Le monachine del monastero di Torba
Magistra Aliberga poteva avere all’incirca una quarantina d’anni. Era robusta, ma non grassa. Nulla la distingueva dalla consorella che aveva accompagnato l’emissario dell’arcivescovo in parlatorio, se non la croce pettorale, più grande e più preziosa. Per il resto, indossava il medesimo saio di stamigna nera consunto dall’uso e un analogo soggolo. Se non fosse stato per la croce e per i tratti aristocratici del suo volto – un naso dal taglio dritto e volitivo e una bocca ferma e sottile – avrebbe potuto essere scambiata per una monaca qualsiasi. Portava le maniche arrotolate fino al gomito, che le lasciavano scoperti due avambracci muscolosi e appariva accaldata. Per nulla turbata dallo sguardo indagatore di chi le stava di fronte, si lasciò cadere sulla panca.
Monastero di Torba (Va), affresco raffigurante la badessa Aliberga, primo piano del torrione. (ph. MLG)
«Ah, che frescura qui dentro!» esclamò con un sospiro di piacere, quindi, levato di tasca un grande fazzoletto di ruvida canapa, vi si deterse le mani sudate.
«San Benedetto ci insegna che l’ozio è nemico dell’anima» soggiunse. «Per questo motivo la nostra Regola, oltre alla preghiera, contempla anche la dedizione al lavoro e io ho un gran daffare per insegnare entrambe le cose alle mie novizie.»
Istintivamente l’emissario dell’arcivescovo la giudicò simpatica. Sapeva che la badessa discendeva da nobili lombi. Su di lei circolavano parecchie dicerie che la volevano potentissima e piuttosto temibile. Perciò si era aspettato di trovarsi di fronte una nobildonna altezzosa e superba e non quella donna semplice ed energica, con gli occhi più eloquenti che mai gli fosse capitato d’incrociare: erano neri e lucidi e vi traspariva una volontà ferrea. In quel momento li aveva appuntati su di lui.
«E così voi siete uno dei famosi Obertenghi.»
«Perché famosi?» si schermì l’uomo in evidente imbarazzo.
Prima di rispondere, la badessa ripose con tutta calma il fazzoletto in una tasca del saio.
«Oh, via, lo sapete benissimo a cosa mi riferisco. In alto loco non si fa altro che parlare della vostra famiglia e dei suoi rapporti con re Berengario II.»
L’Obertenghi era arrossito. Mai si sarebbe immaginato che l’eco delle imprese del suo signor padre avesse potuto oltrepassare addirittura le mura di un chiostro.
Notato il suo disagio, Aliberga gli sorrise.
«Vi starete di certo domandando come faccia una povera monachina a sapere quel che si dice e non si dice in giro… Be’, anche se noi viviamo isolate dal mondo, con esso dobbiamo pur fare i conti, siamo in sua balia... È un mio preciso compito difendere le mie consorelle e proteggerle. Come dicevano gli antichi? Ah, sì. Si vis pacem, para bellum. E io mi preparo, non alla guerra – questo mai! – ma a difendere la pace che regna tra queste mura, in modo, diciamo... agguerrito.» Rise.
La prima impressione dell’Obertenghi si rafforzò. Quella monaca gli piaceva. Infagottata nel suo saio nero, irradiava un alone di forza e un magnetismo interiore irresistibili. Non dubitava che ne avesse ingaggiate di battaglie per preservare le sue consorelle dalle brutture del mondo che stava al di fuori delle mura protettrici del convento. Anzi, pensò che la reale barriera difensiva, il vero baluardo che proteggeva coloro che le erano state affidate fosse proprio lei, con i suoi occhi vigili e il suo intelletto acuto e – perché no? – anche con la sua lingua tagliente.
«Allora? Che ne pensa sua grazia l’arcivescovo? Glielo concederà?» continuò la badessa, che, saltato ogni preambolo, era entrata subito in argomento.
«Reverendissima madre, la questione è piuttosto complessa. Persino Epifanio di Salamina ha lasciato scritto che: “le donne sono di razza debole, indegne di fiducia, di mediocre intelligenza.” Come potrebbe, dunque, una donna …»
«Gertrude non è una donna qualunque» insorse Aliberga. «È una nostra consorella, per di più è una vera artista. Dio guida la sua mano. Venite a vedere. Giudicherete voi stesso. Se sua grazia ha incaricato voi, significa che si fida del vostro parere.»
