Han Kang/Daria Deflorian. La vegetariana in scena
C’è un senso narrativo dell’esistenza che lega il teatro di Daria Deflorian al mondo della letteratura: la capacità di osservare l’intorno e il dentro con un’attenzione intensa e di conferire vita propria a questo incontro tra io e mondo; la facoltà di portare le cose da fuori a dentro e viceversa, di assimilare nell’interiore l’esteriore, che come scrive Emanuele Trevi in Sogni e Favole (Ponte alle Grazie, 2018) non è solo immagine, è qualcosa che si riflette nello spirito come sul fondo di una camera oscura. Qualcosa che non si riduce al ricordo, ma che entrando in relazione con il sé lo attiva, lo impegna, lo informa, più semplicemente lo rende creativo. Di mezzo c’è sempre un oggetto terzo, qualcosa su cui puntare quell’attenzione speciale e a cui ricondurre ogni pensiero per un certo tempo della vita: un’opera d’arte, una figura d’artista, un romanzo, un film. Per molti lavori realizzati con Antonio Tagliarini (con cui Deflorian ha avuto un sodalizio lungo oltre quindici anni) l’ispirazione è arrivata in parte da Annie Ernaux, Premio Nobel per la letteratura nel 2022. Ma andando a ritroso negli anni, nel percorso dell’attrice, autrice e regista di origini trentine si ritrovano molte tracce di una poesia che fa sponda con il narrativo, come nei versi di Ingeborg Bachmann e di Pier Paolo Pasolini, come nella prosa di Gabriel Gárcia Márquez o di Daniele Del Giudice, come negli spettacoli di Pina Bausch, come nel cinema di Antonio Pietrangeli, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. E come in Han Kang, scrittrice sudcoreana appena insignita anche lei del Nobel per la letteratura. Della sua opera più celebre, La vegetariana (Adelphi, 2016), l’interprete e regista, insieme alla sceneggiatrice Francesca Marciano e a un notevole gruppo di attori in scena (oltre a lei ci sono Paolo Musio, Monica Piseddu e Gabriele Portoghese), sta realizzando in queste settimane un adattamento teatrale che ricreerà sul palco l’esperienza stessa della lettura del romanzo. Un romanzo che si confronta con l’impossibilità di esistere senza provocare dolore, di ciò che non vorremmo essere ma siamo, attraverso la storia di una donna che, a seguito di un sogno carico di sangue e violenza, decide di smettere di mangiare carne, dando il via a un processo di metamorfosi radicale che impatta sul mondo attorno che non comprende questo desiderio di riduzione sempre più estrema di sé. “L’umanità è dannosa, furiosa, assassina, violenta, tutte cose che Yeong-hye non vuole essere. Lei non vuole smettere di vivere. Vuole smettere di vivere come noi” dice nelle note la regista, che all’opera di Han Kang ha dedicato già uno studio lo scorso anno, Elogio della vita a rovescio (interpretato da Giulia Scotti, e ancora in tournée), concentrandosi sulla figura della sorella della protagonista. Per la prima volta con questo nuovo lavoro Deflorian sperimenta un recupero della dimensione drammatica. Nella drammaturgia, infatti, l’artista non ripropone il consolidato meccanismo d’intreccio tra un altrove – un altro luogo, un’altra vita, un’altra figura e un altro tempo – e una persona reale, sé stessa, che accerchia quell’altrove con nuove immagini e parole. Il testo, pur nell’adattamento, resta esattamente quello di Han Kang, con la divisione in tre capitoli, ciascuno incentrato sul punto di vista di un personaggio diverso (il marito, il cognato, la sorella). Lo spettacolo si vedrà in prima assoluta all’Arena del Sole di Bologna dal 25 al 27 ottobre nell’ambito di Opening - showcase Italia, focus di ERT/Teatro Nazionale sulla scena italiana contemporanea. Poi lunga tournée in Italia e in Europa.
