La Ferocia di Lagioia in scena
Per diverse ragioni storiche, l’Italia non è un paese in cui circola molta drammaturgia contemporanea, e questa non è un’opinione ma un dato di fatto che chiunque può verificare scorrendo i cartelloni dei principali teatri italiani. Un grande peccato, dal mio punto di vista, perché senza nulla togliere alle più o meno blasonate, colte, attualizzanti o fedeli riletture dei capolavori, sono poco convinta dell’eterna attualità dei classici, o meglio, non riesco a credere alla favola che Antigone, Amleto, Mirandolina, Vladimiro ed Estragone abbiano detto tutto quel che c’era da dire sugli esseri umani. Come se fossimo sempre uguali, come se la grammatica del nostro sentire e l’impalcatura culturale che la informa fosse rimasta immutata nei secoli dei secoli. Non è tanto una questione di fare i conti con l’attualità, con i temi cosiddetti urgenti – l’approccio tematico per quello che mi riguarda è peggio di un bel classico allestito con sapienza. È piuttosto un fatto di sensibilità e forma, della precisione con la quale il presente è intercettato nelle sue ferite profonde e tradotto in immagine. Un conto, insomma, è sprofondare felicemente nella lettura di Čechov o guardarsi una registrazione degli spettacoli di Eduardo (per ricordarsi cosa sia il genio), un altro è credere che le figure alle quali questi grandi drammaturghi hanno dato vita abbiano esaurito la ricerca e messo un punto alla nostra evoluzione, che possano davvero dirci fino in fondo come siamo e stiamo oggi, nelle sue sfumature, che sono sfumature solo nostre e peraltro solo di alcuni, come lo erano quelle incarnate da Luca Cupiello a suo tempo. C’è un momento, nel romanzo da cui è tratto lo spettacolo che sto per raccontare, nel quale si dice che Michele, figlio illegittimo di un costruttore edile pugliese, variabile impazzita (perché sana) di una famiglia di speculatori edilizi, in un tema svolto da studente su una traccia che chiedeva di commentare una frase di Marc Bloch – “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato” – aveva scritto che “forse, però, non meno vano è tentare di comprendere il passato dove nulla si sappia del presente”. Questo preambolo per dire che il primo dato interessante dell’ultimo spettacolo di VicoQuartoMazzini, tratto dal romanzo La Ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi, Premio Strega nel 2015), è proprio la scrittura al presente, talmente al presente che in certi momenti sembra di essere davanti a uno schermo a guardare Succession.
Della strepitosa serie statunitense che segue la storia di un abile magnate delle comunicazioni e del suo rapporto con i figli, eredi non solo di un colosso, ma di un cinismo sguaiato che li logora, lo spettacolo ha non soltanto il ritmo, ma perfino l’effetto di quella assurda indecidibilità che si prova di fronte a personaggi orribili che finiscono sempre per salvarsi in calcio d’angolo – per una caduta, un momento di fragilità, per un quadro complessivo in cui alla fine sembrano tutti vittime di se stessi e di un mondo irrecuperabilmente marcio. A differenza della serie, che si sviluppa su diverse stagioni rischiando qualche volta di allungare il brodo (ma è la prassi della serialità), lo spettacolo è un thriller incredibilmente compatto, un congegno perfetto che in un’ora e mezza sintetizza la vicenda del ricchissimo costruttore Vittorio Salvemini, un self-made man del sud Italia, uno che ce l’ha fatta, ma sta invecchiando e ha paura che oggi lo spettacolo si consumi “fuori dal suo punto di vista”, uno che passerebbe sul cadavere della figlia pur di non rinunciare a un centimetro del suo impero. E in effetti su quel cadavere ci passa letteralmente, quando decide – per convenienza – di nascondere la verità sulla morte di sua figlia Clara, una donna bellissima e “perduta” nella cui fragilità si rispecchia la violenza patriarcale del padre e di tutti gli uomini di potere che ha frequentato; una donna che non di suicidio è morta (come verrà per comodità indicato dal capofamiglia e ratificato dagli inquirenti) ma probabilmente di un gioco sadico finito male, una violenza subita per mano di quegli stessi uomini con cui Salvemini continuerà a fare affari: il presidente della Corte d’Appello del Tribunale di Bari, il direttore generale dell’Università e l’ex sottosegretario alla Giustizia.
