Le parole di Beethoven
L’argomento è bizzarro e futile: come si mangia la pelle della salsiccia? Insieme alla carne o da sola? Ne discutono in una trattoria di Vienna, nei primi mesi del 1818, un ragazzino di 12 anni e suo zio, non ancora cinquantenne. Oggi sappiamo di quella conversazione perché si svolse in un modo decisamente insolito: il bambino scriveva su un quaderno (arrivato fino a noi) quel che aveva da dire, perché lo zio – che era anche il suo tutore – era completamente sordo. Quest’ultimo, però, gli rispondeva a voce, e quindi lo scambio risulta incompleto a chi legge oggi quelle righe. Non sappiamo che cosa di preciso diceva l’adulto, anche se naturalmente lo possiamo intuire, perché a un certo punto il ragazzo afferma deciso, cioè scrive, che «la pelle senza la salsiccia è buona, però con la salsiccia è più gustosa della carne da sola». Il nocciolo della questione è un altro, il nipote non vuole darla vinta allo zio: «Se una persona ha l’abitudine di fare una cosa in un certo modo, un’altra persona non può farla in modo diverso?».
Il primo Quaderno di conversazione di Beethoven comincia così, con un banale screzio familiare, che tuttavia per ogni lettore di una qualsiasi biografia beethoveniana risulta immediatamente premonitore. Perché è ben noto che nell’ultimo decennio della sua vita il compositore fu largamente assorbito, e non di rado travolto, dai problemi causati dalla tutela del nipote Karl, nato nel 1806, figlio di un suo fratello minore prematuramente scomparso. Una questione dai molteplici e complessi risvolti anche giudiziari, nella quale Beethoven – a vedere la cosa con gli occhi di oggi – non fa certo una bella figura. Durissima e opprimente l’intransigenza nei confronti del nipote; sempre evidente e quindi fonte di ulteriori sofferenze, il suo atteggiamento non solo aspramente critico, ma vendicativo e persecutorio nei confronti della madre del giovane, alla quale aveva deciso di sottrarlo. La riteneva “indegna” e di moralità riprovevole, anzi inesistente. Una prostituta, insomma.
La storia avrebbe rischiato di finire in tragedia molti anni dopo quel pranzo in trattoria, quando il nipote esasperato si sarebbe sparato un colpo di pistola alla testa, senza peraltro troppo gravi conseguenze. E solo la scomparsa del musicista – il 26 marzo 1827 – avrebbe appianato la situazione. Grazie all’eredità lasciatagli dallo zio, Karl Van Beethoven sarebbe vissuto di rendita per il resto della sua vita (morì nel 1858), dopo che in precedenza aveva tentato senza successo molte strade diverse. Sposatosi, avrebbe avuto cinque figli, fra i quali un solo maschio, chiamato Ludwig.
Quanto alla madre, Johanna Reiss, avrebbe dovuto attendere un secolo e mezzo per ottenere un’almeno parziale riabilitazione da parte del musicologo americano Maynard Solomon, che ha teorizzato anche come il dichiarato odio di Beethoven nei confronti della cognata potesse, freudianamente, essere la copertura di una forte emozione positiva. A metà degli Anni ’90 il cinema sarebbe andato oltre con un film non memorabile ma singolare del regista inglese Bernard Rose, intitolato Amata immortale. Vi si sostiene che l’anonima destinataria della celebre lettera d’amore mai spedita da Beethoven, trovata fra le sue carte dopo la morte, sarebbe stata proprio la disprezzata cognata…
Tornando ai Quaderni di conversazione di Beethoven, si tratta di documenti biografici a loro modo unici, allo stesso tempo rivelatori e di interpretazione problematica, spesso ardua, sempre insidiosa proprio per il fatto che la “voce” di Beethoven, ovvero il suo pensiero, è quasi sempre assente. Per quello, restano fondamentali e indispensabili le oltre 2.000 lettere scritte nel corso della sua vita. Certo, non mancano considerazioni di pugno del compositore, appunti anche musicali, ma la maggior parte di questo assai considerevole malloppo di carte più o meno ben assemblate, costituito da 139 Quaderni, offre una storia continuamente interrotta e frammentaria, scritta da una piccola folla di personaggi noti e meno noti. Uno squarcio di vita vissuta dal 1818 al 1827 a Vienna e in qualche centro dei dintorni, ma specialmente negli innumerevoli appartamenti abitati dal musicista, che era solito traslocare con una frequenza impressionante e non ebbe mai una casa di proprietà.