La badessa aveva dell’arcivescovo un’opinione altissima, sapeva che era uno scrutatore d’anime.
Monastero di Torba (Va), affresco della sala superiore del torrione. (ph. FAI)
Sorella Gertrude posò i pennelli e si guardò attorno. Si trovava nella sala superiore del torrione del monastero, un ambiente quadrato, di circa sei metri di lato, che aveva appena finito di affrescare. Il suo lavoro era durato più di un decennio. Dacché lo aveva iniziato, difatti, lo aveva interrotto e ripreso più e più volte, a causa della dispensa arcivescovile prima concessa, poi negata, quindi riconcessa, rinegata e infine definitivamente accordata. Purtroppo non le era stato possibile affrescare la chiesa. “Tantummodo in turre” recitavano indistintamente tutti i placet dei vari arcivescovi che si erano succeduti in quel lasso di tempo. Era già un miracolo che a una donna, per giunta monaca, fosse stato consentito di dipingere le pareti dell’oratorio e se ciò era avvenuto lo si doveva unicamente all’inossidabile tenacia di magistra Aliberga – pace all’anima sua. Merito della colta badessa era anche il complesso programma iconografico di quella camera picta che ora sorella Gertrude contemplava, ammirata, quasi non ne fosse stata lei l’artefice. E, per riconoscenza, aveva voluto dedicarle il bel ritratto che ora campeggiava su una parete del primo piano del torrione, là dove Aliberga dormiva il suo sonno eterno.
Gertrude fece correre attorno lo sguardo e lo soffermò dapprima sull’imponente Deesis che occupava la parete est, in cui un Cristo benedicente era assiso in trono tra la Vergine e il Battista. Di seguito lo rivolse alla parete nord, dove aveva effigiato il Tetramorfo, ovvero la rappresentazione di Gesù circondato dai quattro animali apocalittici e da lì alla parete sud, su cui spiccava una Madonna col Bambino alla quale un devoto, uscito da un corteo di santi e di ecclesiastici, porgeva un cero. Tra le due finestre, di sua propria iniziativa, aveva poi dipinto san Biagio, il santo protettore della gola e quindi dell’ugola, a prolusione della scena da lei stessa concepita e affrescata sulla parete ovest e che esulava dal dettato di Aliberga.
Vi aveva riprodotto otto monachine a figura intera, colte nell’atto di compiere con le mani dei gesti garbati e apparentemente muti. Essi non erano però silenti, e neppure banalmente eleganti e nemmeno casuali. In loro, invece, l’inclinazione delle mani racchiudeva un preciso significato, così come ne aveva lo sfioramento del dito medio piuttosto che dell’indice, dell’anulare, del pollice oppure del mignolo. Ciascun gesto, infatti, denotava un suono preordinato nella chironomia monastica ed era lo stesso che il direttore di un coro faceva per guidare i propri coristi ad intonare all’unisono una salmodia. Le otto monachine che Gertrude aveva dipinte altre non erano, infatti, se non le sue proprie consorelle e precisamente le otto componenti del coro conventuale da lei stessa diretto. Otto voci per otto toni, come prescriveva il canto ambrosiano e quei gesti rappresentavano le notazioni musicali – chironomiche, appunto – delle quali anche lei si avvaleva per dirigerle quando voleva suggerire loro l’andamento ascendente o discendente di un suono, scandirne il tempo, accentuarne i melismi o contrassegnare gli intervalli di silenzio.
Soddisfatta del risultato ottenuto, la monaca pittrice uscì dalla stanza e tornò a dedicarsi agli uffici che la Regola Benedettina le imponeva, non prima però di essere passata a rendere omaggio alla tomba della sua amata badessa, alla quale volle accendere un cero.
(ph. MLG)
Per molti secoli a seguire, dall’alto del torrione del monastero di Torba si udì provenire una melodia ripetuta, intonata da voci di donna modulate all’unisono e da lì echeggiare per la valle circostante. Anche oggi, nella bella stagione, ad un’ora precisa dell’alba, quando i raggi del sole nascente attraversano la finestra aperta sulla parete est del piano alto di quello stesso torrione e lambiscono le mani delle monachine che vi sono affrescate dirimpetto, chi si trovasse a passare di lì avrebbe ancora l’impressione di udirne il perpetuo canto.