Deflorian, come ha incontrato La vegetariana?
Ho letto il romanzo di Han Kang nel 2017, mentre con Antonio Tagliarini stavamo lavorando a Quasi niente, uno spettacolo ispirato al Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni. Quelle pagine, assieme ad alcuni testi di François Jullien, sono diventate nutrimento per una riflessione sull’intimità, sul fatto che la “presenza” nelle relazioni è un atto non scontato e se non è attivato si opacizza, “si installa” (dice Jullien): come accade tra Giuliana e suo marito Ugo nel film, e come accade a Yeong-hye e alle persone attorno a lei, il marito innanzitutto, nella Vegetariana. Ma ovviamente nel romanzo di Han Kang c’è molto più di questo, e sapevo che ci sarei tornata in qualche modo. Sapevo anche, fin dal primo momento, che la mia Vegetariana, qualsiasi forma questa avrebbe assunto, sarebbe stata Monica Piseddu.
Cosa l’aveva colpita?
Nel mio lavoro sono sempre andata alla ricerca di persone vere o immaginate, che contengono la possibilità dell’eccezionale. Come la casalinga di Cracovia, Janina Turek, che per tutta la vita ha annotato i dettagli della sua quotidianità su dei quaderni, o come Pippo e Amelia, nel film Ginger e Fred di Fellini.
Una galleria di persone “storte ma non infelici”. Così lei e Tagliarini avete definito più volte le figure che hanno ispirato i vostri lavori.
Esatto. La vegetariana comincia con queste parole del marito: “Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno”. Wow, eccone un’altra, mi sono detta. Mi sono sentita subito a casa. Però stavolta c’è stato qualcosa di diverso. La prima volta che ho letto il libro, ero su un autobus, ho molto pianto sul capitolo in cui prende la parola la sorella. Mentre la figura della protagonista era una incredibile nuova versione di quella passione antica, la sorella mi apriva a qualcosa di sorprendente. Il suo dover continuamente fare, il suo dover vivere sotto uno sforzo incessante perché non cada tutto a pezzi, corrisponde a una parte della me che sono diventata oggi. Quella delle tante cose da fare, del non voler scontentare nessuno, del volerci essere per tutti. Come se per ringraziare il mondo di quel che hai ottenuto ti dovessi dare fino allo sfinimento, perché non puoi non pagare un prezzo. Non puoi semplicemente esserti meritata quello che hai. Leggendo quel capitolo qualcosa mi si è rotto dentro. Non è un caso che nello spettacolo io interpreti proprio il ruolo della sorella. Ma in fondo ho trovato una risonanza personale con tutte e tre le figure attorno a Yeong-hye. Anche la storia del cognato mi riguarda, perché il suo dipingere fiori sul corpo nudo della vegetariana, ovvero la questione del rubare alla vita qualcosa per farla diventare qualcos’altro, è la mia tentazione artistica primaria. E anche il marito mi riguarda molto (questo marito che difende la vita ordinaria, che si irrita davanti a quel che accade alla moglie) perché se da un lato sono molto contenta dopo una vita di peripezie di avere trovato una quasi normalità nella mia vita d’artista, so che questa normalità è anche una forma di normatività.
“Ultimamente io mi dico: ho trovato un lavoro e adesso sono rispettata. /Alla fine possiedo anch’io un mio leggero confine/ciò che mi rende possibile stare al mondo/ visto che il mondo non si può fuggire. / Ma io ho nostalgia delle cose impossibili, voglio tornare indietro”. Lo diceva già in Il cielo non è un fondale, citando una poesia di Beppe Salvia.
Non è un equilibrio facile. Stare a contatto con lo straordinario è vitale, ti fa respirare, ma è stancante, è un lavoro. A volte ti verrebbe di girarti dall’altra parte.
Lei ha già realizzato uno studio sul romanzo, che indagava proprio la figura della sorella. Che cosa ha trovato in quella ricerca preliminare?
