La mamma dei Måneskin
Il giorno dopo la proclamazione a sorpresa dei Måneskin come vincitori del festival di Sanremo non è il momento migliore per trarre conclusioni generali sullo stato dell’arte di questa manifestazione così importante nell’immaginario italiano. Ragion per cui propongo di rimandare ogni considerazione a quando le bocce saranno ferme, scegliendo di restare, piuttosto, sul pezzo. Ovvero sul pezzo – Zitti e buoni – del gruppo vincitore, provando a leggerlo criticamente.
Si può cominciare con l’interrogarsi su quale possa essere il posizionamento propriamente musicale del brano. È chiara la ripresa di alcuni stilemi, a metà fra punk e glam, che mi ricordano, per il potente drumming, gli Smashing Pumkins. Anche l’esibizione porta a riconoscere il medesimo riferimento, da una parte, all’idea del glam rock di una forte teatralizzazione della performance (cfr. i travestimenti che hanno segnato ognuna delle esibizioni), dall’altra alle sonorità hard-core ripulito (ovvero brandizzato da MTV) dei novanta. Molti spettatori della mia età (sono a 44) si sono lamentati su Facebook di come il pezzo somigli a una riproposizione in stile di quella musica lì, che, già allora, era per l’appunto mainstream. Musicalmente, Zitti e buoni sembra una riproposizione “in stile” del pop-punk anni ‘90 con un tocco di glam. D’altronde, tutto Sanremo (prima eccezione alla moratoria di non parlare di Sanremo in generale), popolato di artisti giovani e poco noti al grande pubblico, si è caratterizzato per una sorta di effetto Talent Show (ricordiamo che i Måneskin vengono da X-Factor), che non si stanca di rilanciare ambientazioni e arrangiamenti della storia della musica leggera (anzi leggerissima) senza una vera responsabilità artistica, come mere evocazioni. Si tratta di un effetto di “musealizzazione” dei segni e degli stilemi musicali delle vecchie subculture giovanili che vengono rilanciate come immaginario, rivestimento figurativo vuoto, imbastito con l’obiettivo esplicito di offrirsi come intrattenimento televisivo a buon mercato, mero “marketing” rimaneggiato da manager furbi e senza idee, degni rappresentanti di un’industria musicale in piena crisi, prima che economica di idee.
Ma dicevamo di stare sul pezzo, senza abbandonarci a considerazioni generali.
Diamo un’occhiata al testo della canzone:
Loro non sanno di che parlo
Voi siete sporchi, fra', di fango
Giallo di siga fra le dita
Io con la siga camminando
Scusami ma ci credo tanto
Che posso fare questo salto
E anche se la strada è in salita
Per questo ora mi sto allenando
E buonasera signore e signori
Fuori gli attori
Vi conviene toccarvi i coglioni
Vi conviene stare zitti e buoni
Qui la gente è strana tipo spacciatori
Troppe notti stavo chiuso fuori
Mo li prendo a calci 'sti portoni
Sguardo in alto tipo scalatori
Quindi scusa mamma se sto sempre fuori ma
Sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro, no
Io, ho scritto pagine e pagine
Ho visto sale poi lacrime
Questi uomini in macchina
Non scalare le rapide
Scritto sopra una lapide
In casa mia non c'è Dio
Ma se trovi il senso del tempo
Risalirai dal tuo oblio
E non c'è vento che fermi
La naturale potenza
Dal punto giusto di vista
Del vento senti l'ebrezza
Con ali in cera alla schiena
Ricercherò quell'altezza
Se vuoi fermarmi ritenta
Prova a tagliarmi la testa perché
Sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Parla, la gente purtroppo parla
Non sa di che cosa parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l'aria
Parla, la gente purtroppo parla
Non sa di che cosa parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l'aria
Parla, la gente purtroppo parla
Non sa di che cazzo parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l'aria
Ma sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro, ah
Noi siamo diversi da loro
Compositori: David Damiano / Ethan Torchio / Thomas Raggi / Victoria De Angelis
I Måneskin hanno ripetutamente dichiarato ai giornalisti come Zitti e buoni possa essere annoverato fra le loro prime composizioni che, solo dopo un lungo lavoro di definizione e di arrangiamento, sfocia nella versione che abbiamo potuto ascoltare in tv. Ed è, sempre a dire della band, proprio il fatto che il pezzo non fosse stato scritto specificatamente per Sanremo, a dotarlo di un vantaggio non indifferente rispetto alle proposte degli altri artisti. Non è, infatti, difficile immaginare come nel tentativo di scrivere canzoni “adatte” al pubblico di Sanremo, questi altri artisti avrebbero finito per anestetizzarne la carica innovativa, banalizzandole. Così come è successo: il festival – lo ha sostenuto apertamente Manuel Agnelli in una intervista insieme al gruppo – proprio per questa ragione, nonostante fosse popolato da ottimi artisti non ha presentato canzoni indimenticabili. Anzi.
