La Maddalena / Paesi e città
La Maddalena è un’isola nell’isola, a nord-est della Sardegna e a sud della Corsica. Vista su una carta geografica ha la forma di una fiamma pietrificata con le lingue del fuoco diramate verso l’alto. È la più grande e abitata di un arcipelago composto da isole e isolotti. Un ponte la collega come un cordone ombelicale all’isola di Caprera, e fino a poco tempo fa un traghetto portava in Corsica attraversando le Bocche di Bonifacio dopo una breve sosta a Santa Teresa in Gallura. Nell’Ottocento questo collegamento era più frequente di quello con la Sardegna e del resto corsi furono i primi pastori a installarsi nell’isola.
La Maddalena si gira in fretta. Quello che si è appena visto ritorna, ma leggermente modificato dalla luce o dalle ombre e come ogni lieve scarto può farti impazzire. Forse per questo gli abitanti sono bruschi e non sempre gentili. Il vento li ha abituati a gridare anche quando non è necessario e c’è sempre come un’urgenza nelle loro voci. Anche il clima è difficile, e il maestrale soffia anche per nove giorni di seguito. Allora si vede nitidamente la Corsica che sembra vicinissima, ma basta che il mare monti e diventa irraggiungibile come ha potuto sperimentare chi si è avventurato tra le Bocche in quelle condizioni.
L’annuncio di bufera è dato da una luce intermittente e da un cono, che segnala il quadrante di provenienza del vento e viene issato sulla torre di Guardia Vecchia, il punto più alto dell’isola. La vegetazione, a macchia bassa, fatta di mirto, lentisco, ginepro cresce su un granito quasi rosso come gli anemoni di mare, con gigli selvatici sulla sabbia che muoiono dopo poche ore. I colori sono violenti anche sott’acqua con le alghe viola e i branchi di pesci trasparenti che brucano i prati di posidonia.
Tra le piante protette nel Parco Nazionale, una ha un nome dannunziano: tamerice. Se però la si guarda attentamente e ci si ricorda che la sua etimologia viene dall’ebraico e significa: spazzola, la memoria letteraria scompare. La tamaris spazza l’aria. Verde cupo, a volte inclinata fino a terra, scuote la sabbia e le alghe secche. Sotto le tamerici, a Caprera si trovano i cinghiali. Solo da poco ho scoperto che nuotano e attraversano i fiumi e questa immagine sottolinea, se possibile, ancora di più la loro libertà. La loro bruttezza, perfino quella dei cuccioli, coincide con il loro passo un po’ obliquo. Ho passato molto tempo a osservarli, affascinata. La loro disarmonia, il corpo tozzo, il muso da formichiere, la pelle spessa di setole scure, tutto mi confortava. Era possibile esistere nella sgradevolezza.
La Maddalena e soprattutto Caprera sono disseminate di tafoni, grotte provocate dall’erosione dei graniti, che assumono spesso forme mostruose di bestie preistoriche con zampe calzate da licheni gialli e musi sfrangiati, affilati o gonfi sul vuoto. In un tafone furono ritrovati coltelli e raschiatoi in pietra e oggetti in selce lavorata e resti di pasti e anfore per vino e olio, ma tra i tafoni vennero anche creati degli avamposti per le mitragliatrici tedesche durante l’ultima guerra.
I maddalenini non si considerano e non vengono considerati sardi. Il loro dialetto è più simile al corso ed è appunto un dialetto e non una lingua, come il sardo. Con la Sardegna interna, diffidente del mare e chiusa in un orgoglio di casta, La Maddalena condivide poco, ma questo vale per tutte le isole. Tutte, tranne forse Tavolara, stanno intorno all’isola più grande vagamente disperse, di fatto estranee. Una estraneità tangibile con le rocce che sembrano slittare e fuggire come inseguite da un moto che le spinge al largo. Tutto l’arcipelago del resto è un luogo più di transito che di sosta, come se le isole e isolotti che separano La Maddalena dalle Bocche di Bonifacio servissero solo a prendere fiato, come se il ponente trascinasse via ogni cosa, come se le tante, ma piccole insenature potessero riparare solo per poco e la terra, con i suoi rari orti, campi e scarsa acqua, riuscisse appena a garantire una tregua. La presenza dell’acqua dolce si vede subito a occhio nudo. Di colpo infatti la stessa luce cambia, si stempera, la vegetazione si ammorbidisce, si forma perfino un accenno di prato.
Lo scandalo è che gli sprechi legati al famigerato G8 promesso, non mantenuto e capace solo di inquinare, non abbiano minimamente contemplato il problema dell’acqua corrente che è imbevibile e secondo un’indagine francese addirittura tossica. Un sospetto che pesa anche sull’acqua del mare apparentemente così perfetta ma ancora una volta, sembra, piena di scorie radioattive.
Per non pensare troppo a quello che già nel Settecento il poeta Melchiorre Murenu, detto l'Omero sardo per la sua cecità, morto assassinato nel 1854, chiamava “s'Istatu de Sardigna”, me ne vado a trovare Gian Maria Volonté al cimitero, anzi al Camposanto come dicono qui, dove è sepolto. Non è panoramico come quelli in Corsica e neppure ornato da fiori di ceramica come quelli in Provenza, ma è abbastanza in alto da imbarcare il vento e mostrare le case, le baie, il porto.