Lungo le pagine di questi taccuini di piccole dimensioni (in genere sono larghi 12 centimetri e alti 18) i problemi domestici e quelli economici si incrociano con le considerazioni sulla musica e sulla letteratura, sulla vita teatrale, sulla politica e la storia, sugli avvenimenti del giorno. L’alto e il basso nell’esistenza di un genio della musica, che aveva deciso di utilizzare questo mezzo per comunicare con i suoi contemporanei dopo avere preso atto del fatto che la sua sordità gli impediva definitivamente di farlo in maniera naturale o anche utilizzando strumenti più o meno sofisticati.
Una traduzione “tale e quale” dei Quaderni sarebbe impresa inutile oltre che ardua. Il primo che provò a realizzarne un’edizione almeno parziale fu Piero Buscaroli, che nel 1956 propose a Leo Longanesi la sua versione di una traduzione francese di dieci anni prima, curata da Jacques-Gabriel Prod’homme. Era ancora lontana l’epoca dell’edizione critica, iniziata negli anni ’70 e completata in Germania solo nel 2001. “Non si capisce niente”, fu la risposta di Longanesi, e il progetto rimase al palo. Nei primi ‘60, mentre a Torino usciva una traduzione delle annate fino al 1823, a cura del musicologo Guglielmo Barblan, i Quaderni di conversazione diventarono il cavallo di battaglia di Luigi Magnani: Beethoven nei suoi quaderni di conversazione fu pubblicato nel 1962 da Ricciardi a Napoli, poi nel 1970 da Laterza e nel 1975 da Einaudi. Nel frattempo, il critico reggiano aveva vinto il Premio Campiello 1973 con il romanzo Il nipote di Beethoven, pubblicato sempre da Einaudi ed evidentemente legato agli studi su questa figura, centrale nei Quaderni e nella biografia beethoveniana.
Da allora, però, più nulla fino alla recentissima edizione a cura e con la traduzione di Sandro Cappelletto, pubblicata ancora da Einaudi nella storica collana “Gli Struzzi” (Il testamento di Heiligenstadt e Quaderni di conversazione, Einaudi 2022, pagg. 454). Il volume comprende anche la nuova traduzione di un celeberrimo autografo beethoveniano, la fin troppo citata lettera ai fratelli scritta da Beethoven nell’autunno del 1802 e anche questa mai spedita e quindi trovata fra le carte del musicista dopo la sua morte, universalmente nota come Il testamento di Heiligenstadt, dal nome del piccolo centro vicino a Vienna dove fu composta.
La relazione fra i due documenti è implicita: il Testamento contiene la prima e più drammatica confessione della sordità che affliggerà sempre più gravemente il musicista per il resto della sua vita, insieme all’eroica decisione di non arrendersi al destino in nome dell’arte; i Quaderni sono per molti aspetti la documentazione della vita da sordo di un sommo artista, accettata e condotta con coraggiosa sopportazione.
Sandro Cappelletto, fra l’altro voce notissima agli ascoltatori di Rai Radiotre (per i quali ha realizzato alla fine del 2020 quattro corpose conversazioni sul tema), è autore che coltiva con efficacia l’equilibrio fra le ragioni della divulgazione e quelle del rigore e dell’approfondimento scientifico. A differenza di quanto aveva fatto Magnani, che aveva scelto di suddividere il suo discorso per argomenti supportati dal collegamento con quanto si trova nei Quaderni (i capitoli recano titoli come “Ideali sociali e passione politica”, “Il problema dell’opera”, “I due principi della forma sonata”, “La genesi dell’idea e la Missa Solemnis”), la ricognizione di Cappelletto è rigorosamente cronologica, suddivisa per annate, fino agli ultimi mesi. Il discorso sull’arte e sulla musica (compresi i problemi esecutivi e le considerazioni sui pianoforti) è onnipresente ma non esclusivo. Quello che emerge dalla lettura è piuttosto una sorta di diario di Beethoven narrato per interposta persona. E in certo modo, chi scrive sui Quaderni assurge al ruolo di “cronista” dell’attualità, sia essa quella viennese degli anni Venti dell’Ottocento o quella personale e familiare del musicista. Quanto mai opportuno oltre che utile, da questo punto di vista, l’elenco dei personaggi più significativi di questa sorta di “commedia umana” molto particolare, che apre il percorso nei Quaderni delineato da Cappelletto.