Merito di questa compattezza, che restituisce al teatro l’emozione del fiato sospeso, è innanzitutto dell’adattamento teatrale di Linda Dalisi, uno dei migliori che si sia visto negli ultimi anni su un palcoscenico. L’autrice, pur conservando alcune caratteristiche importanti del romanzo, per esempio l’insistita assonanza tra l’atteggiamento di uomini e animali (che si traduce per esempio nell’intreccio tra la morte di un fenicottero, nell’acquitrino inquinato vicino al complesso residenziale di Porto Allegro, simbolo della una speculazione edilizia selvaggia portata avanti da Salvemini, e la morte di sua figlia Clara) ha però estratto dalla narrazione romanzesca di Lagioia un vero e proprio dramma contemporaneo, nel quale quelli che nell’originale erano racconti, parentesi, flashbacks, diventano tutti fantasmi presenti, in un andirivieni di tempi e situazioni del tutto antinaturalistico eppure totalmente credibile e avvincente. Di base Dalisi ha ridotto drasticamente gli aspetti descrittivi dell’opera originale per far emergere invece l’impianto tragico, i rapporti di forza e debolezza in una famiglia e una città (ma il respiro è ben più ampio) in cui sembra che “nessuno ha più coscienza delle proprie azioni peggiori”. In scena in verità, per una scelta che lega scrittura e regia, non c’è più Bari, neanche un dettaglio che la ricordi se non nelle parole. La storia – la scoperta della morte di Clara, la menzogna del padre, il ritorno del fratellastro più amato dalla sorella, che con la complicità di un giornalista si mette a indagare e alla fine affossa l’impero della sua famiglia – si svolge tutta intera dietro una glaciale porta a vetri che dà su un soggiorno. L’interno di una villa dove si consuma la ferocia dell’occidente; la ferocia, tra le altre, di una cena alla quale partecipa la famiglia di Clara, suo marito, e anche l’ex-sottosegretario che è stato notoriamente amante della giovane morta, durante la quale si parla di seppioline che si sciolgono in bocca e allo stesso tempo del disastro economico che incombe a Porto Allegro e su cui l’ex-politico è chiamato a intervenire.
Interessante è anche la scelta di lasciare come unica figura femminile quella della madre, Annamaria, violenta quanto gli uomini attorno a lei, e protagonista di una felice invenzione drammaturgica per la quale durante il funerale di Clara fa un lamento funebre agghiacciante, recitando sottovoce un elenco di offese rivolte alla figlia morta mentre in primo piano, a tutta voce, Vittorio Salvemini e suo figlio Ruggero (che a differenza di Michele non riesce a non seguire le orme del padre) discutono di come mettere a tacere un uomo che la notte del preteso suicidio ha invece visto la ragazza camminare per strada nuda e ricoperta di sangue. Il vero colpo di genio della scrittura, però, è nell’uso generale del “tu”, nelle parole che ognuno dei personaggi rivolge direttamente alla grande assente, a Clara appunto, come se solo a lei potessero tutti confessare le proprie motivazioni, le proprie fragilità. Un escamotage geniale, non solo perché trasforma il racconto romanzesco in dialogo, e quindi in azione, in specifico teatrale, ma perché consente agli attori e all’attrice di provarsi in monologhi straordinari. Un bel circolo virtuoso, se si considera che il cast, composto da Leonardo Capuano e Francesca Mazza, assieme a Roberto Alinghieri, Michele Altamura, Enrico Casale, Gaetano Colella, Gabriele Paolocà e Andrea Volpetti, è semplicemente perfetto. Su ognuno potrei spendere parole per descriverne la qualità in questo spettacolo, ma mi limito a segnalare l’assoluto stato di grazia di Francesca Mazza. “Distrutta ma ricomposta – un dolore tuffatosi dentro una fossa scavata tanto tempo prima”: queste parole di Lagioia nell’adattamento non ci sono, ma non servirebbero, perché Francesca Mazza riesce a dare vita a una Annamaria che è esattamente così.
Questa Ferocia teatrale, insomma, è un congegno perfetto da molti di punti di vista, un’opera sapiente in tutte le sue parti, a partire ovviamente dalla regia di Altamura e Paolocà (ma coerenti e raffinate sono anche la scena di Daniele Spanò, le luci di Giulia Pastore, le musiche di Pino Basile e i costumi di Lilian Indraccolo). Di fronte a uno spettacolo così inedito nel nostro panorama, può entrare in gioco il gusto, il piacere o il dispiacere, l’interesse o il disinteresse per le trame e per il genere, ma non si può non riconoscere che dice, e lo dice molto bene, qualcosa che ci riguarda, e che ha a che fare sicuramente con l’antica questione del destino e delle scelte individuali, ma soprattutto con la sensazione, quella invece assai contemporanea, che la colpa di questo disastro di mondo è di tutti e di nessuno allo stesso tempo, e che tante volte, in mezzo alle macerie che continuano a cadere, non si sa davvero come si possa cominciare a ricostruire.
Dopo l’anteprima al Teatro degli Impavidi di Sarzana, La Ferocia (una produzione di SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, LAC Lugano Arte e Cultura
Romaeuropa Festival, Tric Teatri di Bari,Teatro Nazionale Genova) ha debuttato a RomaEuropa Festival e proseguirà la sua tournée a Bari (12-14 gennaio), Genova (16-21 gennaio), Monopoli (3 febbraio), Lecce (4 febbraio), Cuneo (11 febbraio), Torino (13-18 febbraio), Firenze (24-25 febbraio), Milano (27 febbraio-3 marzo), Lugano (26-27 marzo).
Fotografie di Francesco Capitani.