Conversazione con Chiara Guidi / La voce in una foresta

29 Marzo 2018

È un prezioso libro rosso quasi quadrato, fuori formato, dal titolo lungo e cantante, incantato: La voce in una foresta di immagini invisibili. Lo ha pubblicato Nottetempo, lo ha scritto Chiara Guidi, che fu una delle anime della Socìetas Raffaello Sanzio, con Romeo Castellucci e con la sorella di lui Claudia. Ora hanno dismesso il nome del pittore dalla provocatoria bellezza e pure l’accento sulla ì: sono una Societas, una società o qualcosa di simile, una ditta (quanto fantastica, però). La vena creativa rimane, nelle tre voci, separate. 

Romeo ha appena firmato una regia a Amsterdam. Claudia e Chiara le abbiamo viste riunite da poco per Xing a Bologna con Il regno profondo. Perché sei qui, due clownesche sentinelle beckettiane su un podio, con la parola che ronza, che disloca, disgiunge, cataloga, incrina, domanda, che prova a scalfire di dubbi metafisici sul destino e la volontà una vita condannata, cui ci si può sottrarre solo con un sommesso sberleffo, un rantolo, un inspessimento vocale, un ghiribizzo fisico, un sospiro che incrini l’ordine del discorso. Claudia cerca i piedi di una danza arcaica, originaria, in scansioni che vengono dai versi classici. Chiara attraversa l’infanzia, il non dicibile, l’orrore di fronte al mondo che toglie la parola e la trasforma in stupore, e ricerca con voce, esperienza, corpo, grana, respiro, attraversamento. Di recente l’abbiamo vista nelle Fiabe giapponesi al Fabbricone di Prato coinvolgere ragazzi, attraversare la platea, sprofondarsi nel buio e nei colori di un’antica sapienza nascosta sotto storie e parole fantastiche, sempre in cerca della matericità di una voce che diventa presenza oltre il senso. E così è stato il concerto con il cello e i suoni elettronici di Francesco Guidi, a Teatri di Vita (ma gli spettacoli sono andati in scena anche dalle Briciole di Parma e al Comandini di Cesena). Ora con una nuova avventura ispirata al Macbeth di Shakespeare, da cui trasse qualche anno fa un lavoro meraviglioso, nero, femminile, dà il via all’edizione 2018 di Puerilia, in scena a Cesena fino al 20 maggio. Lo spettacolo inaugurale, il 25 marzo, si chiamava La pietra dello scandalo e coinvolgeva i ragazzi; il seguito del programma potete leggerlo qui. A maggio uscirà, finalmente, un libro che ripercorre la sua sperimentazione con l’infanzia, dedicato al suo teatro infantile, alla scuola a esso dedicato, al più recente “metodo errante” che crea cortocircuiti tra attori, bambini, adulti che li accompagnano nella didattica e nella vita.

 

Il regno profondo, ph. Luca Ghedini.


Torniamo alla Voce nella foresta, al libro rosso. Come dovrebbero fare i bei volumi, è uno scrigno. Un magico contenitore di esperienze filtrate in scrittura, accompagnate in genere nelle pagine a destra di fogli vergati a mano e fotografati riproducenti gli esercizi di voce che hanno dato vita alle riflessioni, agli appunti, alle conquiste documentate. Come tutti gli ottimi esercizi sono misteriosi e pressoché irriproducibili: vedi la fatica, la ripetizione, l’esplorazione, ma non hai fino in fondo le chiavi per riprodurli; come a dire che un buon metodo deve sempre diventare qualcosa di profondamente personale. Hai davanti come un corpo in azione e capisci che perché ritorni vivo devi filtralo nel tuo corpo, nella tua pratica. 

Chiara Guidi, un pomeriggio in treno, ci ha regalato una lunga conversazione sugli argomenti del libro, che si chiude con una lettera, “A te, povero attore”, segnata a mano su un foglio di quaderno e riprodotta in calce. Un invito che si apre così: “Attore, la mia attenzione va innanzi tutto alla tua voce, perché con il suono che genera il palcoscenico possa predisporre il pubblico all’ascolto e interrogarne lo sguardo. Tu suonala prima di entrare nella dimensione della parola e vedere come si articola e a cosa allude! Non nascondere la tua musica nella massa del testo. Non soffocare l’eco con definizioni e circoscrizioni”.

Suonare la voce. Entrarvi dentro e darle fiato, spazio, dimensione, relazione, profondità. Ma ecco la conversazione.

 

Fiabe giapponesi, ph. N. Gialain.


Cos’è la foresta di immagini invisibili nella quale si muove, per te, la voce?

