenziali nella strutturazione e nell’articolazione delle varie forme di civiltà.

Da qui potremmo condurvi all’invenzione della lettura silenziosa, vera e propria implementazione ambrosiana e poi agostiniana della tecnologia del sé, che Tagliapietra documenta anche sul piano iconologico rifacendosi alla miniatura altomedioevale che raffigura Ambrogio allo scriptorium, spiato da uno spettatore che si trova alle sue spalle. L’occhio silenzioso, l’idea del segreto come ciò che è separato, messo da parte, rivelano quell’eccedenza favorita dalla lettura silenziosa come «pratica di non coincidenza» (ivi, p. 107) rispetto all’ordine del mondo costituito. 

Ecco, tutti questi fattori contribuiscono a far emergere ciò che l’autore chiama lo “spazio letterario”, inteso come valorizzazione del criterio della leggibilità: «non più soltanto lo specchio del mondo o la sua eco verbale, ma un alter mundus, un vero e proprio universo autonomo di simboli e segni che non rinviavano ad altro, bensì riflettevano innanzitutto se stessi, silenziosamente» (ivi, p. 95). Una sorta di “invenzione della solitudine”, coltivata del resto da Petrarca, Alberti, Ariosto, Erasmo, Moro e Montaigne. La lettura silenziosa «è un organo della metamorfosi, per cui l’identico e l’altro si danno convegno nella simul-azione dello stesso» (ivi, p. 118).

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Le philosphe lisant di Jean-Baptiste Siméon Chardin (1734).

Tagliapietra ci propone una storia, anzi un’intera filosofia della metafora del lettore, che si snoda attraverso i secoli, passando per Dürer, ma anche per Le philosphe lisant di Chardin (1734), accanto a cui potremmo citare la Lettura della Bibbia dipinta nel 1755 da Jean-Baptiste Greuze, visto che le due tele sono vicine di casa nel museo del Louvre. E poi ancora The Reading Girl dipinta dal pittore anglo-francese Thèodore Roussel sul finire del XIX secolo.

Veniamo adesso a una fondamentale “torsione storica”: nel corso dei secoli la figura del lettore tende quasi fatalmente a trasformarsi in quella dello spettatore. Un ruolo decisivo, in questo passaggio, è giocato da uno dei plessi più significativi del nostro orizzonte culturale, peraltro molto caro all’autore, quello dell’apocalisse. Potremmo esprimerci in questi termini: l’immagine è una grande stabilizzatrice del reale e in questo senso se la profezia non è mai definitiva perché sempre reinterpretabile, «l’apocalittica, al contrario, fissa il presente a un futuro passato, ossia a un avvenire che viene mostrato come fosse già accaduto» (ivi, p. 50). L’apocalisse è soprattutto immagine, immediatezza affermativa della visione, è «il desiderio di una scrittura totale» (ivi, p. 152). 

Certo, a tutte queste forme di “secolarizzazione”, di “immaginazione totale”, di spettacolarizzazione indotta dal pensiero apocalittico, «alla statica dell’aspettativa e dello spettacolo, all’escatologia fredda della Grande Chiesa, il pensiero apocalittico opporrà, dopo gli sfavillanti inizi del libro di fuoco dell’Apocalisse, la riscoperta dell’escatologia calda del Millennio» (ivi, p. 174), e vediamo sorgere Giovanni di Patmos, Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri.

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Quentin Massys, Cambiavalute e sua moglie (1514).

Ma ecco, come anticipavamo, il percorso storico ci conduce altrove: assistiamo al processo di “integrazione” mediante cui – tra la fine del Medioevo e l’inizio della Modernità – vediamo sorgere lo spettacolo del mondo. Nel Cambiavalute e sua moglie (1514) «il denaro e i valori di scambio assorbono il significato della realtà e riducono il mondo alla feritoia di una finestra» (ivi, p. 163): lo spettacolo del mondo capitalistico su cui punterà l’attenzione Benjamin. Progressivamente i libri si fanno “libri di immagini”: l’intera prospettiva scientifica si basa su un libro della natura scritto in caratteri matematici, un libro fatto di figure geometriche, teoremi … da vedere. Qualcosa di analogo accade sul piano politico, con l’assolutismo che prevede l’immagine totalizzante del Leviatano. Certo rimane sempre sullo sfondo la possibilità di «un’altra modernità, anarchica e fantastica» (ivi, p. 177), ma il mainstream del moderno si sintonizza sulle nuove frequenze dello spettacolo. 

Il terremoto di Lisbona, i saggi di Rousseau, le opere di Voltaire e di Mandeville, così come lo spazio immaginativo dei commerci idealizzato da Smith: questo è il pedigree da cui sorge quello snodo nevralgico del moderno che è il trascendentale. Ma è qui che Tagliapietra, svincolandosi dall’interpretazione di Blumenberg, ricostruisce la genealogia dello spettatore trascendentale: le sue radici affondano addirittura nel De rerum natura di Lucrezio, e poi nel ruolo che durante il Medioevo verrà assegnato a Dio, inteso come “spettatore trascendente”, etichetta che continuerà a permanere almeno sino a tutto il Seicento.

Pensi che sia tutto, caro lettore? E invece manca ancora il discorso sullo spettatore ideale di Schlegel, sull’importanza della Nascita della tragedia di Nietzsche per comprendere le dinamiche dell’odierna civiltà dello spettacolo, e così via. E poi, chiaramente, manca la tua postura, la tua singolare lettura, la tua ingovernabilità, la tua eccedenza. Verrebbe da dire: tolle lege.

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