Non entrando nel merito di quanto rivendicato da Agnelli e dalla band, si può notare come i Måneskin, con il testo della canzone, rafforzato dalle scelte dell’esibizione, abbiano, però, giocato parte della loro partita proprio sulla relazione con la spazialità presupposta dal festival. Diciamo che la canzone si presta, infatti, a essere naturalmente interpretata in funzione del festival, a partire dalle dinamiche comunicative specifiche chiamate in causa dalla sua “forma teatrale”. In che modo?
Innanzitutto, c’è una questione di generi. Il tempio della musica italiana ha sempre avuto un problema a immaginarsi come platea di musica rock. Da Vasco Rossi a Loredana Berté (solo per fare due nomi noti), il rock, a Sanremo, arriva ultimo (salvo poi, come spesso succede, segnare ugualmente l’immaginario), ottenendo il risultato di scandalizzare le signore ingioiellate del pubblico che, come da copione, vivamente protestano contro la deriva incarnata dai “diabolici” rockettari. Diciamo che questa dialettica fra rock e musica melodica, prima ancora di sostanziarsi in termini musicali, si presenta come conflitto spaziale (palco rock versus platea melodica). Non è insomma obbligatorio che la musica rappresentata possa essere archiviata come “vero” rock dagli intenditori, l’importante è la retorica che la costituisce, che punta tutto sul “disaccordo” e sul tradimento delle aspettative di genere fra scena e platea (e sì, ovviamente è significativo che stavolta non ci fosse, causa Covid, nessuno a protestare dall’altro lato della barricata). La canzone dei Måneskin cavalca, inizialmente, una dialettica così articolata facendone esplicito oggetto di discorso. Diciamo che il testo, a un certo punto, si presterà a essere letto come una sorta di imbrigliamento di una tale situazione comunicativa di conflitto fra scena e platea, proponendosi come discorso sul festival (e sullo show business in generale), fondato a partire da una ideologica contrapposizione fra un noi (artistico) e un voi (perbenista), salvo poi passare al vero obiettivo polemico che è rappresentato dal pronome loro. Se vista da questo punto di vista, la canzone costruisce un vero e proprio discorso kitsch, nella misura in cui drammatizza le dinamiche passionali interne della performance, avvitandosi su se stessa.
E cosa dice di questa situazione? Si può intanto registrare come a essere fatto oggetto di drammatizzazione sia la capacità del cantante di riuscire nell’esibizione. Egli assume la prima persona e si mostra sicuro di sé (“Scusami ma ci credo tanto che posso fare questo salto”) a un tu (a cui presto saremo in grado di dare un’identità), malgrado il fatto che egli sia convinto che loro non siano all’altezza di comprendere il messaggio artistico di cui egli è portatore (“loro non sanno di che parlo”). L’inizio del pezzo è, allora, segnato da una quadruplice organizzazione pronominale: da una parte c’è l’enunciatore (in prima persona) che si presenta come soggetto sul punto di esplodere, in impaziente attesa (fra una “siga” e l’altra), impegnato in un itinerario di formazione (“e anche se la strada è in salita, per questo ora mi sto allenando”), dall’altro, loro (di cui fino ad adesso sappiamo che non comprendono le istanze del cantante), c’è tu, ancora indeterminato, e, infine, un voi (la band?) che si caratterizza per il fatto di essere “sporco di fango”. Non sarebbe forse azzardato desumere che una tale notazione sulla sporcizia possa essere assunta in maniera euforica nella qualità di segno di autenticità per differenza rispetto alla leccata ipocrisia attribuita a “loro”. Arriva, comunque, il momento dell’esibizione, che viene segnalato dall’utilizzo del gergo teatrale (“signore e signori” “fuori gli attori”), espediente per evocare una concezione tradizionale del teatro borghese caratterizzata da una netta separazione fra scena e sala.