Nel momento in cui sposti un po’ in là il significato delle parole e cominci a sentire che è la voce che le pronuncia, la voce in quanto strumento musicale, allora questa voce ha bisogno di una partitura che non può essere il significato, proprio perché la parola è spostata un po’ più in là e ha bisogno di una scrittura che non può essere fatta di segni tipo i neumi medievali, ma devono essere immagini. Quando iniziammo, nei primi spettacoli della Raffaello Sanzio, riuscivo a raffigurarmi il cammino della voce attraverso vettori, in alto, in basso, o con piccoli gorghi. Poi con il passare del tempo mi sono resa conto che c’era un’organicità che la voce poteva assumere e anche una forma fisica che poteva rimandare la voce analogamente a forme della realtà… che so, una voce velluto… una voce vetro… Mi sono resa conto che sulle parole che vengono pronunciate si sovrappongono immagini e che la voce cammina appoggiandosi sulle parole, vedendo queste immagini, che costituiscono una foresta. La voce è una foresta di immagini invisibili che la guidano nella pronuncia.

 

Che cosa è? Un fatto di timbro, di tono, di intensità?

È un fatto di timbro, tono, intensità e di spostamento, come il suono di uno strumento musicale. Non dici la parola in base al significato ma in base al suono che la voce pronuncia, perché essa può con la propria inflessione influenzare, cadenzare il significato, sottolinearlo, renderlo ancora più espresso. E questo è proprio del teatro. “Ah, sono morto”: un attore può dirlo in cento modi, è come suonare la parola. Come Rossini, nella Petite messe solennelle, nello Stabat Mater, non è mai troppo cupo.

 

Suonare la parola in questo modo ti porta lontano dal significato puro e semplice? 

Oppure scopri attraverso questo significato musicale della voce l’essenza sonora della parola, che restituisce, poi, un significato. La fatica del libro è il tentativo di spiegare un processo di lavoro personale, intimo, nascosto, che a volte ha bisogno di essere simboleggiato in segni astratti, perché non c’è nessun tipo di relazione tra la voce e i segni per identificarne gli spostamenti. Non è un libro di esercizi: è semplicemente il tentativo di addentrarsi con le parole dentro quel processo che permette alla voce di poter sostenere il peso della parola nella propria bocca e portare quella parola al di fuori del dominio della ragione. La parola è leggibile e illeggibile e la voce con la sua musica trasferisce il concetto non sul piano della rappresentazione ma su quello della manifestazione, perché è musica. La musica non ti fa vedere niente: ti fa piangere. È il gioco dei timbri e dei toni: negli spettacoli spesso cambio timbri e toni e ciò permette di destare l’attenzione con un trabocchetto sonoro.

 

A un certo punto scrivi che la voce è come un vento staccato da te…

Sì, perché la voce mi riconduce continuamente al respiro. Quando recitiamo spesso dimentichiamo che c’è il respiro, che è come un fluido che porta la parola e contiene già una presenza. È come un vento che ti trascina, come quando entri in una partitura, in una sinfonia, e ne esci solo all’ultima nota. Il teatro non è letteratura, non è sudditanza a un testo. Se metti l’accento sulla voce le parole diventano mondi di possibilità interpretativa. Mondi in potenza. La voce suona, è un monstrum, pura come Liszt che suona Petrarca.

 

Tavola del libro La voce in una foresta di immagini invisibili.


Quindi per te l’attore è un musicista?

Mio intento è ricondurre il teatro alla sua identità originaria che è musicale. Il testo come nell’antichità deve essere legato alla metrica, e quindi alla scansione ritmica. Noi di solito eliminiamo un passaggio fondamentale del ritmo, che è il silenzio, la durata del silenzio, che ha un disegno. Come fai a tenere una pausa lunga se non ha un disegno, pari almeno a quello che usi per pronunciare le parole? Io parlo di vento perché ho la sensazione che la voce sposti tra me e il pubblico una massa di aria che prende diversi colori, diverse accentuazioni. Il problema non è spiegare la parola: è suonarla.

 

Mi sembra che a un certo punto parli della voce come di un metodo per domare il teatro.