Prima di tutto ho trovato Han Kang. Per Elogio della vita a rovescio ho attraversato con Giulia Scotti tutte le opere dell’autrice. Le avevo già lette, ma stare in sala prove con quei libri è stato un modo per conoscerla davvero e andare oltre la mia personale visione della Vegetariana. Ho capito di più di lei, della Corea del Sud, del massacro di Gwangju che racconta in Atti Umani. Come diciamo in Elogio, per capire la questione della violenza nella Vegetariana devi leggere Atti Umani, e non puoi capire il rapporto tra sorelle se non leggi White Book. Tutto si tiene nel suo percorso umano e letterario. Il tema è sempre lo stesso: dire l’indicibile, raccontare la natura dell’essere umano, la sua violenza e la sua bontà. In Atti Umani c’è quell’andare oltre la carneficina della guerra, quel ficcare il fucile nell’occhio a uno studente già moribondo, ma c’è anche la fila delle persone che donano sangue. Di fronte a questo doppio sguardo sull’umano lei sta. Anzi, si muove.
L’esercizio di relazione più interessante in Elogio è certamente quello con la figura della sorella, che insiste sulla sensazione di non aver mai davvero vissuto in questo mondo, di essere rimasta sempre sulla soglia mentre dentro, dietro la porta, c’era la festa. Ma nel complesso è una relazione che si dipana anche tra la vostra identità di artiste (di Daria e di Giulia insieme) e la scrittrice coreana in generale, in quel silenzio che la coglie quando il mondo le chiede di spiegare, di chiarire, ma lei non può dire più di quanto si sia già spinta a dire attraverso la sua creazione.
Il 21 ottobre al Circolo dei Lettori di Torino leggerò un testo che ho scritto questa estate, un racconto di tre momenti della mia vita con lei. Han Kang ha illuminato alcune parti di me, anche del mio passato. Mi ha fatto ripensare alla Bachmann, a quando a una Fiera del libro di Francoforte durante il periodo della guerra in Vietnam le fu chiesto come mai non si occupasse della questione mentre molti altri scrittori si stavano schierando, e lei disse che non era vero, che si occupava eccome della guerra, di quella terribile che ogni giorno si scatena tra un essere umano e un altro. Mi aveva colpito moltissimo perché io intendevo la scrittura e l’arte esattamente così. Lo scorso luglio, grazie all’Istituto Culturale Coreano di Roma, io e Andrea Pizzalis (che mi assiste alla regia) abbiamo incontrato una consulente italiana cresciuta in Corea del Sud, che ci ha detto cose illuminanti proprio sul rapporto tra politica e letteratura. Ci ha spiegato che il modello intimista occidentale è arrivato solo di recente in quel Paese, dove invece il romanzo ha un codice diverso ed è dedicato soprattutto a questioni pubbliche, storiche, politiche. E ci ha detto che La vegetariana ha in qualche modo rotto un argine perché è allo stesso tempo intimista e politico. E poi ci ha raccontato un’altra cosa molto interessante: che quel modo che hanno i personaggi di rivolgersi l’uno all’altro chiamandosi non per nome ma per ruolo (sociale/famigliare) – “cognata”, “marito”, “sorella” – è tipico della cultura coreana, dove ci si chiama per nome solo quando si è arrabbiati, come fa verso la fine del romanzo la sorella, arrabbiata appunto con Yeong-hye, perché non risponde alle sue richieste.