È così che si cambia registro enunciativo e il voi passa verosimilmente a indicare il rapporto con il pubblico in sala. È proprio a partire da questa organizzazione che può partire la provocazione anti-borghese (“vi conviene toccarvi i coglioni”, ovvero fare gli scongiuri nella misura in cui si tratterà di un’esperienza in qualche modo rischiosa, in cui meglio non assumere atteggiamenti conflittuali, “vi conviene stare zitti e buoni”). Ma come si diceva in apertura questa tensione fra platea e sala è solo iniziale, perché il vero obiettivo polemico è verso coloro che stanno nel retroscena. Il voi, infatti, si dilegua per lasciare, il posto a loro, “gente strana”, “come spacciatori” (e quindi cattivi). Sembrerebbe che a essere messo in questione sia un côté di “addetti ai lavori” imputato di rallentare l’affermazione dell’artista (“troppe notti stavo chiuso fuori”, “mo li prendo a calci ‘sti portoni”, mantenendo uno “sguardo in alto tipo scalatori”). L’enunciatore matura, insomma, la convinzione di aver raggiunto una sorta di consapevolezza artistica che si costituisce per differenza dalla mediocrità del mondo della musica professionale che, oltre ad apparire losco (“gente strana”), appare chiuso in se stesso e autoreferenziale. Da questo punto di vista, io capisce che per affermare se stesso (e riuscire a “entrare” nel mondo dello show business che conta) non può accontentarsi di bussare educatamente, quanto piuttosto procedere con le maniere forti (“mo li prendo a calci ‘sti portoni” puntando alla vetta, “sguardo in alto tipo scalatori”). L’alto diventa figura della purezza artistica contro il basso della mediocrità attribuita a questo fantomatico loro.
È a questo punto che spunta un altro personaggio. La vera chiave ideologica del pezzo. Ciò che rende, a dispetto delle apparenze, il suo portato perfettamente sanremese. È la mamma. Che si concretizza come riferimento della seconda persona (il tu) a cui il cantante si rivolge direttamente (“quindi scusa mamma se sto sempre fuori”). È lei la migliore alleata del figlio nella scalata alla realizzazione di sé (che, vale la pena notare, non si distingue da una scalata al successo).
Può giungere, quindi, il ritornello. Che è interessante, nella misura in cui vede il cantante-enunciatore narcisisticamente proiettare su se stesso il giudizio negativo, verosimilmente affibbiatogli da loro, di essere “fuori di testa”. Io brandisce un tale appellativo come una specie di medaglia al valore, di cui andare fiero, pur di sottolineare la propria differenza, di essere considerato “diverso da loro”. Ed è proprio su questa sorta di rivendicazione di un primato etico rispetto ai propri interlocutori che si costruisce la poc’anzi evocata solidarietà familiare fra madre e figlio in un noi inclusivo che fa emergere l’autenticità morale del noi (madre + cantante) per differenza rispetto alla falsità morale di loro. E allora questa autenticità (madre e figlio, ambedue “fuori di testa”) diventa il vero valore da preservare, in uno sforzo di mantenimento di sé contro le lusinghe di “corruzione” del mercato discografico.
I Måneskin si dipingono così come il vero partito degli onesti, basato sulla sostanza dei valori tradizionali della famiglia nonostante il loro ribellismo di facciata. Essere e sembrare vengono, insomma, capovolti: coloro che sembrano “fuori di testa” (mamma e figlio) in realtà sono gli unici (moralmente) presentabili laddove coloro che appaiono presentabili (“questi uomini in macchina”) sono in realtà nemici, ostacoli alla realizzazione artistica (o alla scalata al successo che, come si diceva, non si distinguono). Di nuovo torna la prima persona che contrappone il gesto creativo e sofferente dell’autore (“Io, ho scritto pagine e pagine”, “ho visto sale poi lacrime”) alla resistenza di chi oppone ostacoli, predicando di “non scalare le rapide” (ovvero di non rischiare). È allora che si staglia una via d’uscita all’orizzonte, legata a una sorta di ri-centramento psicologico dell’artista grazie al quale sarà in grado di abbattere qualsiasi ostacolo (“in casa mia non c'è Dio”, “ma se trovi il senso del tempo”, “risalirai dal tuo oblio”). Acquisire “il giusto punto di vista”, ricentrarsi, è la vera conquista dell’eroe che adesso può dare del tu alla propria controparte (“Se vuoi fermarmi ritenta”) ormai sopraffatta che, auspicabilmente non vorrà, per fermare il suo antagonista, arrivare fino alla sua uccisione simbolica (“prova a tagliarmi la testa”).
Di tutto questo patire, il pubblico, “la gente” è inconsapevole (e perché no, forse anche un po’ falza): “parla, la gente purtroppo parla, non sa di che cazzo parla”. Il verbo parlare è utilizzato qui in senso generico, si dice “la gente parla” intendendo “parla senza criterio”, senza conoscere i veri nodi del contendere. L’unico alleato in questa battaglia che aiuta il figlio a vederci chiaro è la mamma. A cui infine il cantante si rivolge per essere “salvato” dal soffocante velo di ipocrisia in cui è costretto a muoversi (“Tu portami dove sto a galla”, “che qui mi manca l'aria”). La loro alleanza è suggellata dall’ultima strofa del ritornello che chiude il pezzo: “noi (mamma e figlio) siamo diversi da loro”. È l’alleanza fra mamma e figlio la chiave di tutto. Sanremo ringrazia: primo posto.