La tomba di Volonté è, dando le spalle al cancello del cimitero, appena entrati sulla sinistra. Non ha la croce ma un sasso che potrebbe ricordare la forma a fiamma pietrificata dell’isola, su cui sono incisi i versi finali del Cimitero marino di Paul Valery “…Le vent se lève, il faut tenter de vivre”. Ai piedi del sasso c’è una sigaretta, “perché” spiega un uomo, forse un custode, “amava fumare”. Questo dettaglio: la sigaretta bianca ai piedi del sasso grigio, le poche piante (grasse) che lo circondano, mi sembra in sintonia con l’immagine di questo attore che ha prestato il viso a Giordano Bruno e che ha amato quest’isola tanto da farcisi seppellire.
Solo un braccio di mare separa l’isola della Maddalena da quella, minuscola, di Santo Stefano, sede dal 1972 al 2008 di una base militare americana altra indiziata di inquinamento soprattutto dopo l’incidente di un sommergibile che incagliandosi avrebbe perduto i suoi veleni. Un tempo Santo Stefano era proprietà di privati e mia nonna raccontava di un Eden con bestiame e alberi da frutta quasi sul mare. In uno dei forti dell’isolotto, chiamato Torre Quadrata, Napoleone Bonaparte installò nel 1793 la sua artiglieria, ma fu costretto alla fuga dal leggendario nostromo Domenico Millelire che addirittura lo inseguì fino in Corsica e intercettò, catturandola, la nave con i viveri per la flotta. Questo eroismo – almeno così venne percepito dai maddalenini – non contemplava tutta la famiglia. Nel 1802 infatti Agostino Millelire fratello di Domenico partecipò attivamente alla sanguinosa repressione dei moti popolari scoppiati nella cittadina di Tempio dove il sacerdote rivoluzionario Francesco Sanna Corda seguace di Giovanni Maria Angioy aveva tentato di installare una repubblica.
Se con la Francia, forse perché mediati dall’ostilità corsa, i rapporti sono sempre stati freddi, diverso è il discorso con la Gran Bretagna. Questo incontro tra isole risale di nuovo al periodo napoleonico quando Orazio Nelson si stabilì alla Maddalena con la flotta 1793 per poi tornarvi nel 1803. Consapevole dell’importanza strategica dell’isola chiese, senza successo, ai piemontesi di poterla comprare a nome del Re d’Inghilterra. Della sua riconoscenza verso gli isolani, con i quali misteriosamente non ebbe nessuno screzio, restano un crocifisso, due candelabri d’argento donati alla Chiesa della Trinità e un piccolo edificio a navata unica appena fuori dal paese.
Quando vado a visitarla in un tardo pomeriggio immancabilmente ventoso e deserto, se si esclude la presenza malinconica di un asino, vedo che dell’antica architettura settecentesca non resta nulla. Tutto è nuovo, di legno chiaro, da uno dei banchi per inginocchiarsi spuntano un paio di pantofole da casa e poco distante un telo bianco più simile a un asciugamano che a un paramento con la scritta ricamata “trinità”. A questi dettagli se ne aggiunge un altro: la parete opposta all’altare è interamente coperta di ex voto, fatti non di cuori d’ argento ma di fotografie. Un immenso collage di visi e di corpi di epoche diverse, alcuni ancora vivi altri già morti, mescolati tra loro quasi sempre senza cognomi, solo i nomi, le date, le brevi frasi di invocazione o di ringraziamento.
Mi chiedo, osservando le foto più antiche, se tra quei nomi ci siano anche quelli le cui ossa andarono disperse nel trasporto dal vecchio cimitero a quello attuale quando – come scrive un cronista del tempo – “migliaia di isolani sprofondarono nell’oblio” a causa della sepoltura usata allora. Le bare infatti venivano collocate su delle sbarre di granito e quando il legno marciva le ossa cadevano nello spazio sottostante confondendosi tra loro.
La Maddalena deve il suo nome alla santa omonima che secondo la leggenda, prima di arrivare a Marsiglia, si fermò nell’isola. Al tramonto di ogni 22 luglio la sua statua dai lunghi capelli castano ramati viene portata dalla chiesa parrocchiale nel centro del paese al mare fino alla costa sarda. Ritorna indietro prima su una barca illuminata, poi a braccia di nuovo fino alla chiesa. Le sue reliquie invece vengono portate in processione dal vescovo di Ajaccio e là ritornano a cerimonia finita. La festa è semplice, quasi dimessa, a parte i fuochi di artificio. Non ha nulla in comune con le pagane, sontuose feste della Sardegna centrale, non ci sono colori, soprattutto non ci sono le cavalcate sfrenate e quasi cosacche che caratterizzano la festa del Redentore a Nuoro o quella di San’Efisio a Cagliari. Non c’è neppure la ieraticità inquietante della Sartiglia di Oristano sulla costa occidentale che guarda direttamente alla Spagna. Alla Maddalena la statua viene portata per il paese come una persona di famiglia, come si porterebbe una sorella un po’ malata a prendere una boccata d’aria al mare.
Quest’anno però la festa è stata circondata da un’atmosfera sinistra. Il vento che tradizionalmente si placa ha invece continuato a ululare per i vicoli e a scuotere l’acqua color metallo del porto. Per la prima volta ho notato che dietro la processione gli uomini vestiti di nero imbracciavano fucili, per la prima volta la santa invece che sul traghetto è stata issata su una torpediniera grigia.
In quelle ore è arrivata la notizia che in quello stesso giorno 22 luglio in Norvegia, un uomo, ( le cui intenzioni sarebbero state in seguito “comprese” da un esponente del nostro governo) armato di mitra aveva sterminato quasi cento persone, molti ragazzi e ragazze. Erano tutti riuniti nell’isola di Utoya – così simile nel suono, all’isola di Utopia, ma che con tutte le isole del mondo condivide la tragedia dell’esposizione, quella di non avere riparo e nessuna via fuga se non quelle precarie dell’aria e del mare.