In uno spettacolo “alla Deflorian” ci si aspetta che tutte queste scoperte, tracce, relazioni, entrino direttamente nella drammaturgia, come parole, come testo. Con un impattante ruolo giocato proprio dall’intreccio tra l’opera originaria e la tua/vostra biografia. Nei crediti della Vegetariana si parla invece di adattamento del romanzo di Han Kang, qualcosa di diverso dal solito…
Non c’è nessuna cornice post-drammatica in questo lavoro, la scommessa iniziale del progetto era anche quella di sperimentare una forma nuova (e antica), provare a far parlare le figure senza raccontarle. Nel 90% del testo ci sono quindi le parole di Han Kang: ci sono i dialoghi e le voci dei tre narratori. Questo non vuol dire che non ci sia un grande lavoro drammaturgico. Per me vale quello che ha detto Joël Pommerat citando Borges: si può riscrivere il Don Chisciotte senza cambiare una parola. L’autrice ha pubblicato i tre capitoli del romanzo a distanza di anni come racconti singoli. Solo dopo ha deciso di farle diventare una storia unica. Noi scenicamente abbiamo insistito molto su questa suddivisione in tre parti e in tre punti di vista narrativi diversi. Devo ammettere che ho avuto in mente un riferimento preciso nell’adattamento. Pur con tutte le enormi diversità del caso, non ho mai dimenticato l’impatto che ha avuto su di me vedere il Pasticciaccio di Gadda portato in scena da Luca Ronconi all’Argentina nel ‘96, con i personaggi che portavano dentro sia la parte narrativa che i dialoghi. Ovviamente in questo meccanismo la bravura degli attori è fondamentale, è la drammaturgia in sé, perché il punto che mettiamo in luce è che ognuno dei personaggi subisce un cambiamento dall’incontro con la vegetariana, con il mondo “altro” che porta. Nel caso del marito (Portoghese) è una piccola ma fondamentale incrinatura; per il cognato (Musio) l’incontro con Yeong-hye è più dirompente e ha anche un prezzo salato; la sorella (io) arriva quasi sul punto di mettersi sulla sua stessa strada. E poi c’è la vegetariana stessa (Piseddu). E qui sta la differenza più importante rispetto al romanzo: nella pagina scritta lei è descritta dagli altri tre, nello spettacolo è in scena, c’è, e ci governa tutti.
E com’è?
Ci è stato molto d’aiuto ascoltare un recente discorso di Byung Chul-Han a Piacenza, che ha evocato un passo della Lettera ai Romani in cui si parla della speranza come di qualcosa che non si vede ancora, che ancora non è, un’esperienza in divenire. Nella presenza di Monica Piseddu/Vegetariana si intravede proprio questa dimensione di “non-ancora”: non ancora morta, non ancora salva, non più com’era prima, non ancora come potrà essere a metamorfosi conclusa.
So che ha già letto il nuovo romanzo di Han Kang, che in Italia è di prossima uscita, sempre per Adelphi (col titolo Non dico addio). Ci dice come le è sembrato?
È riuscita a fare una specie di sintesi tra La Vegetariana e Atti Umani, perché racconta un fatto storico intrecciandolo a una dimensione di finzione letteraria, con una fusione tra realtà e sogno davvero bella. E poi anche qui c’è una sorellanza, stavolta tra due amiche. Ci sono pagine sull’amicizia che non dimenticherò.
La vegetariana
scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
una co-creazione con Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre Garonne, Scène Européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC Ministero della Cultura
Tournée 2024/2025
dal 29 ottobre al 3 novembre 2024, Teatro Vascello, Romaeuropa Festival – Roma
dall’8 al 16 novembre 2024, Ateliers Berthier / Théâtre de l’Odéon, Festival d’Automne – Parigi
dal 20 al 22 novembre 2024, Théâtre Olympia – Centre dramatique national – Tours
dal 27 al 29 novembre 2024, Triennale Milano – Milano
dal 21 al 24 gennaio 2025, Théâtre Garonne – scène européenne – Toulouse
dal 28 gennaio al 2 febbraio 2025, Teatro Astra – Torino
5 e 6 febbraio 2025, Théâtre Charles Dullin – Chambéry
dal 10 al 12 febbraio 2025, Théâtre la Vignette – Montpellier
Le fotografie sono di Andrea Pizzalis