Oltre al nipote, la figura più importante è quella di Anton Schindler, violinista e direttore d’orchestra, per vari anni, non senza screzi e interruzioni, principale “famulus” del compositore, sia per le questioni pratiche che per quelle mediche e soprattutto per quelle artistiche. Nelle quali ultime, peraltro, emerge la sua sostanziale mediocrità, l’effettiva incapacità di capire la musica di Beethoven. Incapacità nella quale era in buona compagnia: dal 1818 in poi, nella Vienna della Restaurazione e del gusto piccolo borghese noto come Biedermeier, il cosiddetto “tardo stile” di Beethoven doveva sembrare qualcosa di alieno, di ineffabile e inafferrabile. Solo poche menti acute e aperte ne erano consapevoli, e questo emerge nitidamente nella narrazione di Cappelletto, ricca e precisa nel collegare i testi dei Quaderni con gli eventi culturali e politici, illustrando le personalità creative dell’epoca e raccontandone le vicende artistiche.
Schindler è figura centrale anche nella storia dei Quaderni dopo Beethoven. Consegnati a lui come emolumento per l’assistenza al compositore pur appartenendo al nipote Karl, che era l’erede universale, i manoscritti furono venduti dopo una trattativa durata alcuni anni (siamo ormai alla metà dell’Ottocento) alla Biblioteca Reale di Berlino, “per farsi la pensione” (obiettivo raggiunto: 2.000 talleri subito, 400 all’anno di rendita vitalizia). A conti fatti, i Quaderni sono rimasti nella disponibilità di Schindler per quasi un ventennio, durante il quale li ha postillati, “corretti”, tagliati e censurati, molto probabilmente in vari casi distrutti. Anche se sembra poco plausibile (non fosse che per motivi economici, come giustamente annota Cappelletto nella densa introduzione del volume) che la soppressione riguardi addirittura oltre duecento quaderni. I 136 consegnati a Berlino in questa ipotesi diventerebbero addirittura circa 400, numero indicato dallo stesso Schindler durante le sue conversazioni con uno dei primi biografi beethoveniani, l’americano Alexander Weelock Thayer. Ma resta il fatto, ad esempio, che per l’anno 1821 non esiste oggi alcun Quaderno, e per il 1822 soltanto due.
Questi vuoti non rendono meno affascinante il viaggio che attraverso i Quaderni il lettore può compiere negli ultimi anni di Beethoven. In questa edizione le sottolineature e gli approfondimenti del curatore sono utili anche per cogliere la temperie sociale e politica nella capitale dell’Impero dopo il Congresso di Vienna: una città colma di spie e controllata da una polizia occhiuta e sospettosa, oppressa da una censura pedante e onnipresente (se ne lamenta specialmente il poeta Franz Grillparzer) nella quale a casa del compositore si recano in visita (e scrivono sui Quaderni) nostalgici di Napoleone e spiriti “rivoluzionari” pronti ad entusiasmarsi per i primi moti liberali che attraversano i regni europei a partire dal 1820-21, le cui cronache sono seguite e discusse con evidente interesse.
Ma grazie a Cappelletto è parimenti chiaro il percorso creativo di Beethoven. Oltre il perenne arrabattarsi del musicista, da un lato con editori sparsi in tutta Europa e dall’altro con nobili e teste coronate alla ricerca di improbabili “sottoscrizioni” per lavori ancora di là da venire, questi sono gli anni in cui nascono la Missa Solemnis e la Nona Sinfonia, le Variazioni Diabelli e gli ultimi Quartetti, mentre approdano alle stampe le ultime prodigiose Sonate per pianoforte. E peccato che nel libro non sia presente, oltre a quello dei nomi, un indice delle composizioni citate, che sono numerose e non tutte conosciute come quelle elencate sopra: sarebbe stato un utilissimo strumento di “navigazione” nel mondo creativo del musicista.
Beethoven parla di musica e pensa in musica, ascoltando il suo efficacissimo “orecchio interno”, ma vive nel mondo. Si lamenta dell’inflazione, se la prende con il governo che rischia la bancarotta facendo perdere un sacco di soldi ai risparmiatori, si indebita, cerca modi per far fruttare le preziose azioni bancarie che permetteranno al nipote di vivere senza problemi, licenza e assume cuoche e domestici, litiga e si rappacifica con suo fratello, mangia male e beve peggio, comunque troppo, viene curato anche da quattro medici contemporaneamente, subisce tre interventi chirurgici a domicilio per l’eliminazione dei liquidi creati dalla devastante cirrosi epatica che lo sta conducendo alla tomba.
Così, a chi legge questo libro vivido e partecipe, può quasi sembrare di assistere allo spegnersi doloroso del “generale dei musicanti”, mentre i visitatori che si recano nel suo ultimo alloggio, ricavato dove una volta c’era il convento dei frati chiamati “Spagnoli Neri”, cercano di rassicurarlo parlando – ovvero scrivendo su un Quaderno di conversazione – del più o del meno, di novità nel mondo della musica, di cure per le sue gravi patologie. Parole in ascolto che sono patrimonio di tutti, come l’arte del genio che non poteva udire, al quale erano destinate.