Il teatro si può affidare non solo alla consolazione di una trama e alla fedeltà a un testo: a esso è chiesto di ritornare a quella preistoria acustica che ha portato lo stesso Shakespeare a comporre le sue opere scegliendo delle parole e componendole in un intreccio. Dante sa bene l’orientamento, dove andare, ma si dà la regola dell’endecasillabo e dentro quella griglia sceglie le parole per la loro preistoria acustica, perché suonano bene là dentro. È un problema di tagli, di cesure, di finire la frase, di completare la metrica, spingerla nella frase successiva... Non c’è il problema della psicologia del personaggio, ma che due personaggi completino l’unità di misura metrica. Perché è poesia. E la poesia non è significato. La voce spinge a vedere in ciò che è leggibile l’illeggibile, perché tu quando stai poco bene cambi il suono di quello che dici e io capisco il tuo malessere dal timbro della tua voce, mi metto in ascolto, suono, capisco. 

 

A proposito di fisicità della voce, nel libro racconti di un urlo che hai sentito sul molo di Cervia, un giorno, un grido di disperazione di una madre che aveva perso la figlia.

È la parte del libro che mette a fuoco alcune scoperte per poter arricchire la gamma sonora dello strumento musicale voce. La bocca dell’attore è caos, è una voragine. A lui spetta la scelta del dire e l’opzione tra un timbro o un altro è una scelta del modo di suonare. Alla fine del libro c’è una lettera all’attore, che prova a mettere a fuoco una visione. Scegliere se essere uno strumento o un altro, o se stare in equilibrio tra varie possibilità è un orientarsi in una gamma espressiva. 

 

Tavola del libro La voce in una foresta di immagini invisibili.


L’attore quindi è un compositore o un esecutore?

Io sono figlia di un teatro di compagnia: ho bisogno di una linea di regia che regga la messinscena di un lavoro, sento la necessità di un attore temperato dalla luce, di una luce temperata dalle azioni, di un’armonia, di un organico. L’imitazione serve all’attore per ampliare la gamma espressiva in modo tale da avere a disposizione più possibilità per la creazione, per il significato.

 

Stiamo parlando di una dissoluzione o di un’amplificazione dei significati?

Forse è più giusto parlare di un segno che non dice né nasconde ma indica, senza spiegare. Opera un silenzio del senso che ti obbliga ad accettarti e ad aspettare che tale senso si manifesti o che tu riesca a coglierlo. Non si appoggia sul riconoscimento della trama. Al pubblico è richiesto di riconoscere quel suono. Non è la voce la musica ma questa connessione, un procedere non per sintonia ma per differenza.

 

Cosa è per te il lavoro su Dante?

Il suo poema non si può toccare, non se ne può sottrarre una parola o una parte. Lo sforzo è trovare il suono della voce unito al suono del verso. L’attore di solito si pone il problema di come interpretare il significato, con quale struttura psichica, con quali sottotesti emotivi. La voce si serve di immagini invisibili rispetto alle parole scritte.

 

Esercizi su Dante, ph. Pietro Castellucci.


Tu dici che la voce diventa catena di consonanti, che un suono viene generato da un altro suono, in una generazione continua, basata sulla pratica, sul farsi risuonare la voce… Il libro è anche un cammino autobiografico nelle tue ricerche sulla voce.

Nasce da un percorso lungo molti anni, attento al processo anziché agli oggetti finali. Gli spettacoli per me sono processi aperti, in un tormento della forma che è esercizio quotidiano, a casa, in ogni ora della giornata, alla ricerca dei suoni nascosti che l’attore deve indossare. La voce è un’ottica. Io guardo il mondo attraverso la voce e l’infanzia, collegate per la loro evanescenza: la voce non ha consistenza, l’infanzia, l’in-fans, non ha linguaggio. Entrambe non stanno sotto i grandi riflettori e non si avvalgono di processi consci. La voce vive nascosta, sotterranea: tu non senti la voce, senti la parola, ma devi lavorare sulla voce per sollevare le parole dal libro e farle camminare. Un altro elemento lega voce e infanzia: la narrazione. Raccontare è come ripetere esperienze, educare. La voce degli insegnanti spesso è al servizio della logica, mentre deve riscoprire la voce e il silenzio. Quando recito cerco di creare il vuoto, uno spazio di assenza per garantire la possibilità di attesa. Se riempi, riempi, non hai più nulla da aspettarti.

 

A te, povero attore!


La lettera agli attori?

L’ho scritta nel marzo del 2015, mentre lavoravo al Macbeth. Chiede all’attore di prendere in mano la propria voce, come il danzatore fa con le parti del proprio corpo. L’attore deve conoscere il proprio corpo e sapere qual è il punto di attacco della propria voce. L’intonazione giusta può derivare da un gesto che nessuno vede. Ecco la foresta di immagini invisibili. Esiste e non si vede. È come un direttore d’orchestra che dà la temperatura giusta, perché la voce riscalda. Come il fiato degli animali riscaldava il piccolo Gesù.

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